Mi accingo a seguire la mia decima Conferenza delle Parti, meglio nota come COP 29 che è iniziata ieri 11 novembre a Baku, capitale dell’Azerbaijan. Il mio battesimo del fuoco fu la COP 21 di Parigi. Non che in precedenza non mi interessassi alle COP, ma una cosa è leggere qualche resoconto, un’altra è seguire quotidianamente l’evolversi delle trattative.
Alla fine dei lavori vengono generate centinaia di pagine di documenti che solo gli addetti ai lavori comprendono fino in fondo, ma sono questi documenti che rappresentano il risultato della Conferenza. Senza conoscere, almeno per sommi capi, questi documenti, non si riesce mai a capire cosa sia successo e, alla fine, si resta vittima della propaganda. Perché buona parte dei resoconti che si leggono sui giornali o si ascoltano in televisione, si limitano a riportare le altisonanti dichiarazioni finali dei presidenti delle COP e dei vari Capi di Stato o di governo, senza rendersi conto che, il più delle volte, sono solo ed esclusivamente dichiarazioni d’intenti.
Per non essere accusato di vilipendio degli organi d’informazione nostrani e non solo, vorrei citare solo un paio di esempi.
Nove anni fa la COP 21 “partorì” il famoso “Accordo di Parigi”. Stando a quanto scrivevano i media, il mondo era salvo: a Parigi la specie umana aveva cambiato pagina e le temperature globali non sarebbero aumentate più di 1,5°C rispetto al periodo preindustriale. I Francesi non stavano più nella pelle: l’accordo era più ambizioso del previsto, in quanto esso prevedeva un tetto alle temperature globali del 2°C, ma si auspicava di contenerne l’aumento addirittura ad 1,5°C!
Leggendo le carte, però, la realtà era ben diversa e, chi scrive, lo mise ben in evidenza: l’Accordo di Parigi era un involucro vuoto. Una bella confezione regalo, ma senza regalo. Chi ha voglia, può leggersi il mio resoconto finale qui su CM. Sono passati nove lunghi anni e quell’accordo continua a restare ciò che era: una mera dichiarazione d’intenti. Nel frattempo, stando a quanto riportano i media, sembra che le temperature globali abbiano superato la fatidica soglia di 1,5°C di incremento rispetto al periodo preindustriale. Probabilmente non è vero, ma ci siamo vicino, molto vicino: una pubblicazione recentissima, che mi riservo di studiare con calma, fissa ad 1,49°C l’incremento di temperatura al 2023. Di questo parleremo, però, a tempo debito.
La stessa cosa è successa lo scorso anno a Dubai: la COP 28 si concluse con squilli di trombe e fanfare, perché era stato costituito il fatidico fondo per risarcire i Paesi vulnerabili dei danni e delle perdite (loss and damage, in gergo) subiti per dover rinunciare ai combustibili fossili e, consentir loro di potersi sviluppare. In più la COP aveva “decretato” l’abbandono definitivo dei combustibili fossili. Ancora una volta non era vero niente ed il vostro modesto cronista lo scrisse, come si può facilmente verificare qui su CM. Dopo un anno, siamo punto e a capo. Bisogna ancora creare l’organismo tecnico che dovrà gestire il famoso fondo per il risarcimento delle perdite e danni e, soprattutto, bisogna trovare i soldi che dovranno confluire nel fondo. Allo stato si parla di circa cinquecento miliardi di dollari all’anno ed a malapena siamo arrivati a cento miliardi di dollari all’anno (è la famosa cifra su cui hanno rischiato di naufragare decine di COP). La cosa buffa è che buona parte di questi cento miliardi di dollari, sono stati concessi come prestiti ai Paesi in via di sviluppo e, secondo qualche osservatore, neanche ai Paesi che ne avevano più bisogno. Questo danaro, in altre parole, ha aggravato la posizione debitoria di molti Paesi ed è stato utilizzato per attività che con il clima e la giustizia climatica hanno poco a che fare. Immaginate cosa provereste se, dopo un incidente con l’auto, l’assicurazione vi risarcisse il danno con un prestito! Così devono sentirsi i Paesi vulnerabili destinatari dei fondi per il risarcimento delle perdite e danni.
Inutile parlare della presa in giro dell’uscita dal mondo del fossile: la decisione effettiva riguardava le emissioni e non l’estrazione e l’utilizzo dei combustibili fossili che costituiscono ancora il 70% delle fonti energetiche mondiali.
La COP 29 inizia, quindi, con gli stessi problemi con cui sono iniziate le ultime nove: mancano i soldi e mancano le norme attuative dell’Accordo di Parigi. Manca, infine, una chiara strategia e, soprattutto, un quadro normativo vincolante per l’abbandono definitivo dei combustibili fossili. La cosa grave, in tutto questo, è che il clima è cambiato, rispetto allo scorso anno. Parlo, ovviamente, di clima politico. Negli Stati Uniti è stato eletto un Presidente che ha basato buona parte della sua campagna elettorale sull’uscita dall’Accordo di Parigi e sul potenziamento dell’estrazione di combustibili fossili. Altro che abbandono dei combustibili fossili. Cosa faranno i Paesi Arabi, la Russia e gli altri produttori di petrolio e gas, se gli USA si sfilano? Probabilmente di abbandono dei combustibili fossili non se ne parlerà proprio più, ma tireremo le somme alla fine di questa COP 29.
