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COP29: un fallimento, ma non troppo.

Un sentito ringraziamento a Donato Barone, che ancora una volta ha seguito con pazienza l’evento COP per condividerne gli esiti su queste pagine.

GG

Mancano venti minuti alla mezzanotte del 23 novembre, quando ANSA batte la notizia:

“Cop29, approvato fondo di aiuti climatici da 300 miliardi”

A Baku sono quasi le tre di notte quando il Presidente della COP 29, M. Babayev, cala il martelletto che sancisce il raggiungimento dell’accordo sulla finanza climatica, argomento che ha monopolizzato l’intera Conferenza delle Parti del 2024 e che ha messo in ombra tutti gli altri temi della COP 29.

Ufficialmente la COP 29 non è ancora finita, ma questo accordo è ciò che conta: la Conferenza di Baku non è fallita, per cui gli organizzatori (ONU ed Azerbaijan) festeggiano. Ma è proprio così?

Lascio la parola ad Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti d’America e voce di spicco sulle questioni climatiche:

Sebbene l’accordo raggiunto alla COP29 eviti un fallimento immediato, è ben lungi dall’essere un successo. Su questioni chiave come la finanza climatica e la transizione dai combustibili fossili, questo è – ancora una volta – il minimo indispensabile.

Non possiamo continuare a fare affidamento su mezze misure dell’ultimo minuto. I leader odierni si sottraggono alle proprie responsabilità concentrandosi su obiettivi ambiziosi e a lungo termine che vanno ben oltre i loro mandati. Per affrontare la sfida del nostro tempo, abbiamo bisogno di azioni concrete su scala di mesi e anni, non di decenni e quarti di secolo.

Questa esperienza a Baku mette in luce i difetti più profondi nel processo COP, tra cui l’influenza sproporzionata degli interessi dei combustibili fossili che ha ostacolato questo processo sin dal suo inizio. Il Regno dell’Arabia Saudita è stato particolarmente ostruzionista. Mettere a serio rischio il futuro dell’umanità per fare più soldi è un comportamento davvero vergognoso. Riformare questo processo in modo che gli inquinatori siano sotto controllo effettivo deve essere una priorità.

Per quanto riguarda i finanziamenti per il clima, il nostro compito principale nei prossimi anni deve essere non solo quello di rispettare e consolidare gli impegni finanziari concordati alla COP29, ma anche di liberare flussi ancora più grandi di capitale privato equo e accessibile per i Paesi in via di sviluppo.

In definitiva, uscendo dalla COP 29, dobbiamo trasformare la delusione in determinazione. Possiamo risolvere la crisi climatica. Se lo faremo in tempo per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi dipenderà da cosa accadrà dopo [la COP 29].”

Al Gore ha riassunto in modo magistrale, la COP 29. E per questo motivo ho voluto riportare integralmente la sua dichiarazione, come pubblicata da The Guardian. Il suo giudizio è equo ed abbastanza imparziale.

Ben diversi sono stati i giudizi degli altri partecipanti alla COP 29. A solo titolo di esempio riporto la dichiarazione rilasciata durante la plenaria da C. Raina, rappresentante dell’India, nella versione riportata da The Guardian:

“L’India si oppone all’adozione di questo documento e vi prego di prendere nota di ciò [che abbiamo appena detto in questa sala]. Vogliamo un’ambizione molto più alta dai Paesi sviluppati.

Avevamo informato il presidente e la segreteria che volevamo rilasciare una dichiarazione prima di prendere qualsiasi decisione sull’adozione, ma tuttavia – e questo è sotto gli occhi di tutti – tutto è stato organizzato in modo artificioso e siamo estremamente delusi da questo modo di fare.

Abbiamo visto cosa avete fatto… approvare e cercare di ignorare ciò che pensano e dicono le Parti, non è degno del sistema delle Nazioni Unite e vorremmo che ci ascoltaste… ci opponiamo fermamente a questo ingiusto metodo di adozione delle decisioni”.

