di Franco Zavatti e Luigi Mariani
Premessa e inquadramento storico-geografico
La teoria più accreditata vede Homo sapiens fare la sua comparsa in Africa orientale fra 200 e 250.000 anni fa a partire dal più antico uomo di Heidelberg. La successiva diffusione di sapiens dal centro d’origine lo porterà intorno a 60 mila anni fa a uscire dall’Africa e a migrare verso l’Europa e l’Asia, per raggiungere da quest’ultima, l’Australia e le Americhe tramite “ponti” naturali creatisi a seguito del grande abbassamento del livello marino (circa 120 m in meno rispetto al livello attuale) proprio delle fasi glaciali.
In tale processo di irradiazione dei nostri antenati, descritto in figura 1, assume un‘importanza rilevantissima il clima del Pleistocene, con il caratteristico alternarsi di fasi glaciali e interglaciali e con le grandi oscillazioni caratteristiche delle fasi glaciali che alternano periodi molto freddi (stadiali freddi alias eventi di Heinrich) a fasi più miti (interstadiali caldi alias eventi di Dansgaard Oescher), come mostrate in figura 2.
Nella sua migrazione dalle sedi africane, sapiens attraversa il Medio Oriente e l’Anatolia per poi raggiungere l’Europa attraverso due vie e cioè quella che corre a Sud del mar Nero attraversando il Bosforo e la Tracia (il Bosforo era allora chiuso in virtù del basso livello marino) e quella che corre a Est del Mar Nero e che attraversa la catena del gran Caucaso. Si noti che l’arrivo di sapiens in Europa ha luogo durante un interstadiale caldo (il numero 8 in figura 2) della glaciazione di Wurm.
I lettori noteranno che la grande catena del Caucaso, che ospita la più alta vetta europea, il monte Elbrus, condivide con i Pirenei e le Alpi la latitudine (attorno a 42-47° N) e l’orientamento Ovest Est, il che rende le tre catene montuose importanti aree rifugio per molte specie vegetali e animali durante le glaciazioni. A sud dei loro spartiacque, ad esempio, ha persistito anche in epoca glaciale la vite selvatica (Vitis vinifera sylvestris) i cui dolci frutti erano sicuramente consumati da Neanderthal e sapiens che forse facevano fermentare il loro succo ottenendo così i primi vini.
Quest’ultima tuttavia è solo un’ipotesi, fin qui non supportata da prove perché i reperti di recicienti usati nel paleolitico sono rari mentre conserviamo più abbondanti tracce dei recipienti in terracotta del neolitico, che ci hanno consentito di datare a circa 8000 anni fa il primo vino, guarda caso prodotto in Georgia, la Colchide dei greci, a sud della catena del Caucaso (Mcgovern et al., 2017). Il ritrovamento di recipienti paleolitici potrebbe tuttavia rivoluzionare tali ricerche, come dimostrano i tre frammenti di mortai di pietra ritrovati in un sito di sepoltura Natufiana presso la grotta di Raqefet (monte Carmelo) risalenti a 13.700-11.700 anni fa e che hanno evidenziato le più antiche tracce di produzione di birra oggi note (Liu et al., 2018). La birra era prodotta sfruttando specie selvatiche (frumenti e avene selvatici, pisello, lenticchia, giglio e una piperacea, Cyperus rotundus).
Un elemento chiave del periodo in cui sapiens esce dall’Africa e raggiunge l’Europa è la competizione per i territori e le fonti di cibo con una specie cugina, l’uomo di Neanderthal, anch’essa originatasi dall’uomo di Heidelberg. E proprio l’origine comune dall’uomo di Heidelberg fa si che le due specie, nate in ambienti del tutto diversi in termini ambientali e climatici (areale mediterraneo per Neanderthal, Africa orientale per sapiens) siano interfertili, da cui deriva che il DNA di sapiens conservi tutt’ora una certa quota di DNA di Neanderthal, estintosi circa 36.000 anni fa, in coincidenza con l’arrivo in Europa dei sapiens, spesso indicati come uomo di Cro Magnon perché in tale grotta francese nel 1868 furono rinvenuti quelli che a quei tempi erano i resti europei della nostra specie (https://it.wikipedia.org/wiki/Uomo_di_Cro-Magnon).
