Possiamo continuare a disquisire di etica da qui all’eternità , se sia doveroso o meno agire per mitigare il presunto impatto delle attività umane sul clima, se questa azione debba essere prioritaria rispetto a ben altre e ben più accertate necessità di portata globale, tra cui naturalmente la povertà , la fame e la salute. Si possono fare fior di convegni e decine di summit, ma nel mondo reale le decisioni prese hanno poi sempre delle conseguenze.
E così se su base puramente etica si è deciso alcuni anni fa di intraprendere un percorso di presunta mitigazione dell’impatto antropico sul clima, ora sta per arrivare il momento di metter mano al portafogli, e chissà che qualcuno non stia pensando di rivedere i confini dei propri nobili ma labili intendimenti etici. A direil vero sembrerebbe proprio di sì.
Dal 1° gennaio del 2013, un terzo dei certificati di emissione che le aziende che producono energia elettrica dovranno procurarsi per continuare la loro attività , nel rispetto delle normative sottoscritte in sede UE, saranno a pagamento. Leggiamo su questo articolo uscito su La Stampa, che per l’Italia si tratta della bellezza di 2 mld di Euro. Per fronteggiare questo aggravio dei costi di produzione si stima che potrebbe essere necessario un ritocco alle bollette delle utilityes attorno al 10%. Chi avesse ancora qualche dubbio circa chi saranno i proprietari delle tasche che finiranno per pagare la lotta all’AGW direi che può dirsi servito.
E dunque, che fare? Le strategie di cui leggiamo nell’articolo sono sostanzialmente due, tentare di rinegoziare gli accordi al ribasso per guadagnare tempo, oppure spingere nella direzione di una massiccia applicazione di tecniche di cattura e immagazzinamento delle emissioni, da affiancarsi ad altrettanto massiccia attività di delocalizzazione della produzione. Nel primo caso la vedo scura, perchè il 2013 è praticamente domani. Nel secondo la vedo nera, perché qualcuno dovrebbe spiegarci che senso ha ridurre le emissioni da una parte per aumentarle dall’altra -pagando- visto che poi quella CO2 sempre in atmosfera andrà a finire, con tanti saluti alla salvaguardia del clima per chi ci crede.
Il potenziale di riduzione delle emissioni del nostro paese, senza far ricorso al Ccs (carbon capture and storage) è più di cinque volte inferiore a quanto sarebbe necessario per giungere all’obbiettivo del 20-20-20 (che per noi è in realtà 17-20-20 in ragione dei risultati acquisiti con la trattativa dell’anno scorso). Altra possibilità , da intendersi ovviamente complementare e non esclusiva, è quella per le nostre aziende di realizzare progetti di riduzione delle emissioni in altri paesi; impianti eolici in Albania per esempio, oppure realizzazione di impianti a carbone pulito in Cina, come sembra si accingano a fare il gruppo Moncada e l’Enel rispettivamente. Così, l’eventuale ricaduta occupazionale finirà per andare a beneficio di altri paesi, con tanti saluti alla convenienza dell’eco-business, sempre per chi ci crede.
Di tutt’altro segno invece quanto si legge in questo articolo uscito su La Repubblica, in cui leggiamo che l’impegno nei settori dell’energia rinnovabile e le politiche di risparmio/efficienza energetica potrebbero portare il PIL a crescere del 3% nel 2015 e addirittura del 7% al 2025. Si tratta di un rapporto del Cer (Centro Europa Ricerche), un operatore privato, secondo cui, ad oggi, avremmo visto solo il rovescio della medaglia, ovvero la riduzione delle emissioni causata dalla grave contingenza economica e produttiva, mentre una massiccia politica di investimenti ripartiti in 53 mld di Euro per le risorse rinnovabili, 23 mld per il nucleare e ben 104 mld per il risparmio energetico, consentirebbero al settore di diventare un vero e proprio carburante per l’economia, permettendo al deficit generato da questi investimenti di essere ripianato nel tempo dalla crescita occupazionale.