La Presidenza ha preso atto ed ha proseguito sulla sua strada, incurante della gravità delle accuse e della tempesta di critiche ed invettive che delegittimano le conclusioni cui la COP è giunta. Non meno critiche sono state le reazioni dei rappresentanti della società civile presenti a Baku. Mohamed Adow, di Power Shift Africa ha dichiarato a The Guardian che

“Questa COP è stata un disastro per il mondo in via di sviluppo. È un tradimento sia delle persone che del pianeta, da parte di Paesi ricchi che affermano di prendere sul serio il cambiamento climatico.

I paesi ricchi hanno promesso di “mobilitare” alcuni fondi in futuro, anziché fornirli ora. L’assegno è in arrivo. Ma ora si stanno perdendo vite e mezzi di sostentamento nei paesi vulnerabili.

Il mondo ricco ha organizzato una grande fuga a Baku. Senza soldi veri sul tavolo e con vaghe e irresponsabili promesse di fondi da mobilitare, stanno cercando di sottrarsi ai loro obblighi finanziari per il clima. Lasciando il mondo senza le risorse necessarie per scongiurare la catastrofe climatica.

Questo è stato un vertice vergognosamente guidato dall’Azerbaijan e [deve essere considerato una fonte] di imbarazzo globale per i Paesi ricchi e per il presidente della COP che li ha aiutati a eludere i loro obblighi.”

Di segno opposto, ovviamente le reazioni dei rappresentanti dei Paesi sviluppati per i quali la cosa importante era raggiungere un accordo, non interessa quale, l’importante era evitare di far fallire la COP 29 e, contemporaneamente, non sborsare troppi soldi.

Esemplare la dichiarazione di W. Hoekstra, commissario europeo per l’azione per il clima, che risuona in una sala la cui ostilità è testimoniata dal silenzio glaciale che accoglie le sue parole:

“Sappiamo tutti quanto sia stato molto, molto difficile, e tuttavia sentiamo che il risultato di oggi è in realtà eccezionalmente importante. Stiamo vivendo in un periodo di geopolitica davvero impegnativa, quindi vedere un accordo è davvero eccezionale (enfasi dell’autore del testo).

Secondo me, Cop29 sarà ricordata come l’inizio di una nuova era per la finanza climatica. Noi [Paesi ricchi] abbiamo lavorato duramente con tutti voi per garantire che ci siano molti più soldi sul tavolo. Stiamo triplicando l’obiettivo di 100 miliardi di dollari e riteniamo che sia ambizioso, necessario, realistico e realizzabile”.

Vorrei far notare l’enfasi con cui viene sottolineata l’importanza geopolitica dell’accordo: poter parlare di accordo tra il Sud globale ed il Nord Globale, era l’obbiettivo; dimostrare che esiste un dialogo tra noi occidentali ed il resto del mondo è il fine, tutto ciò che resta non conta.

Nella sua dichiarazione Hoekstra accenna anche alla controversa questione riguardante la posizione di Paesi come la Cina e l’Arabia Saudita, considerati come Paesi in via di sviluppo nei colloqui delle Nazioni Unite sul clima:

“È anche una questione di equità ed è molto importante per noi che tutti coloro che hanno la possibilità di farlo contribuiscano, e quindi è positivo che allarghiamo la base dei contribuenti su base volontaria”.

E circa la mancanza di qualsiasi esplicito riferimento all’impegno assunto lo scorso anno per la “transizione dai combustibili fossili”, afferma:

“È meno di quanto ci aspettassimo, ma è meglio di quanto temessimo”.

Con questo possiamo chiudere il capitolo della COP 29. Del resto non ci si poteva attendere di più da una Conferenza delle Parti universalmente definita di transizione.

Per chi vuole l’articolo può finire qui: tutto ciò che c’è da sapere è stato detto. Il resto dell’articolo è destinato ad un’analisi un po’ più approfondita delle decisioni prese che, tra l’altro, costituisce la motivazione del titolo di questo articolo. La strada è, però, ancora abbastanza lunga, per cui chi vuole seguirmi deve armarsi di pazienza.

