Questa frase conclude un articolo di L. Gordon Crovitz, uscito sul Wall Street Journal Europe qualche giorno fa di cui vi consiglio la lettura e su cui vorrei fare alcune considerazioni.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad un fenomeno piuttosto inatteso. L’aspettativa sugli esiti della conferenza di Copenhagen ed il coinvolgimento dell’opinione pubblica sulle problematiche del clima erano al limite del parossismo, poi il vento del consenso è improvvisamente cambiato, quasi come se seguisse i capricci del vento atmosferico. Chi è più addentro alle tematiche atmosferiche sa che il vento non cambia per capriccio, ma per ragioni molto precise, che poi si riesca o meno a comprenderle è un’altra questione.
Credo si possa dire la stessa cosa per il vento del consenso. Se nell’arco di appena tre anni, dal 2007 ad oggi, siamo passati dall’inequivocabilità delle origini antropiche del riscaldamento globale alla sensazione opposta ed alla caduta dell’interesse del pubblico su questi temi, di certo non si è trattato di un caso. E le ragioni non sono tutte scientifiche. Anzi, direi che fuori dal contesto degli addetti ai lavori, i dubbi di ordine scientifico sono trapelati (o sono stati fatti trapelare, decidete voi) soltanto nelle ultime settimane.
In realtà la musica è cambiata quando la componente politica ha di fatto ritirato il suo appoggio al movimento dell’AGW, dopo averlo per anni blandito, corteggiato e sostenuto, individuando in esso un potente sistema di indirizzo della pubblica opinione verso politiche di spesa altrimenti ingiustificabili ma sostenute da allettanti strumenti di tassazione a loro volta ritenuti necessari in nome della giusta causa della salvezza del pianeta. Purtroppo (o per fortuna, anche qui ognuno giudichi come crede), queste politiche hanno incontrato la dura realtà di una contingenza economica che ha ristretto enormemente gli spazi di manovra, rivelando al contempo la fallacia di prospettive di sviluppo all’insegna di una sostenibilità più vagheggiata che reale, che non possono essere sostenute né da chi dovrebbe compiere lo sforzo di cambiare un modello già consolidato, né da chi a questo modello, pur se a passi da gigante, ci si sta avvicinando solo ora.
E così, se prima era stata la politica ad esigere che la comunità scientifica si esprimesse attraverso il consenso unanime alla teoria AGW -comunità che ha peraltro accettato di buon grado-, ora è la stessa politica ad infondere coraggio a chi a quel consenso non aveva aderito magari finendo emarginato, o lo aveva fatto con riluttanza, oppure ancora lo aveva scaltramente cavalcato, ma altrettanto scaltramente ora capisce che è giunto il momento di scendere da cavallo.
In tutto questo i media, svelti come sempre a capire dove va il vento, hanno giocato un ruolo fondamentale. Infatti, lo spazio riservato al climategate è stato dapprima relativamente scarso, con una netta prevalenza della blogosfera sull’informazione tradizionale, salvo le eccezioni di alcune testate da sempre riluttanti ad unirsi al coro. Questo perché l’episodio è giunto quando ancora non si conoscevano gli esiti della COP15 di Copenhagen. Ora, la risonanza che stanno avendo quegli episodi di giornalismo investigativo che avremmo voluto vedere tre anni fa e che hanno rivelato quanto possa essere stato superficiale il lavoro dell’IPCC su argomenti topici come la criosfera, le risorse idriche, il livello dei mari etc etc, è per certi aspetti anche smisurata.
Allo stesso tempo molta attenzione è stata dedicata alle dichiarazioni del capo dell’unità di ricerca più accreditata, la Climatic Research Unit, pesantemente coinvolta nel climategate. Egli, pur difendendo ovviamente il suo operato, ammette che il nostro (e suo) livello di incertezza è elevatissimo, che il clima non sta andando da più di un decennio nella direzione prevista e che il consenso è tutt’altro che tale. Contemporaneamente, tramonta la stella di San Clima -leggi Rajendra Pachauri, presidente dell’IPCC-, coinvolto in imbarazzanti accuse di conflitto di interessi. Dulcis in fundo arrivano le dimissioni del capo della diplomazia ONU sul tema del clima, Yvo De Boer, resosi improvvisamente conto, dopo aver per anni predicato la mano pubblica nella gestione del problema, che la soluzione può arrivare solo dal settore privato, al quale ha deciso di concedere nel prossimo futuro i suoi servigi.
Serpeggia ormai l’impressione che il mastodontico sistema messo a punto per “seguire” le problematiche connesse con il clima del pianeta, dall’UNFCCC come organismo negoziale, all’IPCC, bureau politico con compiti di raccolta del know how scientifico, debba essere riformato. Tale sistema da un lato ha ceduto ad atteggiamenti più autoreferenziali che utili alla causa, e dall’altro ha peccato di eccessiva attenzione agli aspetti ideologici e politici di un problema che deve essere risolto sul piano scientifico prima di essere valutato da diversi punti di vista. Diversamente non si saprebbe come interpretare il fatto che si sia sentita la necessità di ricorrere al supporto di fonti non scientificamente autorevoli ma al limite dell’amatoriale per sostenere i propri assunti, dichiarando al contempo di far questo in nome della scienza e nel rispetto del metodo scientifico.
Quale riforma dunque? Difficile a dirsi. Nell’articolo indicato in apertura si riporta una interessante proposta di John Christy, già noto per aver rinunciato con lettera aperta alla sua “quota di premio nobel”, che suggerisce la possibilità di passare ad un sistema aperto, condivisibile e soprattutto trasparente, ovvero libero dalle pastoie burocratiche e dai condizionamenti in cui sembra essersi impantanato l’IPCC. E così torniamo al punto di partenza di questa pagina con un quesito: ma nell’era della comunicazione globale, con team di ricercatori che lavorano insieme pur essendo a migliaia di chilometri di distanza, a cosa serve un panel che pensi di poter raccogliere e riassumere le risultanze di questi lavori, se non per sostituirsi alla fase politica pur non avendone il mandato? I decisori politici, che invece ricevono il loro mandato secondo il processo della democrazia rappresentativa, devono essere informati perchè informino i loro mandatari, non deve esser loro suggerito quale policy adottare. Tantomeno, avendone scelta una, è pensabile che attraverso questi organismi vengano prodotte le ragioni per sostenerla, con la pretesa del consenso scientifico.
E’ dunque anche e soprattutto un problema di comunicazione scientifica? Bene, si risolva quello prima di decidere di salvare il mondo da un pericolo tutto da dimostrare e pretendere di esser creduti sulla fiducia dichiarando che il dibattito è concluso, perché come dimostra l’attualità , di strada ce n’è ancora molta da fare.
Bravo Guidi!
Sarebbe ora che i tuoi commenti comparissero sui principali quotidiani italiani.
AG