Tornado ai neandertaliani, si deve notare che mentre nell’interglaciale o negli interstadiali caldi delle fasi glaciali i Neanderthal si spingevano anche all’interno del continente europeo, durante gli stadiali freddi delle fasi glaciali presentavano una caratteristica distribuzione circum-mediterranea (come attestano ad esempio i ritrovamenti alla grotta di Vaguard a Gibilterra, nelle grotte del monte Carmelo in Israele e nella grotta delle Fumane sui monti Lessini in Veneto) e una rilevante capacità di sfruttamento delle risorse costiere e marine. Secondo studi recenti (Broadbank, 2013) sarebbe stata proprio la maggiore capacità di adattamento alle fasi glaciali e alle oscillazioni climatiche in esse presenti (stadiali e interstadiali) ad aver creato per i sapiens un vantaggio decisivo rispetto ai Neanderthal, che avrebbe consentito loro di sostituirsi ai Neanderthal anche nei loro areali più caratteristici.
In questo scritto facciamo riferimento a ricerche basate su proxy data che hanno consentito di descrivere a grandi linee il clima dell’Africa orientale negli ultimi 200 mila anni, il che si rivela importante per indagare il ruolo del clima nell’origine di H. sapiens e nella sua prima diffusione dal suo centro di origine.
L’indagine del gruppo di ricerca di Podsdam sui sedimenti di Chew Bahir
Un folto e ben organizzato gruppo dell’Università di Potsdam (Germania) opera, ormai da molti anni, in campagne di estrazione di carote (drilling) dai sedimenti del lago Chew Bahir, a ridosso del rift etiopico meridionale, e di zone limitrofe. Recentemente il gruppo ha pubblicato due lavori (Duesing et al., 2021 e Schaebitz et al., 2021) che hanno lo scopo di contribuire a spiegare la diffusione di Homo Sapiens, a partire da quella che viene correntemente considerata la sua “patria” originale, non molto distante da Chew Bahir, ponendola in relazione ad evoluzioni (cambiamenti) del clima, in particolare all’alternarsi di fasi umide e fasi siccitose..
Il primo lavoro
Il primo di questi lavori e cioè Duesing et al. (2021) considera l’intera serie di dati disponibile, tra 0 e 620 ka (620 mila anni fa) e organizza un’analisi della prima componente principale (PC1), derivata dai dati con un’analisi statistica che ha lo scopo di abbassare la complessità delle relazioni tra i singoli elementi che compongono la serie osservata. In pratica, per ogni elemento chimico misurato dalla carota (qui sono almeno 10) viene calcolata la prima componente principale (quella che spiega la maggior parte della varianza) e poi tutte le PC1 vengono mediate per ottenere la PC1 mostrata nella loro figura 4 che riproduciamo qui, sulla quale si innestano le considerazioni degli autori che fanno riferimento a cicli di umidità-siccità, a loro volta condizionati dai cicli orbitali (Milankovic), che avrebbero spinto i gruppi di H. Sapiens a spostarsi nell’una o nell’altra direzione.
Tutto questo può anche andare bene, ma le nostre perplessità sul lavoro derivano dalle troppe operazioni intermedie (singole PC1 e loro media; uso di spettri wavelet per serie a passo variabile, quando all’origine la tecnica richiede il passo costante; troppi “martellamenti” sui dati per i nostri gusti). Non solo: nella figura 1 (loro figura 4) l’associazione eccentricità / PC1 mostra una PC1 (diciamo, con gli autori, il tasso di umidità) in diminuzione, in corrispondenza di un calo di eccentricità, tra 200 e 50 ka; ma anche, tra 400 e 200 ka, una salita dell’eccentricità mentre l’umidità diminuisce leggermente o rimane quasi costante. Ancora, una quasi costanza di PC1, tra 600 e 400 ka, è caratterizzata da una diminuzione dell’eccentricità.