Nell’articolo scritto in occasione dell’apertura della COP 29, individuai alcuni indicatori che avrebbero consentito di stabilire il successo o l’insuccesso della COP 29. In estrema sintesi essi erano:

  • mercato del carbonio di cui all’art. 6 dell’Accordo di Parigi;
  • giustizia climatica (transizione energetica giusta ed equa);
  • fondo per perdite e danni;
  • bilancio globale del carbonio ai sensi dell’art. 14 dell’Accordo di Parigi.

Vediamo, ora, alla fine della COP 29 come sono andate le cose.

Mercato del carbonio

Con una mossa a sorpresa la presidenza della COP 29, nella giornata di apertura, annunciò il raggiungimento dell’accordo sugli standard internazionali che devono avere i crediti di carbonio per essere scambiati sul mercato globale del carbonio (paragrafo 4 dell’art. 6 dell’Accordo di Parigi). Più in dettaglio vengono stabiliti i criteri cui deve uniformarsi l’Organo di Vigilanza (SBM) previsto dal predetto paragrafo 4 dell’art. 6.  Quando l’SMB entrerà nel pieno della sua operatività, esso dovrà approvare e registrare i progetti che generano crediti di carbonio, preventivamente approvati dai Paesi proponenti. Una volta che tali crediti sono stati approvati e registrati, potranno essere acquistati da Paesi, aziende o persone fisiche.

Il meccanismo così creato dovrebbe rivitalizzare il mercato globale del carbonio che, dopo aver raggiunto la cifra record di duemila miliardi di dollari, è precipitato a meno della metà a causa della scarsa precisione degli standard di certificazione dei crediti e delle conseguenti truffe milionarie.

Questo meccanismo dovrebbe consentire, inoltre, di risolvere l’annoso problema del doppio conteggio, cioè come evitare che le riduzioni delle emissioni rappresentate dal credito di carbonio vengano contate due o più volte, magari in altri ambiti come i bilanci delle emissioni nazionali o aziendali.

Una volta certificato il credito, sia le riduzioni di emissioni che la rimozione delle stesse dall’atmosfera, potranno considerarsi reali, aggiuntive, verificate e misurabili.

Nel testo proposto a Baku, il problema è affrontato solo in parte: gli standard previsti riguardano la rimozione del diossido di carbonio dall’atmosfera e la valutazione dei progetti di rimozione. Nulla si prevede riguardo alla riduzione delle emissioni.

Come già scritto nell’articolo citato, il focus è, ormai, l’adattamento (rimozione delle emissioni) piuttosto che la mitigazione (riduzione delle emissioni).

Questo accordo è stato aspramente criticato per diverse ragioni che provo a riassumere:

  • è maturato in un consesso ristretto (24 persone) ed al di fuori della COP 29 che si è limitata a prenderne atto;
  • l’adozione irrituale del testo costituisce un pericoloso precedente che, qualora diventasse una consuetudine, altererebbe profondamente lo stesso spirito delle COP, ovvero quello di rendere consensuali tutte le decisioni;
  • gli standard sul mercato dei crediti di carbonio adottati a Baku sono considerati dagli osservatori, carenti di dettagli, addirittura meno definiti rispetto all’accordo dello scorso anno di Dubai;
  • provvisorietà degli standard approvati, in quanto essi possono essere rivisti, anche riducendo le ambizioni, nelle successive Conferenze delle Parti (tale flessibilità è stato uno stratagemma della presidenza, per convincere i delegati ad approvare l’accordo alla Cop29, anche se molti Paesi erano piuttosto critici e perplessi);
  • la provvisorietà degli standard approvati, genera situazioni di incertezza tra gli operatori e può portare a soluzioni solo apparenti del problema della finanza del clima;
  • lo spostamento dell’attenzione dalla mitigazione all’adattamento, sdogana procedure come la geoingegneria che è profondamente invisa al mondo ambientalista o il cosiddetto “stoccaggio nei prodotti” (procedura che consiste nel conteggiare come rimozione del carbonio la quantità di carbonio che entra a far parte definitiva di un prodotto e che, però, potrebbe rientrare nell’ambiente prima dei tempi previsti, qualora il prodotto venisse bruciato, per esempio);
  • mancanza di un chiaro meccanismo di valutazione del rischio di inversione, ovvero del rischio che il carbonio rimosso possa rientrare in atmosfera per cause inevitabili o evitabili e sulle strategie da adottare per mitigare questi rischi;
  • scarsa chiarezza del processo di monitoraggio dello stato di attuazione dei progetti approvati.

