Nelle megalopoli dei Paesi in via di sviluppo i problemi, giganteschi, sono qui e ora. Il timore che la retorica della “crisi climatica” non aiuti ad analizzarli in modo realistico e a indirizzare le risorse verso la loro soluzione.
Il due dicembre scorso è morto Dominique Lapierre, giornalista e scrittore autore di vari bestseller tradotti in più di trenta lingue e letti da milioni di persone. Lapierre aveva peraltro fondato con la moglie un’associazione benefica che finanzia dispensari medici, scuole e centri per la lotta alla lebbra e alla tubercolosi in varie parti del mondo, associazione a cui devolveva metà dei suoi diritti d’autore.
Di Lapierre ho letto anni fa il libro “La città della gioia”, ambientato negli anni ‘70 a Calcutta e centrato sulla denuncia delle condizioni di degrado in cui versava quella città. Nel libro veniva fra l’altro descritta l’azione benefica svolta da madre Teresa e dalle sue consorelle.
Il libro di Lapierre mi è tornato in mente perché il 24 dicembre scorso su Sky tv ho assistito alla prima parte di un documentario di Pablo Trincia, documentarista che non conoscevo, dedicato a Mumbai (Bombay) e di cui ho poi seguito anche le restanti due parti sul sito web di Sky.
Del documentario di Trincia consiglio vivamente la visione (in tutto dura poco più di un’ora) perché mi è parso molto utile per capire le condizioni estreme in cui conducono la propria esistenza milioni di persone, senza servizi igienici e con spazi abitativi e di lavoro ridottissimi, senza fognature e senza sistemi per lo smaltimento delle acque piovane. La visione fantascientifica di Aldous Huxley (Il mondo nuovo – 1932) pare infatti inverarsi nel centro finanziario di Mumbai, abitato dalla élite, sfavillante di grattacieli e circondato da enormi baraccopoli costruite in luoghi esposti al rischio di colate di detriti innescate dalle piogge monsoniche e che danno molti morti. Le baracche costruite su palafitte in riva al mare sono invece esposte alle tempeste, particolarmente violente in occasione dei cicloni tropicali. In tutto ciò emerge la grande umanità che anima il documentarista e gli operatori e che riesce a porre in risalto la grande dignità della popolazione più povera. Emerge anche l’inerzia delle istituzioni, fra industrie chimiche che operano a ridosso dei quartieri popolari, acqua potabile razionata e inquinata, speculazione edilizia, corruzione, inadeguatezza del sistema dei trasporti e distanza sempre più incolmabile fra ricchi e poveri. E qui mi torna in mente quanto mi disse tanti anni fa una giovane suora incontrata in treno e che proveniva da Città del Messico: alla mia domanda su come si potesse governare una città tanto vasta (8 milioni di abitanti) mi rispose “non si governa, punto”.
Devo a questo punto osservare che il quadro offertoci per Mumbai è lo stesso che Lapierre proponeva per la Calcutta di cinquant’anni fa nel suo “La città della gioia”, per cui se ne deduce che in India, all’apparenza nulla è cambiato in questi anni. Ho volutamente scritto “all’apparenza” in quanto il documentario di Sky è poverissimo di dati quantitativi, a testimonianza del limite di una forma di comunicazione che, per quanto lodevole, si propone di parlare alla pancia della gente senza proporsi alcuna analisi quantitativa dei fenomeni.
Nel documentario di Sky si mostrano fra l’altro (come ai tempi fece Lapierre nella Città della Gioia) gli effetti negativi del monsone – che per l’India è vita (dipendendo da esso la produzione agricola del paese) ma che produce allagamenti diffusi in città come Mumbai in cui non esistono strutture per lo smaltimento efficace delle acque piovane. E qui nel documentario è partito il pianto greco sul fatto che piove in modo sempre più violento e a testimonianza di ciò si cita l’ultimo report dell’IPCC che prevede aumenti dell’intensità delle piogge e aumenti del livello del mare (30 cm di qui al 2050, si dice nel documentario). Al riguardo ritengo utile segnalare ai lettori che nel capitolo 11 del report AR6 dell’IPCC (quello dedicato agli eventi estremi), quando si parla di trend nelle piogge estreme dal 1950 a oggi non di dispone di dati per l’India (figura 1), per cui è impossibile dire in che direzione stiano in realtà andando le intensità in quell’area del mondo.
Le vere emergenze planetarie del 21° secolo
Da quanto si è visto nel documentario emergono molteplici elementi emergenziali le cui soluzione starebbe in fattive azioni di adattamento, la cui efficacia è del tutto indipendente dalla presenza o meno di una crisi climatica.