In pratica, non c’è modo di dimostrare un legame tra eccentricità orbitale e umidità (PC1), a differenza di quanto gli autori sembrano voler sottolineare, mettendo a confronto le due serie nella loro figura.
In più, sempre dalla loro figura 4 (ma anche dalle figure successive di questo post) non sembra essere presente il massimo spettrale a 100 kyr dell’eccentricità e nemmeno, con una serie che copre 620 mila anni, quello a 405 kyr, sempre dell’eccentricità.
Tutte queste considerazioni e, last but not least, l’assoluta indisponibilità di dati con cui poter verificare le loro conclusioni, ci hanno fatto pensare ad un grande lavoro per ottenere risultati deboli o non ben documentati e giustificati, in pratica ad un articolo da dimenticare.
Il secondo lavoro
Il secondo lavoro dello stesso gruppo, Schaebitz et al., 2021, di poco precedente al primo, ci è invece sembrato di tutt’altro valore, anche se le analisi si limitano a un periodo di 200 kyr invece dei 620 del primo lavoro: intanto sono resi disponibili quasi tutti i dati usati, in forma di rapporti tra elementi chimici (K/Zr; Ca/Ti; Al/Si). Poi ci sono il δ18O, il TOC (Total Organic Carbon) e la tessitura dei terreni lacustri (sabbia, limo, argilla) espressa come percentuale delle tre componenti.
Gli autori non mancano di associare K/Zr e tessitura (entrambi indicativi di oscillazioni umido-secco) alla collocazione temporale e all’altitudine di siti archeologici e fossili con lo scopo di documentare le “migrazioni” o semplicemente gli spostamenti dei gruppi umani per adattarsi a mutate situazioni climatiche o ambientali.
Se si osserva la serie Potassio/Zirconio (K/Zr) che gli autori identificano come un indicatore del tasso di umidità, si può senz’altro concordare sul fatto che una continua perdita di umidità ha avuto luogo da almeno 160 mila anni fa e che da 60 a 20 ka si è avuta una forte discesa verso l’aridità del territorio che certamente ha costretto i gruppi di H. Sapiens a sviluppare nuove strategie di sopravvivenza (ad esempio cercando insediamenti più elevati e probabilmente più umidi) e facilmente qualche evoluzione tecnologica. Di certo tra le strategie è stata applicata anche la migrazione verso altre terre più adatte alla loro vita.
A puro titolo di esempio, tra i molti possibili, uno dei terminali delle migrazioni di H. Sapiens fu l’area del Caucaso, nelle valli della Georgia (rettangolo nero), tra mar Nero e Caspio, dove sono stati trovati i primi esempi di vinificazione (Mcgovern et al., 2017) di circa 7-8 mila anni fa.
Certo, la figura 2 ci dice che dopo 20 ka l’umidità è salita di nuovo, rendendo gli ambienti del rift etiopico più vivibili, ma intanto la siccità precedente aveva messo in moto i meccanismi di difesa e adattamento che avevano condotto allo “sparpagliamento” dei gruppi umani.
Rimandando al sito di supporto per dati e grafici delle altre serie disponibili,vogliamo far notare che il TOC, il carbonio organico, mostra una buona costanza e una diminuzione dopo i 60 ka, con due aumenti (forse possiamo chiamarli esplosioni di vita, visto che parliamo di carbonio organico) a circa 150-155 e 44 ka cui si deve l’andamento decrescente sottolineato dalla linea rossa del fit lineare.
Step 3
Le serie numeriche disponibili sono state ridotte in numerosità estraendo un dato ogni 3 (1.o, 4.o, 7.o, …) per una migliore efficienza nel calcolo degli spettri, avendo ora 5800 dati invece di 17000. Da questa estrazione derivano le serie ridotte indicate nel sito di supporto con la sigla “step 3”, disponibili insieme al loro spettro Lomb. Come esempio mostriamo ancora una volta il K/Zr che gli autori trattano con maggiore attenzione.