Diciamo che le ombre sembrano prevalere rispetto alle luci.

Durante la COP 29 le Parti sono riuscite a far eliminare dal documento ogni riferimento ai cosiddetti “crediti ad ampia scala”. Si tratta di un complesso meccanismo che potrebbe portare a sopravvalutare il carbonio rimosso, in quanto non tiene conto dell’aleatorietà dei “progetti nidificati”, ovvero del fatto che l’obiettivo previsto dal progetto generale, non viene raggiunto a causa del fallimento di una parte del progetto generale, fallimento di cui non si era tenuto conto in fase di certificazione del credito. Sono dettagli, ma è li che si annida il diavolo!

Nel testo modificato si chiede, infine, all’Organo di controllo di adottare nuove linee guida cui gli operatori si devono uniformare. Diciamo che il testo definitivo mi sembra più fumoso di quello originale e contraddittorio rispetto all’esigenza di evitare modifiche normative che rendano ancora più incerto il già abbastanza incerto mercato del carbonio.

Circa il testo dell’accordo che riguarda il paragrafo 2 dell’art. 6 dell’Accordo di Parigi, (mercato volontario e non regolato), poche sono state le novità introdotte dalla COP 29: si sono affinate le metodiche con cui vengono concordati gli scambi di carbonio bilaterali, individuando uno schema unico definito dall’Organo di Vigilianza, cui le parti contraenti devono far riferimento, ma non si sono previste conseguenze serie in caso di “incongruenze” tra le dichiarazioni iniziali circa gli obiettivi di riduzione/rimozione delle emissioni e quelle effettivamente ottenute. E’ fatto obbligo alle parti contraenti di individuare una chiara modalità di certificazione dei crediti, allo scopo di evitare il doppio conteggio. E’ stato stabilito che gli obbiettivi di riduzione/rimozione dichiarati inizialmente dalle parti non possano essere cambiati … a meno che ciò non sia stato inserito  tra le clausole contrattuali (sic!).

Il tutto allo scopo di rendere meno aleatorie le previsioni di riduzione/rimozione delle emissioni e la loro misura e contabilizzazione.  Detto fuori dai denti mi sembra una grande presa per i fondelli perché il meccanismo fa acqua da tutte le parti e ci consentirà di vederne delle belle, ma così hanno deciso e va bene così.

Alla fine dei giochi, possiamo dire che, dopo nove lunghi anni, con tutti i caveat ed i distinguo che ho indicato, la partita dei mercati globali del carbonio può essere considerata chiusa: esiste una struttura normativa attuativa, un regolamento, insomma, che consente l’avvio del mercato globale del carbonio.  Le ricadute pratiche di questi nove anni di lavori non sono ancora ben chiare, per cui vedremo cosa succederà nei prossimi anni. Giusto per avere un’idea di quello che potrebbe capitare, basta considerare la vicenda dei progetti REDD+ (acronimo che indica i progetti di ricostituzione ed ampliamento del tessuto forestale, ovvero dei progetti che prevedono il finanziamento della piantumazione di alberi, per ottenere crediti di carbonio), e che hanno riservato grosse sorprese (negative) in termini di sopravvalutazione dei crediti a larga scala, di cui si è discusso a proposito del paragrafo 6.4.

