Fra i tanti settori colpiti dall’invasione russa dell’Ucraina vi è il mercato globale dei cereali e dei semi oleosi. Come risponderà l’Ue a questo nuovo imprevisto? Le linee guida dei padri fondatori, che miravano all’autosufficienza, sono state dimenticate. Ora il biologico fa la parte del leone. Ciò vuol dire dipendere maggiormente dall’import.
Questo post è uscito in origine su La Nuova Bussola Quotidiana.
Fra i tanti settori colpiti dall’invasione russa dell’Ucraina vi è il mercato globale dei cereali e dei semi oleosi. Alcuni dati riferiti al periodo gennaio-novembre 2021 e tratti dall’analisi che Herbert Lavorano ha sviluppato sull’ultimo numero dell’Informatore Agrario illustrano con efficacia tale aspetto:
– L’Ucraina è il terzo Paese esportatore di cereali a livello mondiale dietro gli Usa e l’Argentina, con un volume nel periodo considerato di circa 45 milioni di tonnellate di cereali, tra cui 19,8 milioni di mais, con la Cina primo Paese importatore, seguita dalla UE al 31%. Seguono 18,9 milioni di tonnellate di frumento e 5,4 milioni di orzo. Per l’Italia il problema si pone soprattutto per il mais: dall’Ucraina abbiamo importato, nei primi 10 mesi del 2021, circa 466mila tonnellate di merce di buona qualità e indispensabile al nostro settore zootecnico.
– La Russia nello stesso periodo ha esportato nel mondo oltre 32,4 milioni di tonnellate di cereali (tendenza in calo per via delle restrizioni all’export), dei quali 24,5 milioni di frumento tenero, con Turchia ed Egitto primi clienti. È difficile che questo flusso venga meno, e peraltro non interessa direttamente l’Italia, che peraltro dall’area del Mar Nero importa mais e grano tenero e non i grani di forza utilizzati dall’industria della pasta. Occorre peraltro segnalare che l’attivismo russo sul mercato mondiale del frumento è frutto del rilevante incremento produttivo registrato nell’ultimo decennio e che è conseguenza sia di innovazione tecnologica sia della mitigazione del clima oggi in atto.
Certo, l’Italia è in grado di sostituire con rapidità le importazioni dall’area del Mar Nero con quelle da altre aree del globo senza che si creino particolari colli di bottiglia nell’approvvigionamento. Non deve tuttavia sfuggire che l’Italia, come tutti i grandi importatori di cereali e altri prodotti agricoli, è fortemente esposta alla volatilità dei mercati mondiali, oggi sostenuta dalle tante incertezze che si riassumono nelle seguenti domande:
– gli imprenditori agricoli ucraini riusciranno questa primavera a seminare mais e girasole?
– quale sarà nei prossimi mesi / anni la disponibilità di cereali e semi oleosi provenienti dall’areale del Mar Nero?
– ci sarà un embargo sulle esportazioni russe verso l’Occidente?
– la Turchia sarà costretta a chiudere gli Stretti da cui transita un flusso ininterrotto di navi da carico che trasportano cereali?
Tutti questi quesiti non trovano al momento risposta, vista la rapidità con la quale sta evolvendo la crisi e creano un senso di incertezza che non giova certo alla stabilità dei mercati. Aldilà di questi aspetti congiunturali giova tuttavia sviluppare una riflessione in chiave storica per capire se l’Italia e l’Unione Europea abbiamo davvero fatto tutto il possibile per metterci al riparo dallo scenario di crisi che oggi si va delineando.
La strategia dei padri fondatori
La Comunità Europea, sorta dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, ha avuto per decenni come elemento fondante delle proprie politiche l’autosufficienza alimentare ed energetica, aspetti di cui oggi cogliamo l’importanza cruciale in un mondo turbolento e soggetto a crisi ricorrenti (prima la crisi pandemica legata al Covid19 e ora il conflitto in Ucraina). Nello specifico il trattato di Roma del 1957 che istituiva la comunità europea, all’articolo 39 fissava le seguenti finalità per la politica agricola comune:
a) incrementare la produttività, sviluppando il progresso tecnico, assicurando lo sviluppo razionale della produzione agricola come pure un impiego migliore dei fattori di produzione, in particolare della mano d’opera,
b) assicurare cosi un tenore di vita equo alla popolazione agricola, grazie in particolare al miglioramento del reddito individuale di coloro che lavorano nell’agricoltura,
c) stabilizzare i mercati,
d) garantire la sicurezza degli approvvigionamenti,
e) assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori.
