Sembra che negare l’evidenza sia diventato uno sport. Per anni quanti si dichiaravano (e si dichiarano tutt’ora) non proprio convinti che la questione dell’impatto antropico sul clima sia definita sono stati additati come negazionisti, orrido termine che qualcuno ha anche cercato di sdoganare per pure questioni semantiche. Ora c’è in piedi la conferenza di CO2penhagen e, tra un passo avanti e parecchi indietro, ci si avvia stancamente ad un nulla di fatto per quello che doveva essere l’appuntamento dell’anno, con addirittura l’ambizione di fornire la soluzione ai (presunti) problemi climatici del millennio. In realtà sospetto che dopo aver lasciato sfogare le seconde linee -leggi i negoziatori delegati- i leader entreranno in campo all’ultimo momento con l’aria dei salvatori della patria, promettendo a destra e a manca, siglando un patto che occuperà le pagine dei giornali e indicherà la via della terra promessa. Poi tutti a casa a fare a pugni con le legislazioni interne in attesa della prossima gita fuori porta, negando di non aver cavato un ragno dal buco.
Gli organismi sovrannazionali nel frattempo ricominceranno a macinare numeri per arrivarci preparati al prossimo appuntamento, dispensando anatemi climatici di vario genere supportati da numeri in bella copia alquanto incuranti che la brutta copia e la realtà dicano altrettanto, più o meno come accaduto sin qui.
Sarà però necessario cambiare musica, perchè con il climategate che continua ad imperversare sulla rete, approdando sui media del mainstream solo come esempio di assenza di collaborazione nella lotta alla fine del mondo, è doveroso che si faccia chiarezza prima di riprendere la strada. Con la pagina di accesso ai dati del CRU che continua ad essere inaccessibile causa traffico (così c’è scritto almeno), lo sfortunato episodio che doveva definitivamente aprire alla trasparenza delle informazioni ha finito per stendere una cortina fumogena su tutto. Eppure non passa giorno che non si trovino delle buone ragioni per chiedere di avere accesso a quei dati, non per scoprire qualcosa che non va, intendiamoci, quanto piuttosto per smascherare quanti vanno in giro dicendo che quei dati siano stati in qualche modo orientati a dimostrare una tendenza del clima che non ci sarebbe e, soprattutto, non ci dovrebbe essere nel prossimo futuro.
Anche sulle pagine di CM abbiamo seguito passo passo la vicenda sin dalle primissime ore e abbiamo affrontato alcune questioni scottanti in ordine ad esempio alla selezione delle stazioni di osservazione da includere nei dataset per definire il trend della temperatura media superficiale globale. I dubbi sollevati sono stati molti, ma di verifiche non è stato possibile farne, perchè quei famosi dati grezzi, ovvero le fonti primarie di informazione non ancora sottoposte al post processing, non sono stati resi disponibili.
Ieri l’altro è stata sollevata un’altra questione che, se confermata, potrebbe avere delle dimensioni preoccupanti. Viene dalla Russia, più precisamente da un articolo che trovate in questa rassegna. Si parla di un report diffuso da un istituto di Analisi Economica con base a Mosca (IEA), nel quale si fa notare che le stazioni impiegate nel dataset del CRU per definire la temperatura del paese lasciano scoperto il 40% del territorio e sarebbero soltanto il 25% del totale dei punti di osservazione per i quali sono disponibili delle serie affidabili. Di più, sempre nel report sarebbe scritto che la selezione avrebbe riguardato solo quelle stazioni con evidenza di riscaldamento, per lo più innescato dall’urbanizzazione, trascurando le località più remote e meno affette da bias. La totalità dei dati disponibili renderebbe un’immagine del trend delle temperature sulla Russia molto meno preoccupante di quanto dichiarato dalle fonti ufficiali del CRU e dell’IPCC.
Insomma, l’ennesimo mistero da risolvere. Per correttezza si deve anche dire che la IEA non è un fonte governativa ma un’agenzia indipendente, per quanto questa parola possa avere significato da quelle parti. C’è da dire che, stranamente, in questi giorni di serrati report da CO2penhagen le opinioni espresse dai delegati russi latitano, per cui non sappiamo se sia calato un po’ di silenzio sul loro atteggiamento forse più scettico del solito o se tutta questa storia non abbia piuttosto nulla a che fare con le discussioni in corso.
E’ un fatto che negli ultimi decenni le stazioni di riferimento inserite nei dataset ufficiali sono diminuite enormemente, con il massimo numero di defezioni proprio nell’area siberiana. Ci è stato detto che questo aumenta la qualità dei singoli dati esaminati, omettendo però che certamente ne diminuisce la rappresentatività spaziale. Ora i proprietari di parte di quei dati sembrano dirci che invece sono buoni e non si capisce pechè non debbano essere usati. Anzi, forse, potrebbero essere anche migliori di quelli impiegati. Tutto ciò sempre ammesso che prima o poi si riesca a sapere perchè si sia deciso di escluderli dalle serie. Perchè, in effetti, non stiamo parlando dell’isola di Malta o di quella di Tuvalu, stiamo parlando di una buona fetta delle terre emerse dell’emisfero settentrionale, per di più in un’area dove gli effetti del riscaldamento, in termini di scomparsa del permafrost, cambiamento dell’albedo e rilascio di gas serra imprigionati nel terreno, potrebbero essere determinanti.
A ben vedere una prima verifica è comunque possibile farla. Su questo sito, c’è un post interessante dove si fa un’analisi della griglia di 5°x5° di latitudine, impiegata per parametrizzare le osservazioni di superficie, confrontando le serie delle stazioni impiegate dal GHCN e dal CRU. Non sono molte le stazioni a confermare il trend di riscaldamento e, dove questo accade, ci sono fondati sospetti che questo possa essere indotto più dall’urbanizzazione, cioè da effetti specificatamente locali, che da una generale tendenza con caratteristiche areali.
Già molte volte abbiamo sottolineato su queste pagine che il problema dell’impatto antropico sul clima esiste eccome, ma è da ricercarsi a livello locale e necessita di interventi altrettanto locali, mentre assume dimensioni globali solo per effetto delle scelte soggettive operate nella costruzione delle procedure di analisi, trattamento e rappresentazione dei dati. Ora, se quanto dichiarato da questo report e da questo articolo dovesse risultare attendibile, sarebbe veamente il caso di rivederle quelle procedure, e di cominciare ad affrontare il problema per quello che è e per gli scopi specifici della ricerca scientifica, quelli della conoscenza, piuttosto che per la conferma di convinzioni di puro stampo ideologico che si stanno rapidamente trasformando nel business del secolo.
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NB: Leggi di questa notizia anche su The Air Vent di Jeff Id.
Questa notizia ha fatto il giro del mondo dei blog che trattano temi climatici: sui mass media? Zero di zero, nada, nisba, niente, niet…
Vuol dire che hanno azzeccato, che come minimo è parazialmente vera questa cosa, altrimenti l’avrebbero già distrutta e massacrata.
È l’ennesima conferma di quello che si va dicendo, con buona pace di Al Gore, GreenPeace, realisti e sacerdoti della vulgata climatica by IPCC. La menano sui disastri che provocherebbe lo scioglimento della Siberia, e poi sottraggono dalle analisi le stazioni su quel territorio: that’s science, bellezza! 😀
[…] aveva appena finito di dire Guido Guidi (qui), eccoci al tanto atteso coup de […]