Giustizia climatica, bilancio globale del carbonio e fondo perdite e danni: finanza climatica

Rispetto all’articolo scritto in occasione dell’apertura della COP 29, ho unificato questi temi, non per mia scelta, ma perché così è stato deciso dalla Presidenza della Conferenza di Baku al momento della definizione dell’agenda: tutto doveva essere trattato nell’ambito della finanza climatica. Il risultato è stato chiaro sin dall’inizio, anche se coloro che avevano sollecitato questa soluzione giuravano il contrario: si è parlato solo di soldi e null’altro, per cui il bilancio globale del carbonio la giustizia climatica ed il fondo perdite e danni, sono passati in secondo piano se non addirittura nel dimenticatoio.

Procediamo, comunque, con ordine e partiamo dal tema della finanza climatica vera e propria. I Paesi in via di sviluppo chiedevano ai Paesi sviluppati di finanziare i progetti di adattamento ed i maggiori costi dello sviluppo in assenza di combustibili fossili, con 1300 miliardi di dollari (1,3 trilioni, per seguire l’usanza statunitense). I Paesi sviluppati offrivano 250 miliardi. Considerando l’inflazione, la cifra non era molto diversa dai famigerati 100 miliardi che dovevano essere versati dai Paesi sviluppati, ma che non sono mai stati versati interamente fino al 2022. E molti di quei soldi sono stati elargiti sotto forma di prestiti.

Come capita in genere alle COP oltre che sulla sostanza, i delegati si sono accapigliati anche sulla forma. I Paesi ricchi parlavano di “mobilitare” 250 miliardi di dollari, quelli in via di sviluppo parlavano di “versare” 1300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Alla fine ci si è accordati sulla “storica” (per usare le parole di J. Biden ed U. von der Leyen) cifra di 300 miliardi da “mobilitare”.

Come già illustrato nella prima parte dell’articolo, i Paesi in via di sviluppo ci sono rimasti malissimo, nonostante avessero provato ad addolcirli con una fantomatica “road map” che dovrebbe portare, durante la COP 30 di Belem (Brasile), agli 1,3 trilioni di dollari di finanziamenti per il clima.

In più i Paesi sviluppati sono riusciti ad inserire nel documento finale un riferimento che sposta il peso del fondo su alcuni “Paesi in via di sviluppo” come la Cina o l’Arabia Saudita che, però, possono contribuire volontariamente al fondo.

Cerchiamo adesso di capire il significato del termine “mobilitare”. Con questo termine, riferito tanto ai 300 miliardi definiti che agli 1,3 trilioni, da trovare lungo la strada per Belem,  ci si riferisce ai fondi versati dalle banche, dalle aziende, da persone fisiche e dai Paesi in via di sviluppo che volontariamente aderiscono al fondo, come contributori. Detto in altri termini, la responsabilità storica dei Paesi industrializzati è stata tolta dal tavolo e, quindi, da ora in poi siamo tutti uguali di fronte al clima che cambia e cambia male a causa dell’uomo (sviluppato o non).

In tutto questo bailamme, dal documento concordato, è sparito ogni riferimento al fondo perdite e danni che tanto entusiasmo aveva generato in apertura della COP 28 di Dubai e questo rappresenta un altro duro colpo per i Paesi poveri, in quanto questo fondo doveva essere completamente a carico dei Paesi ricchi, quelli storicamente responsabili del cambiamento climatico di origine antropica.

Messa la questione in questi termini, appare chiaro che sul tema della finanza climatica, per alcuni la COP 29 è stata un successo (i Paesi ricchi), ma per altri (i Paesi poveri) non si può parlare assolutamente di successo, anzi è stata una debacle di proporzioni bibliche. Per sintetizzare in modo schematico tutto quanto ho illustrato nei precedenti paragrafi a proposito di finanza climatica, mi è sembrato molto utile lo schema seguente.