In sostanza il trattato indicava che la sicurezza alimentare dev’essere perseguita attraverso l’incremento della produttività dell’agricoltura da ottenere attraverso l’innovazione tecnologica a base scientifica e con un sguardo particolare alla sostenibilità economico-sociale e cioè alle esigenze degli imprenditori agricoli di chiudere in attivo i bilanci e dei consumatori di disporre di cibo di buona qualità e a buon mercato.
La strategia del Farm to Fork
I principi stabiliti dai padri fondatori paiono lontani anni luce se raffrontati con l’attualità politica della Commissione UE, che in campo agricolo ha partorito il cosiddetto Farm to fork (F2F) che rientra nel più ampio Green Deal. F2F pone infatti in discussione l’autosufficienza alimentare europea scaricando all’esterno dell’Unione l’onere di provvedere al cibo e ai beni di consumo di origine agricola degli europei, in tal modo generando rilevanti criticità sul piano della sostenibilità globale, non solo ambientale ma anche socio-economica. L’insostenibilità del F2F è stata evidenziata già nel 2020 dall’autorevole rivista scientifica Nature con un commento a firma di Fucks e altri (2020) dall’emblematico titolo Europe’s Green Deal offshores environmental damage to other nations. Importing millions of tonnes of crops and meat each year undercuts farming standards in the European Union and destroys tropical forests (Il Green Deal europeo esporta verso nazioni terze i danni ambientali. Attraverso l’importazione annua di milioni di tonnellate di cereali e di carne mina gli standard agricoli dell’Unione europea e distrugge le foreste tropicali). A conclusioni analoghe a quelle di Nature sono inoltre pervenuti due recenti rapporti del Ministero dell’Agricoltura statunitense (Beckman et al., 2020) e dello stesso Centro Comune di Ricerca della UE (Barreiro-Hurle et al., 2021) ed alcune analisi sviluppate da studiosi italiani (Fontana e Mariani, 2020; Mariani, Ferrero et al, 2021).
In estrema sintesi la strategia F2F è insostenibile in quanto pone come fulcro della propria azione l’agricoltura biologica, che a seconda della coltura produce dal 20 al 70% in meno dell’agricoltura convenzionale e che secondo gli auspici del F2F dovrebbe raggiungere nel 2030 il 25% della superficie agricola utile (European council, 2021) contro il 9,1% del 2020 (Eurostat, 2022). Per fare un esempio concreto, le statistiche produttive del frumento per la Francia, maggiore produttore europeo di tale coltura, con una superficie complessiva a frumento di 4,7 milioni di ettari contro gli 1, 7 milioni dell’Italia, indicano una media di 7,1 t/ha per il convenzionale e 2,9 t/ha per il biologico (dati 2008-2015 – Academie d’Agriculture, 2018). Per dirla con una battuta, su ogni metro quadrato di suolo francese coltivato a frumento si producono tre baguettes con l’agricoltura convenzionale e una sola baguette con quella biologica. Ciò significa che quando il F2F diverrà operativo, la Francia si trasformerà in breve da esportatore a importatore di frumento, che proverrà da Paesi terzi che saranno così invogliati a espandere le proprie superfici agricole ai danni di foreste e praterie naturali. Per l’Italia andrà ancora peggio, visto che come dicevamo è già ora autosufficiente per meno del 50% del frumento tenero e duro utilizzato per la panificazione e per l’industria della pasta e che importa frumento da paesi come il Canada, l’Australia, Russia e Ucraina, i quali vantano prodotti qualitativamente superiori ai nostri in virtù di una maggiore capacità di mettere a frutto i risultati della ricerca scientifica a livello di nuove varietà e tecniche colturali.
