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Permafrost e Climate Change, le emissioni di CO2 fino al 2100

In una pubblicazione italiana di difficile accesso (Il Polo, anno LXXVI-1, marzo 2021, pagg. 58-68) in quanto destinata agli abbonati e non disponibile in formato elettronico, è stato pubblicato un articolo, tradotto dal francese, di Gilles Banzet (ingegnere CNRS, specializzato in Geologia e Geofisica) il cui lungo titolo si può leggere nella successiva foto della prima pagina, con alcuni miei commenti in calce, e della cui natura (di ricerca, divulgativo) non c’è indicazione.

Fig.1: Titolo e prima pagina della traduzione italiana dell’articolo di G. Banzet pubblicata su Il Polo.

Leggendo l’articolo, fin dalla prima riga ero rimasto perplesso dalla citazione del lavoro scientifico su cui si basa (Natali et al., 2019) senza che in bibliografia venissero riportate le indicazioni complete per il recupero del lavoro originale e per una frase (… scienziati da una dozzina di paesi …) tipica dei resoconti giornalistici ai quali interessa molto il ricorso al principio di autorità, quando in realtà la provenienza geografica degli autori conta abbastanza poco.
Il “pezzo” si caratterizza per la ormai solita abbondanza di certezze sul futuro del pianeta a causa della emissione di CO2, umana in generale e da permafrost in questo caso, e per la altrettanto solita presenza di retroazioni (feedback) solo positive (… un processo noto come feedback positivo … si scrive). Il testo originale francese si trova in questo sito, dove viene correttamente riportata l’indicazione di articolo divulgativo (Accueil>Articles de vulgarisation>Dossiers thématiques).
Il traduttore italiano ha dimenticato anche i riferimenti bibliografici che il post francese riporta, anche se solo nella barra laterale (luogo del tutto inusitato per inserire la bibliografia, certo, ma che non sarebbe dovuto sfuggire a chi ha tradotto e presentato il pezzo).

Quindi l’articolo de Il Polo si presenta come uno strano mix di errori italiani e affermazioni gratuite francesi che si basano su un “poderoso” lavoro (una letter a Nature CC), con 77 autori internazionali, di ben 5 pagine (una di bibliografia), in cui i modelli climatici CMIP5 (RCP 8.5 e 4.5) e un modello di permafrost (BRT, boosted regression tree), basato su poco meno di 30 anni di dati, si spingono alle ormai note previsioni al 2100 per la CO2 emessa dal permafrost, come si vede dalla figura 2 che riproduce la figura 4 di Natali et al., 2019.

Fig.2: Riproduzione della figura 4 di Natali et al.,2019 e didascalia originale.

Per meglio chiarire i termini del problema, si sta parlando, come scrive Banzet, di 600 mila tonnellate di CO2 da permafrost, da confrontare con i 40 miliardi di tonnellate prodotte dalle attività umane ogni anno, per un rapporto (uguale a 0.000015) del tutto trascurabile, anche se si fa notare l’effetto del feedback positivo (lo scioglimento del permafrost è destinato ad aumentare seguendo il riscaldamento) e la presenza di altri gas serra qui non considerati.

Personalmente vorrei ribadire il fatto che noi (esseri viventi) siamo ancora qui, dopo oltre 4 miliardi di anni di vita sulla Terra e dopo sollecitazioni climatiche (e non solo) molto più ampie e devastanti di quelle che staremmo sperimentando in questo (breve, brevissimo) periodo; il che significa che esistono, e sono potenti, anche i feedback negativi che riportano il sistema indietro di uno o più passi. Parlare solo di feedback positivi, come viene fatto nei modelli climatici, significa barare o non essere in grado di considerare feedback capaci di far recedere il sistema verso situazioni non catastrofiche.

Rispetto all’articolo scientifico, Banzet aggiunge di suo l’istogramma della emissione annuale di CO2 (in milioni di tonnellate) dovuta agli incendi di giugno, a nord del circolo polare artico, dal 2003 al 2020.

Fig.3: Dal post di G. Banzet, emissione di CO2 da incendi di giugno, a nord del circolo polare artico. Come fonte di questo grafico viene citato Copernico (ECMWF) che però riporta figure diverse, riferite a giugno-agosto e non al solo giugno.

A parte il fatto che un simile grafico avrebbe dovuto coprire almeno l’intero periodo post 1850 (periodo industriale) per valutare correttamente l’influenza della CO2 su questo processo, come devono essere interpretate le due forti emissioni del 2019 e 2020? Probabilmente come aumento del numero di incendi (e conseguente aumento di emissione), sì, ma causati da cosa? Posso azzardare che siano dovuti ad un aumento della CO2 antropica che ha causato un aumento di temperatura e quindi del numero di incendi: va bene (solo in parte e infatti la temperatura che genera incendi spontanei si aggira sui 200 gradi centigradi  e questi sembrano avvenire solo nell’1% dei casi. Niente a che fare con la temperatura che sarebbe causata della CO2, e la causa della maggior parte degli incendi è da codice penale o antropica, non da clima), ma come si spiegano le basse emissioni degli anni precedenti quando la concentrazione di CO2 aumentava quasi allo stesso modo? A nessuno viene mai un dubbio, anche piccolo piccolo? Per Blazet, a proposito di dubbi, gli incendi “… étant une conséquence des vagues de chaleur sans précédent …“.

