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Parole al Vento

Non è una metafora climatica, è la dura realtà. Si dice a volte con molto cinismo che gli accordi internazionali valgano a malapena la carta su cui sono scritti, ovvero finchè sussistono le condizioni di convenienza di chi li ha siglati. Quando poi non sono neanche scritti le speranze si riducono davvero al lumicino.

E’ accaduto con il Protocollo di Kyoto, scritto, siglato e largamente ratificato, per essere poi sapientemente snobbato nei suoi scopi specifici, ovvero la riduzione delle emissioni, a favore degli obbiettivi nascosti, cioè la monetizzazzione della presunta emergenza climatica. Poteva non accadere con il Copenhagen Accord, tre paginette dense di retorica e prive di alcuna possibilità di applicazione pratica?

Le prime impressioni nell’immediatezza della conclusione del vertice erano quelle del fallimento, con i leader che hanno lasciato la capitale danese alla spicciolata, consci di non poter racimolare alcun genere di consenso per la piega che avevano preso le trattative. Qualcuno però ha avuto il coraggio di dire che in fondo (molto in fondo) poteva trattarsi di un primo passo, di una base negoziale, di un impegno ormai dichiarato etc etc. Tralasciamo il fatto che si sia trattato più che altro di un dispimpegno, ad un mese o poco più dalla chiusura dei lavori e con meno di dieci giorni allo scadere della data utile per la presentazione dei progetti di riduzione delle emissioni è chiaro che il progetto di global governance basato sul global warming sta andando a pallino. Ad oggi 31 paesi sui 192 partecipanti hanno presentato i loro piani d’azione e Yvo De Boer, il negoziatore dell’ONU sulle vicende climatiche, fa sapere che pochi altri se ne aggiungeranno, tanto da costringerlo a dire che la scadenza del 31 gennaio è in fondo “flessibile” e se qualcuno arriva tardi pazienza, lo aspetteranno.

Alcuni si ostinano a vedere nella posizione degli Stati Uniti, oggi più che mai incartati su una legge in materia di energia e ambiente che ha sempre meno probabilità di essere approvata, il nodo principale della questione (leggi qui su La Stampa), ignorando il fatto che altre realtà industriali con le spalle grosse di questo pianeta, non ne vogliono sapere comunque e, più che attenderle le mosse degli USA le condizionano, dal punto di vista economico, industriale, legislativo e, ovviamente, negoziale. Proprio come accadrà tra pochi giorni, quando Cina, India, Brasile e Sudafrica si incontreranno a Nuova Delhi per decidere la loro strategia.

L’Europa dal canto suo attende, e raffredda parecchio gli entusiasmi di chi al suo interno, incurante della piega che hanno preso gli avvenimenti, continua a spingere per un innalzamento di ulteriori dieci punti percentuali del target di riduzione unilaterale delle emissioni dei paesi dell’unione, ponendo la “condizione” che gli altri facciano altrettanto. Giusto, comprensibile e condivisibile, ma anche impossibile, se si pensa che il target di cui si discute oltreoceano è una riduzione del 4% rispetto alle emissioni del 1990, e quello europeo, ora del 20% dovrebbe arrivare al 30.

Con queste premesse, la tappa intermedia di Bonn a maggio e il nuovo vertice di Città del Messico di novembre saranno presumibilmente poco più di altre mega gite sociali.

Eppure c’è ancora qualcuno che pensa che non si possa parlare di fallimento (qui , sempre su La Stampa). Per la verità in senso stretto non si può dissentire. Non essendo stato fatto nulla, non c’è nulla che possa fallire, tuttavia un accordo vero e proprio, -speranza per alcuni e iattura per altri- sembra abbia comunque poche possibilità di concretizzarsi. Su questo stesso intervento del quotidiano torinese registriamo però un passaggio difficilmente comprensibile della portavoce del WWF Maria Grazia Midulla, secondo la quale il Protocollo di Kyoto avrebbe permesso di iniziare un’importante inversione di tendenza climatica.  E cioè? Quale sarebbe l’inversione? Se si vuole intendere -ma non credo- che le temperature medie superficiali globali hanno smesso di crescere grazie alla non applicazione del protocollo direi che questo proprio non è possibile. Non ci siamo nè con i tempi, nè con le emissioni, che invece di diminuire sono aumentate. Se invece si intende l’inizio di un coinvolgimento globale alla causa della lotta al clima che cambia, direi che all’inizio di Kyoto è seguita la fine di CO2penhagen.

Nel frattempo si sgonfia la marea del consenso scientifico, non più solamente per mano degli odiati scettici, ma anche per i passi falsi compiuti recentemente dal cosiddetto mainstream, tra mail compromettenti, qualche affaruccio di troppo compiuto in nome della religione del clima e marchiani errori di appena tre secoli nelle stime dei disastri climatici. In tempi non sospetti tutta la faccenda del global warming è stata paragonata alle bolle mediatiche della new economy e del mercato immobiliare. Le prime si sono sgonfiate, anzi, sono esplose. Non c’è due senza tre.

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