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Il futuro è nel passato?

Il mondo ha fretta e soffre d’ansia per l’indomani. Con le previsioni del tempo il problema lo abbiamo quasi risolto, il margine di attendibilità a breve termine può ormai considerarsi accettabile. Con le stagioni o, ancora più in là, con il clima siamo invece piuttosto malmessi. Al punto che forse potrebbe essere il caso di chiedersi se non si sia sbagliato l’approccio al problema.

Vediamo un pò. Quando parliamo di tempo meteorologico – sempre nell’ordine di qualche giorno – l’ambiente del quale si deve considerare la variabilità è solo quello atmosferico e neanche tutto, diciamo in media una decina di chilometri d’aria sulle nostre teste. Osservare, descrivere e prevedere lo stato di quest’aria e la sua evoluzione è difficile – richiede infatti la capacità di gestire moltissime informazioni – ma non è impossibile. Se i giorni diventano un pò di più, diciamo un paio di settimane, l’aria non basta più, dobbiamo cominciare a considerare anche cosa fa il mare, cioè i 3/4 della superficie del pianeta in effetti, perchè in realtà la maggior parte dello scambio di energia termica tra i poli e l’equatore avviene proprio per via marina. Questo processo è però molto più lento e quindi nei primi giorni di previsione lo si può considerare più o meno invariato. Trascorse le famose due settimane però, il discorso come detto cambia, i dati da gestire diventano molti di più e sono anche molto meno noti, per cui l’attendibilità delle previsioni lascia in effetti molto a desiderare. I meccanismi di causa-effetto che ormai abbiamo imparato a riconoscere nelle previsioni a breve termine, sembrano non essere più in grado di spiegare il comportamento del sistema e quindi lo rendono altamente imprevedibile. E’ per questo che uno dei più grandi matematici della storia – Edward Lorenz – lo aveva definito caotico, presagendo gli insuccessi nella capacità di previsione stagionale o climatica dei modelli di previsione, per difetto di conoscenza esatta della situazione di partenza.

Per cui abbiamo un problema di presente, la situazione di partenza, che ci impedisce di risolvere il problema futuro, la previsione. E se provassimo a guardare al passato invece? Se cercassimo di capire cosa potrebbe accadere studiando quanto già successo? E’ quello che hanno provato a fare in un progetto finanziato dal governo australiano, nel tentativo di fornire un supporto più tangibile al processo decisionale per il management dei rischi climatici a medio lungo termine.

Il sito dedicato al progetto si chiama “The long paddock” e lo trovate a questo link. L’Australia è tra i paesi che soffrono di più gli effetti delle variazioni climatiche ad alta frequenza prodotte dalle oscillazioni della temperatura di superficie delle acque dell’Oceano Pacifico (SST) e queste, a loro volta, inducono variazioni nel regime dei venti e della pressione atmosferica. Tutto il fenomeno è riassumibile nell’acronimo ENSO (El Niño Southern Oscillation), mentre il marker atmosferico di questo fenomeno è detto SO (Southern Oscillation) e consiste nella differenza tra la pressione atmosferica misurata a Tahiti (Polinesia francese) e Darwin (Australia); in pratica tra una sponda e l’altra del bacino oceanico. Per valutare nel tempo la variazione di questa differenza di pressione è stato sviluppato un indice detto SOI (Southern Oscillation Index).

Nel 1996 tre ricercatori, Stone, Hammer e Marcussen, pubblicarono su Nature uno studio nel quale l’andamento di questo indice nel periodo storico 1882-1991 è stato clusterizzato, ovvero raggruppato in cinque fasi ben definite: 1) consistentemente positivo, 2) consistentemente negativo, 3) in rapida discesa, 4) in rapida salita e 5) consistentemente neutro, cioè prossimo ai valori medi.

Per ognuna di queste fasi i ricercatori del team australiano hanno costruito delle mappe di anomalie delle precipitazioni su scala regionale econtinentale australiana ed anche globale. Le mappe che descrivono l’impatto in termini di precipitazioni del comportamento dell’indice, differiscono inoltre per periodi di due mesi, in quanto diversi periodi stagionali con fasi dell’indice simili non producono ovviamente analoghi effetti.

L’approccio sembra intressante e, con una buona lente d’ingrandimento si può dare un’occhiata anche agli effetti prodotti dalle diverse fasi dalle nostre parti. L’Italia certo è piuttosto piccola, ma si possono trarre interessanti indicazioni anche esaminando una porzione di territorio più ampia quale il bacino del Mediterraneo ed i paesi che vi si affacciano. Così scopriamo che con una fase consistentemente positiva quale quella osservata nei mesi di novembre e dicembre, il prossimo trimestre potrebbe vedere per l’Italia un 40/50% di probabilità che le precipitazioni eccedano la media del periodo, con percentuali leggermente più alte per la fascia del medio adriatico (pdf alta definizione).

Sarebbe interessante, è può darsi che si riesca a farlo proprio qui su CM, fare una comparazione con i dati delle precipitazioni occorse in anni con analogo comportamento di fase dell’indice SOI nei due mesi appena trascorsi. Diversamente, considerato il fatto che le teleconnessioni tra l’ENSO ed il clima mediterraneo sono in effetti molto deboli o comunque poco note, sarebbe forse più pagante tentare di riprodurre questa metodologia con gli indici climatici AO (Arctic Oscillation) o NAO (North Atlantic Oscillation), i cui effetti sul nostro clima a scala mensile o trimestrale sono molto probabilmente più tangibili.

NB: grazie a Luigi Mariani per la segnalazione.

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Published inAmbienteAttualitàClimatologiaMeteorologia

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