In figura 4 c’è poco da dire sulla serie, quasi identica all’originale di figura 2, ma lo spettro ci fornisce qualche indicazione utile, in particolare sull’influenza dei cicli di Milankovic di cui gli autori parlano diffusamente.
Intanto è del tutto assente il ciclo dell’eccentricità orbitale a 100 kyr (quello a 405 kyr che potrebbe essere visibile nei 620 kyr di Duesing et al., 2021 non risulta pervenuto, dato che il loro spettro wavelet della PC1 media è troncato a poco più di 100 kyr). Poi, la ciclicità dell’obliquità orbitale è qui rappresentata, con un grande forse, da due massimi spettrali a 35.5 e 47 kyr (la loro media vale 41.25 kyr) difficilmente somiglianti al netto picco già visto in altre situazioni (ad esempio in http://www.climatemonitor.it/?p=53808, figura 4, in http://www.climatemonitor.it/?p=44127, figure 4 e 5 e in http://www.climatemonitor.it/?p=51555, figure 2 e 3).
L’unica periodicità documentata abbastanza bene è quella dovuta alla precessione, tra 19 e 26 kyr, e per evidenziare questo fatto raccogliamo in tabella 1 i massimi spettrali di tutte le serie disponibili in Schaebitz et al. (2021).
1 | 2 | 3 | 4 | 5 | 6 | 7 | 8 | 9 | 10 | ||
1 | K/Zr | 76 | 47 | 35.5 | 23.7 | 14 | 6 | ||||
---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|
2 | Al/Si | 76 | 50 | 34 | 28 | 16 | 10 | ||||
3 | Ca/Ti | 71 | 47 | 34 | 22 | 12 | 4.7 | ||||
4 | TOC | 62 | 38 | 24.7 26.7 |
12.7 | 8.2 | 2.2 | ||||
5 | Grain | 141 | 76 | 52 | 41 | 24 | 13.5 | ||||
6 | δ18O | 140 | 65 | 47 | 35 | 20.4 28 |
14.2 | 7.4 9.6 |
4.4 5.7 |
1.1 |
cols 4,5: Obliquity?; col 6=Precession
Nella tabella si evidenzia la citata mancanza del massimo a 100 kyr, a meno di assumere (ma senza prove) che questa ciclicità sia stata modificata nella risposta e portata a 65-75 kyr nelle serie delle carote lacustri di Chew Bahir. In effetti bisogna dire che questi periodi sono particolari: allo stesso tempo comuni a tutte le serie (e stabili) e mai osservati, tranne il massimo a 74-76 kyr (nel succitato http://www.climatemonitor.it/?p=51555) nei dati di de Boer et al, 2014.
Commenti conclusivi
Le conclusioni relative al secondo articolo del gruppo di Potsdam sono:
- Lavoro molto interessante che propone ipotesi in gran parte giustificate dai dati e dalla loro interpretazione.
- Viene purtroppo data molta enfasi all’influenza dell’eccentricità orbitale che però non è supportata dai dati.
- La quasi altrettanto diffusa attenzione alla precessione appare invece accettabile e giustificata dai massimi spettrali.
Nel complesso, un articolo da leggere, anche per la sua visione allargata ai comportamenti dei gruppi umani nell’ambito delle fluttuazioni climatiche.
Bibliografia
- Broadbank C.: Il Mediterraneo, dalla preistoria alla nascita del mondo classico, Einaudi, 670 pp, 2013.