Partiamo dall’art. 7 dell’Accordo sui New Collective Quantified Goal (NCQG), come vengono definiti nel gergo delle COP gli obiettivi della finanza climatica. L’art. 7 è il libro dei sogni, la fumosa road map che porta ai 1300 miliardi di dollari annui fino al 2035.

contributori: soggetti pubblici e privati (anche i Paesi in via di sviluppo sono “chiamati” a “lavorare insieme” per “aumentare” la finanza verso i Paesi in via di sviluppo. E’ qui che viene meno il principio per cui fornire finanza climatica è compito esclusivo dei Paesi storicamente responsabili delle emissioni (quelli industrializzati)

erogazione: non è stato indicato il modo in cui verranno erogati i fondi. In altre parti del testo si parla di aumentare la quota di sovvenzioni per i Paesi meno sviluppati e i piccoli Stati insulari, ma non si trova traccia di soglie minime dei contributi da versare, cosa che avevano chiesto i Paesi in via di sviluppo

beneficiari: tutti i paesi in via di sviluppo senza alcuna preferenza per quelli più vulnerabili

quote dei singoli Paesi: non sono previste quote: ognuno versa quel che può e vuole. Altro punto su cui i Paesi in via di sviluppo si sono battuti ed hanno perso malamente

destinazione dei soldi: non si specifica nulla, per cui è implicitamente esclusa la destinazione per i danni e le perdite oltre che della mitigazione e dell’adattamento

tempi: entro il 2035

Passiamo ora all’art. 8 dell’Accordo sui New Collective Quantified Goal (NCQG). Questo articolo riguarda i 300 miliardi di dollari annui fino al 2035.

contributori: soggetti pubblici e privati. I Paesi ricchi “devono prendere l’iniziativa” e, quindi, implicitamente, anche iPaesi in via di sviluppo devono partecipare alla finanza climatica

erogazione: non è stato indicato il modo in cui verranno erogati i fondi. In altre parti del testo si parla di aumentare la quota di sovvenzioni per i Paesi meno sviluppati e i piccoli Stati insulari, ma non si trova traccia di soglie minime dei contributi da versare, cosa che avevano chiesto i Paesi in via di sviluppo

beneficiari: tutti i paesi in via di sviluppo senza alcuna preferenza per quelli più vulnerabili

quote dei singoli Paesi: non sono previste quote: ognuno versa quel che può e vuole

destinazione dei soldi: non si specifica nulla, per cui è implicitamente esclusa la destinazione per i danni e le perdite oltre che della mitigazione e dell’adattamento

tempi: entro il 2035

Dal punto di vista strettamente egoistico di un cittadino del Nord del mondo, ci è andata alla grande, ma da un punto di vista umano provo una profonda pena per i Paesi in via di sviluppo. Se è vero quanto sostengono gli attivisti e gli esponenti della linea di pensiero principale, circa le conseguenze del cambiamento climatico in corso, noi cittadini del Nord del mondo, abbiamo fatto il solito gioco: a noi la polpa, a voi l’osso.

I rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo hanno reso, però, pan per focaccia su un tema che stava molto a cuore ai Paesi industrializzati: la riduzione delle emissioni e, quindi, l’abbandono dei combustibili fossili.

Per comprendere meglio la questione, bisogna partire dal fatto che il problema del cambiamento climatico di origine antropica, lo abbiamo creato noi del Nord del mondo. Una volta generata la narrazione del disastro climatico incombente, l’argomento è stato cavalcato dalle ONG, dagli ambientalisti, dai terzomondisti, cioè da tutti coloro che hanno come scopo della propria esistenza la salvazione del mondo. I Paesi in via di sviluppo hanno visto in questa narrazione l’occasione per far pagare ai Paesi sviluppati secoli di soprusi, sfruttamento e massacri, ma non sembra che abbiano particolarmente a cuore il problema delle emissioni.