Come si può pensare di gestire in termini di sicurezza una città che non ha sistemi efficace di smaltimento delle acqua piovane e delle acque di fogna?
Come si può pensare di mantenere una fetta sempre più consistente della popolazione mondiale in ghetti in cui la fanno da padrona l’inquinamento, la malavita, la speculazione edilizia, la corruzione, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’inadeguatezza del sistema dei trasporti e la distanza sempre più incolmabile fra ricchi e poveri?
L’impressione è che la vera emergenza planetaria del 21° secolo stia dunque in un urbanesimo che vede l’afflusso di enormi masse di popolazione rurale in migliaia di città ghetto prive di servizi o i cui servizi deragliano per eccesso di domanda.
L’emergenza meteorologica
Se il subcontinente indiano e tantissime altre aree del mondo (si vedano le aree in bianco della figura 1) non riescono a fornire dati di precipitazione aggiornati per i report internazionali sarebbe oggi più che mai necessario pensare ad attivare una rete di misura fatta di stazioni meteorologiche tutte uguali fra loro e che coprano in modo omogeneo il pianeta e che ci consenta di capire in modo chiaro quali sono i trend in atto, in analogia con quanto si è fatto allestendo la rete ARGO per il monitoraggio degli oceani. Perché nessuno denuncia l’emergenza data dalla indisponibilità e dalla scarsa qualità dei dati? Forse perché c’è il timore che qualcuno inizi a porsi dubbi circa i trend globali? Personalmente ho pochi dubbi sul fatto che le temperature globali stanno aumentando mentre qualche dubbio in più ce l’ho sui trend di intensità delle precipitazioni globali. Al di là di ciò confesso che vorrei vederci più chiaro con dati di buona qualità, resi disponibili con regolarità per tutti gli utenti e non distorti dagli effetti urbani o da siti non conformi alle normative internazionali.
Conclusioni
La demagogia della “crisi climatica”, che anche il documentario di Trincia ci ripropone a ogni piè sospinto, è la foglia di fico dietro cui si nascondono a mio avviso una “crisi dei modelli di sviluppo” e una “crisi delle nostre capacità di monitoraggio” su cui dovremmo interrogarci in modo assai più stringente di quanto non si stia facendo oggi.
Concludo segnalando che intorno ai quartieri degradati di Mumbai regna una natura rigogliosa oggi nutrita anche dai più elevati livelli atmosferici di CO2. Questo è a mio avviso un segnale di speranza così come la speranza si ritrova nelle parole di un abitante delle palafitte costruite in riva all’oceano, un mussulmano conduttore di risciò e disoccupato da quando gli è stato rubato il suo mezzo di trasporto. Egli dice che ha fede nella provvidenza divina e che se il mare salirà come prevede l’IPCC ricostruirà più in alto la sua abitazione su palafitte. E questo si chiama adattamento!
Comunque sia, una domanda sorge spontanea:
Perché la UE sta stanziando cosi immense risorse economiche per promuovere le energie rinnovabili ?
Ogni volta che accadono tragedie legate ad eventi meteorologici, la sensazione che mi suscita leggere che le stesse sono causate dalla “crisi climatica” è quella di aver trovato un alibi ad una mancanza di capacità di gestione dell’urbanizzazione di aree vulnerabili e ad alto rischio. Chi ha permesso di costruire su alvei di fiumi o su pendii che presentano frane quiescenti viene di fatto scagionato di fronte ad una natura imprevedibile e soggetta a fenomeni straordinari di cui si perdono le tracce nella storia. Quante volte si sente dire che quel fenomeno non si presentava da centinaia di anni? Ma già una considerazione di questo tipo dovrebbe far riflettere che, anche se lontano negli anni, un fenomeno di quel tipo si era purtroppo già verificato!
Purtroppo penso che i cambiamenti climatici siano più che una realtà ambientale problematica, un colossale business che temo finanzi, fra l’altro, a piene mani , ,scienziati dell’ultima ora e giornalisti e testate compiacenti. Dubito che fra 30 anni qualche cosa sarà cambiato in meglio
Basti pensare alle rinnovabili che nulla hanno di rinnovabile se non quello di implementare la devastazione del nostro ambiente e paesaggio, unica nostra vera risorsa
Penso che più che parlare di “cambiamenti climatici” bisognerebbe parlare di “cambiamenti ambientali” causati dall’eccessiva popolazione di certe aree, guarda caso le più povere, in prevalenza, dove la CO2 non c’entra nulla:)