A chi dar retta? Sinceramente non saprei. Nel frattempo, Pantalone continua ad essere di gran moda.
[…] alla generazione di energia, alla sua distribuzione ai consumatori, alle tasche degli stessi. Come avevamo accennato qualche giorno fa, siamo alle porte della prima scadenza del famigerato proto-obtorto-collo. Per evitare un aggravio […]
[…] abbiamo già sottolineato in questo post solo pochi giorni fa, i nodi stanno venendo al pettine. Alcuni sembra abbiano iniziato a […]
Presentato così, con le incertezze sull’attribuzione dell’eventuale GW, e sui meccanismi della stessa variabilità climatica, la questione ha poco senso, anche perché non tocca il cuore del problema che è la disponibilità di energia.
In altri termini: una cosa è il AGW, su cui si può (si deve) discutere, certo al di là della “chiesa” CO2-ista; un’altra cosa è il declino delle fonti energetiche fossili e nucleare, che mi pare molto più fondata e urgente.
Se l’energia eolica ha ormai raggiunto (da anni) la grid parity (ovviamente dove c’è vento sufficiente) e l’energia solare fotovoltaica la raggiungerà entro 3-4 anni al massimo (ovviamente dove c’è sole), per non parlare dell’idroelettrico, non mi pare che qualche anno ancora di incentivi *sociali* (più che pubblici, ved. conto energia e simili) ai nuovi impianti costituiscano un problema, essendo un dato di fatto l’efficacia, nelle economie avanzate, dell’incentivo ai settori emergenti (e non solo, ovviamente, alle nuove fonti rinnovabili). Purché la questione sia affrontata con una visione più ampia, soprattutto nella necessaria ristrutturazione fisica e logica delle reti di dispacciamento e scambio dell’energia elettrica.
In questo senso, molto meglio certamente spendere qualche miliardo di euro per la rete e gli incentivi (residui) alle nuove FER che per le quote di emissione…
Un posto di lavoro può essere vero o fasullo.
Un posto di lavoro “vero” è un posto che produce ricchezza, e questo tipo di posti causa l’aumento di posti di lavoro.
Chi lavora mangia da qualche parte, si diverte, compra, viaggia…insomma induce lavoro e guadagno anche negli altri.
Naturalmente questo effetto sarà tanto più marcato, quanto più “veri” e numerosi saranno i posti di lavoro.
Un posto di lavoro può però essere “fasullo”.
Fasullo, nel senso di non produrre ricchezza, ma di pesare sul portafoglio di Pantalone.
Posti di lavoro “politici” (nel senso di “non basati su ragioni economiche”), con tanta gente che percepisce stipendio, crea comunque un indotto, che si creerebbe comunque, se questa gente andasse a fare un lavoro veramente costruttivo, ma pesa sul portafoglio di Pantalone…non si regge con le proprie capacità , non crea ricchezza, la consuma soltanto, la sottrae a campi più produttivi.
Finché questi lavori parassitari (nel senso che non producono una propria ricchezza, ma utilizzano quella altrui) sono pochi, la Società non ne riceve un danno eccessivo.
Ma se si punta in maniera massiccia su questa soluzione, dandone la dignità di “creazione di posti di lavoro” (fasulli),
allora
i guai sono dietro l’angolo, quando la perdita di competitività potrà avere ricadute pesanti sulla stessa occupazione che si vantava di aumentare.
Spendere quattrini va bene, anche essi mettono in moto le attività e creano ricchezza,
ma
se non c’è un ritorno, alla fin fine questa politica economica mortifica il mercato, e le attività “vere”, che a volte trovano una concorrenza sleale in persone meno capaci, ma più sovvenzionate.
Alla lunga, la ricchezza prodotta non riesce a reggere il peso della ricchezza spesa in troppe attività fasulle, e si ha quel regresso che tanto piace a certi ambientalisti (forze conservatrici), e a cui sembrano pazzescamente puntare.
Secondo me.