Nel frattempo, la Conferenza è iniziata in tono minore: quasi nessuno dei Capi di Stato più importanti sarà presente alla COP 29. Biden ha altro a cui pensare, Cina ed India non saranno rappresentate ai massimi livelli, Von der Leyen non sembra che parteciperà, Lula ha problemi di salute, Macron e Scholz sono dati per dispersi, ecc., ecc..
Gli osservatori più smaliziati sono piuttosto pessimisti e sottolineano che quella di Baku non è altro che una Conferenza di transizione verso quella dell’anno prossimo che, invece, sarà decisiva. Le sorti del mondo, quindi, si decideranno in Brasile nel corso della COP 30. Sarà vero? Chi vivrà, vedrà.
A questo punto potete facilmente immaginare lo stato d’animo con cui mi accingo a seguire la COP 29, ma siccome bisogna pur capire cosa succederà, analizziamo brevemente i temi sui quali si valuterà il fallimento, annunciato, o il successo, molto improbabile, della COP 29.
– Fondo perdite e danni (loss and damage)
La COP 28 sancì la nascita ufficiale del Fondo, ma, oggettivamente, si tratta di un involucro vuoto. Gli Stati occidentali riuscirono abilmente ad evitare che nei documenti finali fosse presente un qualsiasi riferimento alla loro responsabilità storica e non fu stabilito nessun vincolo circa l’entità dei versamenti da effettuare, per rimpinguare il fondo. A Baku si dovrebbe fare qualche piccolo passo avanti ed individuare per lo meno l’organo tecnico incaricato della gestione del Fondo. Vedremo ciò che succederà.
– Bilancio globale delle emissioni (art. 14 dell’Accordo di Parigi)
La COP 28 doveva sancire l’eliminazione graduale di TUTTI i combustibili fossili (phase out) e questo obbiettivo era considerato irrinunciabile, una linea rossa su cui non si poteva transigere. Nel testo finale la parola “eliminazione” fu sostituita dalla parola “transizione” e fu riferita non ai combustibili fossili, ma alle emissioni. In altri termini, nessun vincolo all’estrazione ed al commercio dei combustibili fossili, ma un limite alle emissioni da dover conseguire mediante l’utilizzo di tecnologie per la loro cattura e sequestro. Vedremo quest’anno se rimarremo nel limbo o andremo direttamente all’inferno. Stanti le premesse di cui ho già discusso, non prevedo nulla di buono.
– Giustizia climatica (transizione energetica equa)
Uno dei fari che dovrebbe guidare le Conferenze delle Parti, è costituito da una transizione energetica equa e giusta, che consenta ai Paesi meno sviluppati di raggiungere un adeguato livello di sviluppo, pur rinunciando agli economici combustibili fossili. La COP 28 fallì nel raggiungimento di questo obbiettivo e, quindi, dovrebbe essere quella di Baku la conferenza, cui spetta sancire i principi di una transizione energetica giusta ed equa. Anche in questo caso chi vivrà, vedrà.
– Mercato del carbonio (art. 6 dell’Accordo di Parigi)
In questo campo bisogna registrare qualche piccolo progresso. Lo scorso anno i negoziati sui punti due e quattro dell’art. 6 si sono arenati e, quindi, i delegati fecero ricorso alla “regola 16” (rule 16) che, in mancanza di accordo totale, consente di rinviare tutto a data da destinarsi. La Conferenza delle Parti di Baku si è aperta con un annuncio altisonante: le Parti hanno raggiunto un accordo sul punto 6.4 dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi che regola i mercati vincolati del carbonio. Si erano appena placati i peana gloriosi che sono iniziate le polemiche. Sono nove anni che si cerca il bandolo della matassa dei cosiddetti “crediti di carbonio” e della loro commercializzazione. Sostanzialmente si tratta della possibilità che i grandi produttori di diossido di carbonio hanno di finanziare progetti che hanno lo scopo di “compensare” le emissioni da loro prodotte. Sono tali i progetti di rimozione del carbonio emesso, di sequestro dello stesso o di semplici rimboschimenti. Il meccanismo è da tempo sotto accusa perché si presta ad operazioni di greenwashing o di “lavaggio verde” che fa venire alla mente le operazioni finanziarie con cui vengono riciclati i famigerati fondi sporchi.
