Chi legge abitualmente le nostre pagine lo sa. Tra le tante, tantissime incertezze che abbiamo, c’è una cosa di cui siamo assolutamente certi: non esiste un clima ideale. Esiste un sistema che nella sua enorme complessità – di cui come specie facciamo parte a pieno diritto – ha consentito lo sviluppo della vita per come la conosciamo regalandole alterne fortune da quando questa ha iniziato ad esistere ma, negli ultimi 10-15.000 anni ha deciso che, sì, questo è il nostro posto. Almeno fino alla prossima glaciazione.
E però non passa giorno senza che qualcuno faccia riferimento proprio all’inesistente clima ideale, considerando quello attuale e, soprattutto quello ipotizzabile per il futuro, tutt’altro che tale. Può darsi che sia così, ma c’è un’altra cosa di cui siamo certi: fin qui ci siamo arrivati con l’adattamento, non certo con il dominio sul sistema. Ora però, ci sentiamo talmente forti da pensare non solo di aver rotto il giocattolo, ma anche di poterlo aggiustare. Impresa titanica, si dice, che può riuscire solo con la partecipazione di tutti, ma proprio tutti gli abitanti del pianeta.
E qui, come si dice, casca l’asino. E’ in giro da qualche giorno il pre-print di un lavoro molto interessante (spoiler alert, deve ancora passare attraverso la peer review) che mette in luce senza mezzi termini una verità molto più scomoda di quella del global warming. Gli scenari che l’IPCC ha utilizzato per indirizzare le policy di mitigazione che dovrebbero salvarci – leggi contenere il riscaldamento globale entro i famosi 1.5 e 2°C dal clima ideale (?!?), ce li siamo fatti su misura. Cioè, l’occidente se li è fatti su misura.
Prima di proseguire un’altra certezza, l’ultima per oggi spero: vada come vada, le proiezioni del panel vanno tutte nella stessa direzione, global warming o no, per la metà e per la fine di questo secolo saremo tutti più ricchi; la differenza sarà tutta in diversi livelli di catastrofe climatica ma la forchetta è di pochi punti PIL globale su una scala di centinaia.
Torniamo agli scenari sartoriali. Questa ricchezza, sarà tale per cui chi è già ricco lo sarà molto di più, leggi paesi del cosiddetto occidente allargato, e chi è oggi povero lo sarà solo un po’ meno. E questo varrà – sempre ammesso e non concesso che gli scenari si avvicinino alla realtà – sia per la riduzione delle emissioni che per i beni di consumo, entrambi calcolati pro-capite. Sullo stesso percorso, a pagare il conto più salato per una transizione globale che comunque non è un pranzo di gala, saranno comunque proprio i paesi oggi più poveri.
Molto semplicemente, gli scenari di mitigazione e delle relative policy suggerite mancano completamente di equità. E fanno correre seriamente il rischio che un mondo climaticamente migliore (?!?) non sia anche un mondo più equo. Per cui, viene anche il dubbio che non sia affatto migliore.
Forse adesso, però, qualche conto sull’entusiasmo con cui la finanza globale ha abbracciato l’idea della transizione comincia a tornare.
Il paper è qui: Equity Assessment of Global Mitigation Pathways in the IPCC Sixth Assessment Report, e ne ha parlato anche Roger Pielke Jr, qui.
Enjoy.
Questo studio, che anche io recepisco dalla lettura del Col. Guidi, aggiunge un altro elemento di dubbio sull’onestà morale e intellettuale di coloro che ideano, progettano, insinuano questi piani di sviluppo che sanno tanto di ex sovietico. E’ tanto che vado dicendo “Mah, chi negli anni 80 moriva di fame, ha risolto i suoi problemi? Non è che tutte queste risorse dirottate sul clima sarebbero state più utili nel creare condizioni migliori di vita nei paesi meno sviluppati? Ribadisco, è proprio necessario che compri un’auto elettrica da 40.000 € per stare sotto i 2°C nel 2100 oppure, con quel delta di valore, dar subito da mangiare a non so quanti bambini che adesso, adesso !!! Muoiono di fame?
Questo molti Paesi in via di sviluppo (alias poveri) lo hanno capito da parecchio e per questo motivo chiedevano e chiedono a gran voce i famosi 100 miliardi di dollari all’anno senza condizioni di sorta.
Che si trattasse di una problematica finanziaria e non climatica è un sospetto che serpeggia tra gli addetti ai lavori da anni. Che la mitigazione climatica fosse un affare interessante per alcuni gruppi finanziari, lo sospettavamo in molti. Non ho letto il paper, ma se il commento di G. Guidi ne ricalca i contenuti, possiamo dire che conferma inequivocabilmente le tesi che circolano nel Villaggio e non solo.
Lo studio conferma, quindi, ciò che appare evidente (ma che non tutti sono disposti ad accettare) durante lo svolgimento delle COP: da una parte i Paesi ricchi che chiedono azioni di mitigazione al mondo intero, dall’altra i Paesi in via di sviluppo che non si fidano della buona fede di costoro e chiedono azioni risarcitorie per lo sfruttamento incontrollato dei loro territori. E quello finanziario è stato e sarà lo scoglio contro il quale naufragano le varie COP.
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Il problema è che queste manovre, pur abbastanza trasparenti, non riescono ad essere decifrate da tutti e, pertanto, si vengono a creare quelle frange di “attivisti climatici” che, imbolsiti dalla propaganda che i media ammanniscono a destra ed a manca, credendo di essere l’ultima generazione in grado di cambiare il mondo, bloccano strade ed autostrade o imbrattano quadri ed opere d’arte per “sensibilizzare” le masse.
Ciao, Donato.