A ciò si aggiunga che l’agricoltura biologica immette sul mercato prodotti di élite, con prezzo mediamente doppio rispetto a quelli dell’agricoltura convenzionale e senza che a fronte di questo aggravio per il consumatore si abbiano particolari vantaggi in termini di qualità e salubrità, come dimostrano ampiamente le analisi dell’EFSA (European Food Safety Authority).
Si noti inoltre che se il sistema europeo fosse isolato, F2F spingerebbe a tagliare boschi e a dissodare terre in Europa per compensare con l’espansione della aree coltivate le minori rese delle aree convertite a biologico. Vivendo noi in un’economia di mercato ed essendovi una forte opposizione dei nostri concittadini a tagliare aberi, la nostra autosufficienza dovrà essere garantita dal mercato mondiale, il quale fornirà prodotti ottenuti in altre aree del mondo (Fucks & Brown, 2020) tagliando boschi, dissodando terre, emettendo gas serra, intensificando le colture e facendo aumentare i prezzi mondiali delle derrate, il che peraltro creerà problemi di approvvigionamento per i Paesi in via di sviluppo che non sono autosufficienti a livello alimentare (e per comprendere fino in fondo la rilevanza di tale problema basta pensare a quanto accadde con le “primavere arabe”, scoppiate a seguito dell’aumento del prezzo del pane dovuto a turbolenze sui mercati internazionali).
Scelte del singolo imprenditore e interesse nazionale
E’ importante a questo punto osservare che se l’imprenditore agricolo dev’essere lasciato libero di adottare il processo produttivo che meglio gli consente di confrontarsi con il mercato (convenzionale, biologico, biodinamico, ecc.), la classe politica di un Paese come l’Italia, che ha responsabilità a livello europeo e globale, non dovrebbe esimersi dal fare valutazioni in termini di sicurezza alimentare e di sostenibilità. Da ciò discende che sia da ritenersi del tutto insensato il fatto che il 2 marzo 2022, quando già la crisi ucraina si stava palesando in tutta la sua crudezza, il nostro Senato abbia trovato il tempo di approvare all’unanimità (con soli 4 astenuti) la legge sull’agricoltura biologica (ex DDL 988), che garantirà finanziamenti ad hoc per tale agricoltura, favorendone la diffusione in Italia e stimolando così l’ulteriore riduzione dei nostri livelli di autosufficienza alimentare. In proposito si veda i trionfalismo del tutto fuori luogo con cui la notizia è stata rilanciata da RAI news.
Le prime ripercussioni della crisi ucraina
Occorre a questo punto dire che la lacerante crisi Ucraina, che tanto pesa sulle nostre coscienze, ha quanto meno avuto il merito di rendere palese l’irrazionalità della strategia F2F e delle scelte nazionali italiane che a tale strategia si richiamano. In tal senso appare interessante segnalare quanto emerso in una riunione straordinaria dei Ministri dell’Agricoltura dell’Unione europea, in occasione della quale il Commissario Ue all’Agricoltura, Janusz Wojciechowski, ha dichiarato che la Commissione è pronta a rivedere la strategia Farm To Fork indirizzando la politica agricola comunitaria verso obiettivi di sicurezza alimentare coerenti con il nuovo contesto internazionale in cui la UE è oggi chiamata a muoversi. In tal senso Wojciechowski si è impegnato (i) a individuare misure eccezionali nell’ambito del regolamento sull’organizzazione comune dei mercati (ocm) rivolte ai settori più colpiti dall’aumento dei costi di produzione e (ii) a valutare l’adozione di misure volte a garantire e liberare la capacità di produzione dell’Europa nel 2022 come ad esempio l’utilizzo di terreni incolti per colture proteiche. Alla luce di ciò la priorità data ad un’agricoltura scarsamente produttiva stride pesantemente con i problemi che la congiuntura internazionale ci pone oggi di fonte.
