La prima settimana delle Conferenze delle Parti è molto particolare. Durante i primi due giorni intervengono i leader mondiali ed è durante questo periodo che i mezzi di “comunicazione di massa” (per usare un modo di esprimersi non più alla moda) si occupano della COP. Passati questi due giorni la Conferenza piomba in una specie di limbo. Le riunioni si svolgono a porte chiuse e coinvolgono i delegati impegnati nelle riunioni dei corpi separati. Essi lavorano sulle bozze dei documenti, approntati dai tecnici delle Nazioni Unite e cercano di dirimere le questioni. E’ il momento in cui ci si dedica alle parentesi, ovvero a quei contenuti dei documenti sui quali non si e riusciti a trovare un accordo durante le riunioni preparatorie che si svolgono durante tutto l’anno che separa due COP. In questo periodo sono poche le notizie che emergono dalle stanze in cui si tratta e, quindi, ci si dedica a ciò che ruota intorno alla Conferenza.
Quella di Sharm el-Sheikh è una riunione interlocutoria da cui non ci si attendono molti risultati, Per questo motivo gli spunti di interesse sono ancora meno del solito. Quest’anno non abbiamo neanche la possibilità di commentare le manifestazioni degli attivisti che cercano di pungolare i delegati: il governo egiziano ha tenuto lontano dalla Conferenza molte ONG poco gradite e gli attivisti presenti sono costretti a manifestare lontano dai luoghi in cui si svolgono le trattative. Ha fatto eccezione, nella giornata di oggi una manifestazione svoltasi nel cuore dell’area riservata alle riunioni: una ventina di attivisti ha esposto dei cartelli e steso degli striscioni, ma niente di paragonabile a quello che succedeva durante le altre COP. Esemplificativo del clima che si respira a Sharm è il sunto che The Guardian ha fatto della giornata di oggi: otto punti dedicati ad eventi di contorno che non avrebbero avuto nessun risalto se non riguardassero la COP 27.
L’unico aspetto che, a mio modesto parere, riveste un certo interesse è la dichiarazione del rappresentante cinese alla Conferenza. Egli ha stigmatizzato la lontananza che, ormai, caratterizza le posizioni di Cina e Stati Uniti, accentuatasi dopo la visita della presidente della Camera degli USA a Taiwan. Praticamente Cina ed USA non si parlano e qualche contatto esiste tra il rappresentante cinese e quello americano solo in virtù del fatto che essi “sono buoni amici”. Vedremo se, fino alla fine dei lavori, essi riusciranno ad incontrarsi. Ad ogni buon conto il delegato della Repubblica Popolare Cinese ha tenuto a precisare che la Cina è disposta a contribuire al fondo perdite e danni a favore dei Paesi emergenti (tra due e trecento milioni di dollari), pur non essendo tenuta a nessun contributo, in quanto Paese danneggiato dallo sfruttamento coloniale delle potenze occidentali. Non è mancata, infine, la solita stoccata agli USA: la Cina è assolutamente contraria alle decisioni unilaterali relativa al CBAM. Si tratta del meccanismo con cui si intende colpire fiscalmente i prodotti ad alto contenuto di “carbonio”, nel momento in cui essi attraversano le frontiere. E’ una specie di dazio che colpisce merci come l’acciaio o il cemento che, per essere prodotti, richiedono l’impiego di enormi quantità di energia. Il rappresentante della Cina ha chiosato sostenendo che è ora di finirla con un Paese che decide per tutti e che bisogna capire che il mondo è un’entità multilaterale. Credo che a qualcuno siano fischiate le orecchie dall’altro capo del mondo.
I Paesi emergenti stanno vivendo, nel frattempo, una specie di trance: ancora non riescono a credere che dopo oltre tredici anni di lotte, sono riusciti a far inserire nell’agenda dei lavori le azioni risarcitorie per i danni da loro subiti a causa dello sfruttamento operato ai loro danni dai Paesi sviluppati.
Nel frattempo, grazie ad un’indagine effettuata da Carbonbrief, il noto sito ambientalista britannico, scopriamo che gli USA sono il Paese meno virtuoso in fatto di partecipazione al fondo perdite e danni. Considerato che gli Stati Uniti sono i principali emettitori di CO2, essi dovrebbero contribuire con circa 40 miliardi di dollari a quei famigerati 100 miliardi di dollari che annualmente dovrebbero essere trasferiti dai Paesi sviluppati a quelli meno sviluppati. Invece gli USA partecipano al fondo con meno di otto miliardi all’anno. Nella classifica si può vedere che i Paesi europei sono tra i maggiori “contributori netti” ed anche il nostro Paese non sfigura in tale classifica: contribuiamo in misura maggiore, rispetto a quanto dovremmo se usassimo la metrica suggerita da Carbonbrief.
Nel frattempo si profilano all’orizzonte tempi duri per noi europei: nei giorni scorsi rappresentanti della Commissione Europea e del Parlamento europeo hanno concordato di raggiungere il traguardo di ridurre le emissioni del quarantatré per cento entro il duemila trenta e raggiungere il traguardo zero emissioni nel 2050. Per noi la COP è già finita. Non abbiamo alcun danno da temere da parte della Conferenza, ci hanno pensato quelli di Bruxelles e di Strasburgo a sistemarci per le feste.
Per sapere, invece, quel che accade a Sharm el-Sheikh bisogna armarsi di pazienza ed attendere almeno la fine di questa settimana. A presto.
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