La tempistica e le modalità con cui è stato approvato il documento sono sospette e gli osservatori più attenti hanno espresso un certo disappunto che è condivisibile. L’accordo sul punto 6.4 non è stato raggiunto né nell’ambito della COP 28, né in quello della COP 29, ma in seno ad un comitato di 24 esperti nominato nel 2022, quindi senza che su di esso sia stato raggiunto il consenso degli organismi statuali presenti nelle Conferenze delle Parti. Sono stati tagliati fuori, in particolare, i piccoli stati insulari e tutte le cosiddette Parti “minori”. In questo modo si sono evitate tutte quelle pressioni che tendevano a rendere più “ambiziosi” gli accordi e che, negli anni passati, hanno reso impossibile il raggiungimento del consenso e, quindi, portato all’applicazione della “regola 16”. Questo modo di procedere è stato considerato dagli esponenti delle ONG, dagli attivisti ambientali e dai rappresentanti dei piccoli stati, un colpo di mano in grado di creare pericolosi precedenti.
Entrando nel merito dell’accordo raggiunto, si nota che esso privilegia i progetti che si prefiggono di rimuovere definitivamente la CO2 dall’atmosfera e, successivamente, sequestrarla in modo che non contribuisca al cambiamento climatico. Si tratta della tanto bistrattata “geoingegneria” che angustia il sonno degli ambientalisti e non solo. Tale soluzione, inoltre, consente di spostare il tiro dalla limitazione delle emissioni (mitigazione) alla rimozione delle emissioni (adattamento) e, quindi, è ideologicamente agli antipodi dell’Accordo di Parigi che ne esce fortemente ridimensionato.
Alla fine la plenaria della COP 29 “ha preso nota” del documento che, pertanto, è stato formalmente approvato con la clausola secondo la quale il Comitato dei 24 continua ad essere pienamente responsabile nei confronti della Conferenza delle Parti e che il suo lavoro “non è terminato”. Onestamente fatico a comprendere il significato pratico di queste puntualizzazioni.
Personalmente la cosa non mi meraviglia più di tanto, in quanto il documento approvato, si colloca perfettamente nel solco tracciato dalla COP 23. Come ho già specificato nelle considerazioni circa le trattative a proposito del bilancio globale delle emissioni (art. 14 dell’Accordo di Parigi), a Dubai la Conferenza aveva sostituito all’eliminazione dei combustibili fossili, la transizione verso un mondo privo di combustibili fossili. Durante questa fase di lunghezza indefinita, l’attenzione doveva essere puntata sulle tecnologie di rimozione e sequestro delle emissioni. Si capì subito che i combustibili fossili avrebbero continuato ad alimentare la fame energetica del mondo, ma, come già scritto, il messaggio che passò, fu completamente diverso. Ora i conti tornano perfettamente e si sta delineando un quadro ben preciso che accontenta i produttori ed i consumatori di combustibili fossili: produciamo e consumiamo come meglio ci aggrada, tanto il “pericoloso” diossido di carbonio verrà rimosso meccanicamente dall’atmosfera e reso inoffensivo. Facile a dirsi, ma molto difficile a farsi. Nel frattempo, il clima è salvo (sulla carta, però).
La cosa che più mi rattrista in tutto questo sono i toni trionfalistici con cui l’intesa è propagandata dai media: l’aggettivo storico, riferito all’accordo, è fortemente inflazionato. Non riesco a capire come si possa scambiare il gioco delle tre carte per un gioco equo.
Nel frattempo, è scoppiata la “guerra dell’agenda”, ovvero l’ordine del giorno della Conferenza. Due sono stati i punti di disaccordo.
Uno riguardava il forum migliore in cui trattare i temi legati all’art. 14 dell’Accordo di Parigi: i Paesi in via di sviluppo chiedevano che essi fossero trattati nella sezione “finanza”, mentre altri tra cui l’Unione Europea, si opponevano. Alla fine, dopo lunghe e snervanti trattative, si è deciso a favore della tesi dei Paesi meno sviluppati, concedendo un piccolo contentino anche all’UE: una nota a piè di pagina lascia la porta aperta alla discussione di ulteriori questioni in quel forum, tra cui le modalità per allontanare il mondo dai combustibili fossili.
Altro punto di contrasto è stato quello delle “misure commerciali restrittive unilaterali” come, ad esempio, le “tasse di frontiera” con cui l’Unione Europea intende contrastare l’ingresso dei prodotti di quei Paesi che non partecipano, quali contributori, al Fondo perdite e danni. La Cina ed altri Paesi in via di sviluppo chiedevano che l’argomento fosse inserito nell’agenda, ma l’UE, ovviamente, si opponeva. Dopo lunghi tira e molla, la presidenza è riuscita a trovare la quadra: come lo scorso anno le “misure commerciali” saranno trattate informalmente e, eventualmente, richiamate nel documento conclusivo approvato dalla Plenaria finale.
Definita l’agenda, la COP 29 può definitivamente decollare.
A chiusura di questo scritto vorrei fare una semplice considerazione. Per noi europei, qualunque cosa succeda a Baku, non cambierà assolutamente nulla. Siamo, infatti, gli unici e sottolineo unici, che hanno reso operativi gran parte degli articoli dell’Accordo di Parigi e che stanno marciando speditamente verso un mondo privo di combustibili fossili. E gli effetti disastrosi dal punto di vista sociale ed economico sono sotto gli occhi di tutti.
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