Siamo dunque ad attendere il ravvedimento della Commissione Europea che riteniamo in ogni caso responsabile dell’aver troppo al lungo persistito su un linea politica, quella del F2F, che da più parti era stata additata, e con argomenti robusti, come insostenibile sul piano ambientale e socio-economico. Peraltro tali scelte fanno il paio con quelle altrettanto sciagurate di politica energetica (incentivi alle innovabili discontinue, chiusura degli impianti nucleari in Germania, ecc.) che hanno spinto la dipendenza dell’UE dalla Russia per il gas altre la soglia del 47% del proprio fabbisogno totale. Qualcuno dovrebbe chiedere il conto di tali scelte in sede politica ma non mi pare che vi sia oggi nessuno culturalmente attrezzato per esercitare un ruolo critico di questo tipo.
Conclusioni
A conclusione di queste riflessioni trovo utile domandarci perché l’Europa e l’Italia siano giunte ad adottare una strategia contraria agli obiettivi di autosufficienza alimentare ed energetica che il trattato di Roma aveva posto alla base della costruzione europea, una strategia che ha peraltro reso l’Europa e l’Italia sempre più dipendenti da un Paese, la Russia, che per decenni è stato il principale avversario strategico delle democrazie liberali e che mantiene tutt’oggi preoccupanti elementi di illiberalità.
Molti indicatori inducono a ritenere che tale strategia europea e italiana sia frutto della volontà della classe politica di qualsivoglia orientamento di compiacere i settori più retrivi del movimento ambientalistico, che vedono l’agricoltura e la produzione energetica unicamente come inquinatrici e distruttrici dell’ambiente. Al di là delle motivazioni di fondo di scelte sciagurate è tuttavia chiaro che la strategia Europea nei settori dell’agricoltura e dell’energia condanna oggi l’Europa e l’Italia all’irrilevanza, e ciò in quanto l’autosufficienza alimentare ed energetica sono precondizioni essenziali per poter esercitare un ruolo autorevole in crisi internazionali come quella ucraina.
Ringraziamenti
Ringrazio il dott. Flavio Barozzi per aver effettuato la revisione del testo.
Bibliografia
Beckman J., Ivanic M., Jelliffe J.L., Baquedano F.G., Scott S.G., 2020. Economic and Food Security Impacts of Agricultural Input Reduction Under the European Union Green Deal’s Farm to Fork and Biodiversity Strategies, A report summary from the Economic Research Service of USDA, November 2020
Barreiro-Hurle, J., Bogonos, M., Himics, M., Hristov, J., Pérez-Domiguez, I., Sahoo, A., Salputra, G., Weiss, F., Baldoni, E., Elleby, C., 2021. Modelling environmental and climate ambition in the agricultural sector with the CAPRI model. Exploring the potential effects of selected Farm to Fork and Biodiversity strategies targets in the framework of the 2030 Climate targets and the post 2020 Common Agricultural Policy, EUR 30317 EN, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2021, ISBN 978-92-76-20889-1, doi:10.2760/98160, JRC121368.