In definitiva, quello di Natali et al., 2019 è un tranquillo articolo scientifico, che appare essere un semplice esercizio numerico sui modelli, forse per dare un titolo accademico aggiuntivo ad un numero molto grande di autori, ma che in un articolo divulgativo viene spacciato per certezza assoluta su come si evolverà il pianeta, in riferimento al permafrost, nei prossimi 80 anni. Come minimo, dovrebbe essere considerato con molta prudenza e scetticismo e con esso, a maggior ragione, il resoconto che ne fa Banzet.

Nota: L’autore del post, che ringrazio per la consueta puntuale analisi, mi perdonerà questa incursione. Tanto il paper su NCC che la sua traduzione, sono nient’altro che la solita solfa autoreferenziale vista innumerevoli volte. Compiere queste analisi e, ancor peggio, assorbirle tout court eliminando qualsiasi tipo di approccio scientifico a vantaggio dell’assertività sulle proprie convinzioni, utilizzando come riferimento lo scenario RCP8.5 è, a dir poco, risibile. La letteratura scientifica, quella che piace tanto (giustamente) citare, si è già espressa al riguardo. L’RCP8.5 non è uno scenario plausibile, non è uno scenario business as usual, non è, in sintesi, il futuro che ci aspetta se non diventeremo buoni, come invece si vorrebbe che credessimo. E’ un puro esercizio di stile che ha il difetto di aver fatto il suo tempo, di aver dimostrato tutta la sua inadeguatezza. Utilizzarlo nonostante tutto è indifendibile. Tuttavia, è anche uno scenario che ha ancora moltissimi interessati sostenitori. Infatti, nel Report del WGII dell’IPCC appena pubblicato, questo scenario ha il 57% delle citazioni, quindi più di tutti gli altri insieme, compresi quelli di gran lunga più rappresentativi delle tendenze sociali e climatiche attuali. Per attuali si intende ovviamente una settimana fa. Oggi, purtroppo, la realtà si è ripresa la scena, ricordando a tutti quali siano i problemi reali con cui l’umanità deve confrontarsi. Non potevano certo saperlo gli autori dell’articolo, né i suoi traduttori, ma l’uscita del Report IPCC, evidentemente già pronto, denota una conoscenza del mondo reale a dir poco approssimativa.

GG

Bibliografia
Natali S.M. +76 other co-authors: Large loss of CO2 in winter observed across the northern permafrost regionNature Climate Change9(11), 852-857, 2019. https://doi.org/10.1038/s41558-019-0592-8

Tutti i dati e i grafici sono disponibi nel sito di supporto

 

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Published inAmbienteAttualitàClimatologia

3 Comments

  1. Brigante

    Pubblicazioni all’italiana, in modo che ogni anno, ciascun autore, arriva a 30-40 lavori peer-review… e comunque grazie per lo spunto, che mi permette di ricordare un paio di cose sul permafrost e sui mammut:
    Numerosi studi confermano infatti un ritiro progressivo della vegetazione arborea negli ultimi 5000 anni, e addirittura un incremento delle aree caratterizzate da permafrost, come qui: https://cdnsciencepub.com/doi/10.1139/e04-058 e qui: (PDF) Holocene tree line, permafrost, and climate dynamics in the Nenets Region, East European Arctic (researchgate.net). Anche questo estratto di ricerca https://www.researchgate.net/figure/Holocene-shifts-in-temperature-treeline-and-permafrost-in-NE-European-Russia-A_fig2_265117699 , a carattere quantitativo e con molti dati, rivela un progressivo ritiro delle foreste nell’artico russo. Lo stesso dicasi per l’artico canadese: https://www.researchgate.net/publication/225926858_Palynology_of_North_American_arctic_lakes

    Il tutto in linea con un progressivo raffreddamento delle aree circumpolari, a partire da quelle più sensibili, come l’Islanda: https://www.researchgate.net/publication/328106876_The_onset_of_Neoglaciation_in_Iceland_and_the_4.2_ka_event

    E che dire poi dei mammuth! Dopo la fine dell’ultima glaciazione, le foreste hanno guadagnato rapidamente terreno verso nord, spingendoli letteralmente nell’oceano artico, fino ad “annegare” sulle residue aree rifugio in rapida sommersione, a causa dell’innalzamento del livello de mare. Gli ultimi esemplari, piccoli e malati, morirono nel buio della notte polare, oltre i 70°N, mentre gli egizi costruivano già le prime piramidi.
    Peccato, perché oggi gli spazi con habitat favorevoli ai mammut sono sufficientemente estesi per una popolazione di decine di migliaia di esemplari, magari divise in due sottospecie: Siberiana e Canadese. E qualcuno ci sta pure pensando…

  2. rocco

    questo è un articolo da studiare cvon attenzione:
    “The effect of renewable energy incorporation on power grid stability and resilience” https://www.science.org/doi/10.1126/sciadv.abj6734
    In pratica stiamo distruggendo la rete elettrica per la paranoia CO2

  3. luca rocca

    Una pubblicazione con 77 firme rasenta il ridicolo . il comitato del nobel concede il premio solo ai primi tre firmatari della pubblicazione, un eventuale quarto viene escluso. Anche al CERN dove ci sono gruppi di lavoro molto grandi non pubblicano mai tutti assieme.

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