I Paesi industrializzati hanno voluto ed ottenuto da una presidenza della COP effettivamente debole e succube delle potenze occidentali, di unificare nell’agenda della Conferenza, finanza e mitigazione, giustizia climatica ed abbandono dei combustibili fossili. Lo scopo era quello di scambiare la finanza climatica con la mitigazione, il bilancio globale del carbonio e, quindi, l’art. 14 dell’Accordo di Parigi. I Paesi in via di sviluppo però hanno mangiato la foglia e sono passati al contrattacco: si, vi seguiamo sul tema della mitigazione, ma voi dateci i soldi.

Di fronte al rifiuto dei Paesi ricchi di aprire il portafogli, i Paesi in via di sviluppo, supportati dai Paesi produttori di petrolio e gas, Arabia Saudita in testa, hanno affossato i negoziati sul bilancio globale del carbonio e quelli sull’abbandono dei combustibili fossili (dialogo di Dubai, nel gergo delle COP).

Nel testo del documento relativo al Dialogo di Dubai, è presente solo un riferimento generico al paragrafo 28 dell’Accordo di Dubai: si invitano i Paesi “a contribuire agli sforzi globali di cui al paragrafo 28”.

Particolarmente significative, in proposito, le reazioni di alcuni Paesi sviluppati. L’Australia ha detto di essere delusa dal fatto che alcuni Paesi abbiano “bloccato o ostacolato la discussione” sui temi della mitigazione e dell’abbandono dei combustibili fossili.

La Svizzera ha affermato che la COP 29 non è riuscita a raggiungere “ambizioni significative” e si è rammaricata che il testo “sia stato annacquato da alcuni. … Possiamo e dobbiamo fare meglio l’anno prossimo”.

  1. Robinson , ex inviata delle Nazioni Unite e figura di spicco del mondo che ruota intorno al clima, ha affermato: “La Cop29 di Baku è stata una delle COP più difficili che io ricordi. È stata molto vicina al fallimento e si è conclusa con un accordo deludente. Ma è un accordo su cui il mondo può costruire nel 2025”.
  2. C. Monterrey Gómez, come a rivoltare il coltello nella piaga, così commenta i risultati sul bilancio del carbonio e la mitigazione tanto cari ai Paesi industrializzati:

“Penso che 1,5 °C fosse in terapia intensiva e sembra che quel letto si sia appena rotto ed è caduto sul pavimento. Quindi probabilmente non saremo in grado di raggiungere 1,5 °C in base a questo livello molto basso di finanziamenti forniti dal mondo sviluppato. Ciò significa morte, ciò significa miseria, per i nostri Paesi”.

Particolarmente grave appare la mancanza di passi avanti sul Bilancio globale del Carbonio (GST o Global Stocktake) e sulla mitigazione (Mitigation Work Program). Questi due capitoli costituiscono la struttura portante dell’art. 14 dell’Accordo di Parigi, in quanto fondamentali per poter decidere come e quanto ridurre le emissioni di gas serra per rispettare gli obiettivi di Parigi e monitorare i progressi degli Stati. Il Bilancio globale è necessario, infine, per fissare gli obiettivi nazionali volontari di riduzione delle emissioni. Senza di esso non si va da nessuna parte.

Il prossimo anno su questi temi si partirà da zero, anzi da sotto lo zero: cosa succederà se Trump ritira gli USA dall’Accordo di Parigi o, come qualcuno vocifera, dalla struttura ONU che si occupa di clima? Secondo me se quest’anno si è fatto poco, il prossimo anno si farà ancora meno. A meno che tutti gli altri non decidano di accollarsi anche gli oneri statunitensi. Sembra improbabile, ma non c’è mai limite al peggio.

Volendo esprimere in due parole un giudizio sulla COP 29 mi sento di dire che è stata effettivamente una COP di transizione: ha fatto transitare in Brasile i problemi che esistevano prima che essa si svolgesse. Due settimane di inutili trattative. Un dialogo tra sordi ed un mondo sempre più polarizzato tra Nord e Sud che appaiono sempre meno in grado di dialogare.

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