- B. de Boer, Lucas J. Lourens, and Roderik S.W. van de Wal: Persistent 400,000-year variability of Antarctic ice volume and the carbon cycle is revealed throughout the Plio-Pleistocene, Nature Communications, 5 issue 2999, 2014. http://dx.doi.org/10.1038/ncomms3999
- Walter Duesing, Stefanie Kaboth-Bahr, Asfawossen Asrat, Andrew S. Cohen, Verena Foerster, Henry F. Lamb, Frank Schaebitz, Martin H. Trauth, Finn Viehberg Changes in the cyclicity and variability of the eastern African paleoclimate over the last 620 kyrs, Quaternary Science Reviews, 273, 107219, 2021. https://doi.org/10.1016/j.quascirev.2021.107219
- Ganopolski & Rahmstorf, 2001 Andrey Ganopolski & Stefan Rahmstorf: Rapid changes of glacial climate simulated in a coupled climate model, Nature, 409, 153-158, 2001. https://doi.org/10.1038/35051500
- Liu et al.: Fermented beverage and food storage in 13,000 years-old stone mortars at Raqefet Cave, Israel: Investigating Natufian ritual feasting, Journal of Archaeological Science Reports,21, 783-793, 2018.
- Mcgovern, P., Jalabadze, M., Batiuk, S., Callahan, M. P., Smith, K. E., Hall, G. R., Kvavadze, E., Maghradze, D., Rusishvili, N., Bouby, L., Failla, O., Cola, G., Mariani, L., Boaretto, E., Bacilieri, R., This, P., Wales, N., Lordkipanidze, D.: Early Neolithic wine of Georgia in the South Caucasus, Proceedings of the National Academy of Sciences, 201714728, 2017. https://doi.org/10.1073/pnas.1714728114
- Frank Schaebitz, Asfawossen Asrat, Henry F. Lamb, Andrew S. Cohen, Verena Foerster, Walter Duesing, Stefanie Kaboth-Bahr, Stephan Opitz, Finn A. Viehberg, Ralf Vogelsang, Jonathan Dean, Melanie J. Leng, Annett Junginger, Christopher Bronk Ramsey, Melissa S. Chapot, Alan Deino, Christine S. Lane, Helen M. Roberts, Céline Vidal, Ralph Tiedemann & Martin H. Trauth: Hydroclimate changes in eastern Africa over the past 200,000 years may have influenced early human dispersal , Communications Earth & Environment, 2:123, 2021. https://doi.org/10.1038/s43247-021-00195-7
Tutti i dati e i grafici sono disponibi nel sito di supporto
Gent.mi, mi scuso per l’irruenza del commento, e Vi ringrazio per le delucidazioni, ma a volte si sente la necessità di avere più spazio e tempo per argomentare, cose che purtroppo mi sfuggono e si dileguano costantemente.
Niente da eccepire sugli effetti e le conseguenze dei cambiamenti climatici sulle attività umane e sull’evoluzione delle stesse, sulle varie culture, popoli e civiltà, e gli esempi storici, pre- e proto-storici si sprecano; ma nel caso specifico delle sortite degli ominidi dall’Africa non ne sono così convinto.
Ad ogni modo le mie osservazioni si riferivano proprio all’ultima espansione paleogeografica dell’Homo sapiens, che non ha precedenti e che probabilmente prescinde dagli effetti climatici, visto che i gruppi umani in poco tempo si spostano su aree enormi e molto diverse tra loro, e non solo in senso latitudinale, ma anche longitudinale, per lo più via terra, fatti questi ultimi che mal si conciliano con gli effetti del clima. La recrudescenza climatica sfavorisce le migrazioni verso le aree interne continentali, e soprattutto montane, sia per gli uomini che per le loro prede.
Il fuoco potrebbe essere un argomento sicuramente forte, a favore degli adattamenti al clima, ma il suo utilizzo è anche legato alla dieta, alla difesa dalle belve, all’illuminazione, tutti fattori che non sono direttamente collegati al “desiderio” di spostarsi. Il controllo del fuoco parte da molto lontano (già da quel grande gruppo polifiletico che è l’Homo erectus) e la capacità di utilizzarlo è molto antecedente alle grandi migrazioni del tardo pleistocene.
Anche i Neanderthal conoscevano e utilizzavano il fuoco (https://www.pnas.org/content/115/9/2054) , eppure non si sono spostati molto dal loro areale originario, nè verso nord, nè verso est, dove probabilmente abbondavano cibo e territori consoni. Probabilmente avevano esigenze e organizzazione socio-culturale differenti., oltre a numeri molto più ridotti rispetto ai gruppi di H. sapiens.