European council, 2021. From farm to fork – Making Europe’s food healthier and more sustainable,
https://www.consilium.europa.eu/en/policies/from-farm-to-fork/
Eurostat, 2022. Organic farming statistics, https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Organic_farming_statistics
Fontana G. e Mariani L., 2020. Farm to fork – un documento d’indirizzo che non concilia i mezzi con i fini, su Agrarian Sciencies, https://agrariansciences.blogspot.com/2020/06/farm-to-fork-un-documento-dindirizzo.html (pubblicato su XXI secolo n. 2/2020 pp 6-9)
Ferrero A., Barozzi F. e Mariani L., 2021. Strategie farm to fork e biodiversita dell’UE – impatto economico, ambientale e sulla sicurezza alimentare https://www.agrariansciences.it/2021/09/strategie-farm-to-fork-e-biodiversita.html
Fuchs R., Brown C., Rounsevell M., 2020. Europe’s Green Deal offshores environmental damage to other nations,
Importing millions of tonnes of crops and meat each year undercuts farming standards in the European
Union and destroys tropical forests, Nature, Vol. 586, 29 October 2020, https://www.nature.com/articles/d41586-020-02991-1
Foto di FelixMittermeier da Pixabay
Articolo assolutamente condivisibile. Aggiungo alcune considerazioni:
– una buona quota dei “terreni bio” italiana è fuffa pura (foraggere o prati stabili…, bio…), un’altra quota non trascurabile è attribuibile a terreni marginali, già di loro poco produttivi, che vengono “biologicizzati” per accedere ai contributi, senza di fatto produrre praticamente nulla;
– nella trionfale reportistica bio si riportano sempre dati su superfici o su numero di operatori, mai una volta che abbia trovato dati sulle produzioni complessive (che già quando si vedono studi su confronti fra rese colturali bio e non bio le differenze sono importanti)
– il vero problema della agricoltura italiana temo sia però, non il bio ma la frammentazione aziendale e la scarsa professionalità; provengo da una famiglia di agricoltori, in una zona agricola tutt’altro che marginale, allo stato attuale tutte le proprietà del mio circondario sono di proprietari ottuagenari o poco meno, o di persone che in effetti svolgono altri lavori; il risultato è che le lavorazioni e le coltivazioni sono di fatto gestite da contoterzisti che non vogliono (ne possono) investire, la produttività è, inevitabilmente, quella che è (spesso i contoterzisti sono impegnati a contabilizzare le ore, la produzione è un di più!); in ogni caso una azienda che pratica colture seminative di 10-15 ha (queste sono le dimensioni medie dalle mie parti) è assolutamente fuori scala e assurda, e temo che in diverse altre zone italiane la situazione sia ancora più tragica
Caro Luigi, grazie per questo pezzo, come al solito perfettamente supportato e abbastanza didascalico da essere comprensibile anche ai non addetti ai lavori. Quando leggo articoli come questo penso che uno dei problemi principali di questa Europa e’ che negli ultimi anni ha varato sempre piu’ provvedimenti da “pancia piena”; che si tratti di farm-to-fork o di Next-Generation-EU, si tratta di provvedimenti “da ZTL”, che possono avere senso in economie talmente ricche da potersi permettere una serie di lussi, quelli che in finanza vengono definiti “discretionary consumer goods”.
Che si tratti di pagare una bolletta della luce piu’ cara per avere l’illusione di salvare il mondo dal global warming, o di comprare cibi bio che costano il triplo di quelli “convenzionali”, Tutto questo e’ puramente “discretionary”, espressione di un portafoglio pieno che consente di fare scelte non alla portata di tutti, magari di cui fregiarsi al Rotary o in un salotto radical chic.
La vera domanda, e la vera preoccupazione e’ che il legislatore viva talmente immerso in una bolla lontana anni luce dalle necessita’ reali dei cittadini, da emanare provvedimenti che hanno senso solo all’interno di quella bolla. Va da se’ che quegli stessi provvedimenti sono mortiferi per l’economia europea. Tanto piu’ che si tratta di una economia in progressivo impoverimento in termini di potere di acquisto reale dei cittadini (con l’Italia in testa alla classifica, di questo impoverimento).
Che si tratti di emuli di Maria Antonietta, o di poveri mentecatti privi degli strumenti culturali minimi per capire cosa stanno facendo, e per evitare di farsi prendere in giro dalle pressioni delle lobby ambientaliste, poco importa. Questa guerra e’ un acceleratore di processi, incluso il processo di impoverimento e di crescente irrilevanza dell’Unione Europea. Alla luce di questa accelerazione, questi provvedimenti saranno ancora piu’ catastrofici per le nostre economie.
A pagare, saranno soprattutto le prossime generazioni. “Next Generation”, appunto.
Alla fine, torniamo sempre allo stesso punto.
Alle elites non importa nulla di quanto costano le derrate e i beni di prima necessità.
Che gli frega a chi guadagna centinaia di migliaia di euro netti all’anno (minimo, se non milioni) se invece di 300 euro la bolletta del gas o della corrente diventa 600 o 900 ???? Nemmeno sa quanto paga…..
O che il pane costi 5 o 20 euro al chilo.
Le facce che vedo quando, nelle discussioni, metto a nudo alcune credenze comuni sul bio e sulle energie.