Non darei troppo peso ai cambiamenti climatici, come spinta per uscire dai confini dell’Africa, non fosse altro per non dare ulteriori argomenti a coloro che li strumentalizzano anche ora, per spiegare fenomeni migratori (e proprio quelli in uscita dall’Africa) che niente hanno a che vedere con il clima, ma con bel altre questioni a noi note.
Vi ringrazio ancora per ospitarmi su questo blog, elegante e sagace, pungente e composto ad un tempo.
A me sembra che il primo motore delle migrazioni sia sempre e comunque l’aumento della popolazione.
Che questo sia influenzato dai fattori climatici è ben noto, ma non è ovviamente l’unica causa: le innovazioni hanno sempre avuto un peso sostanziale nel garantire il successo di una popolazione e la sua espansione, e possono essere collegate al clima come anche no. In molti casi le innovazioni permettono anzi di meglio affrontare le condizioni climatiche avverse.
Non bisogna nemmeno dimenticare che a un certo punto (o a molti certi punti), non si sa bene quando, è successa un fatto che ha stravolto completamente la vita di Homo Sapiens (e probabilmente solo la sua): ha iniziato a PARLARE. Di tutte le innovazioni fu di certo la più importante.
Grazie per l’ulteriore, articolato, commento e per l’indicazione dell’articolo PNAS che ho trovato molto interessante (ma da leggere con più calma di quanto possa aver fatto adesso) e che effettivamente apre un nuovo mondo di studio per l’uso volontario e consapevole del fuoco. I siti per verificare questa tecnologia di 170-171 mila anni fa a Poggetti Vecchi (Grosseto, in piena era glaciale MIS6 ma anche in zona geotermica attiva) sono purtroppo pochi, vista la natura “fugace” del legno. In questo momento non ho tempo di verificare la situazione degli altri siti, in particolare quello tedesco di Schöningen, per cui non mi addentrerò in dettagli che non conosco.
In ogni caso credo che il suo sia un contributo importante per me e per i lettori di CM. Franco
Luigi, anche lui piuttosto impegnato (molto più di me), mi ha inviato una risposta in tre punti che preferisco aggiungere così com’è piuttosto che integrarla con le mie parole che sicuramente rendono meno il senso del suo discorso.
1) Bisogna tenere conto che il genere Homo non può sopravvivere ai nostri gelidi inverni senza la tecnologia del fuoco e a questa necessità non poteva certo sfuggire una specie mediterranea come quella dei Neanderthal, Ciò emerge ad esempio da questo articolo del 2012 di Wil Roebroeks e Paola Villa
(https://www.pnas.org/content/108/13/5209) di cui cito la frase che segue:
“We conclude that Middle Paleolithic Neandertals did not have to wait for lightning strikes, meteorite falls, volcanoes, or spontaneous combustion: they had the ability to make, conserve, and transport fires during successive occupations or at different sites, like ethnographically documented recent hunter-gatherers, a pattern comparable to that documented in the Upper Paleolithic.”
2) Se l’aridificazione progressiva che emerge dal dataset dell’Africa orientale è reale, essa è certamente un fattore climatico cogente che spinse a migrare prima la selvaggina e poi coloro che se ne nutrivano (e qui va considerato che le diete del paleolitico erano molto più ricche di proteine animali di quelle dei popoli di agricoltori…per cui la fame di carne era notevole)
3) L’arrivo in Europa centrale dei primi sapiens sarebbe avvenuto in un interstadiale caldo, il che ancora una volta attesterebbe lo stretto legame con il clima di quelle migrazioni ancestrali.
@ Giorgio
Siamo d’accordo sul fatto che iniziare a parlare è stato un fenomeno innovativo importantissimo che meriterebbe più attenzione di quanta può darne un blog sul clima. Franco e Luigi
Gli spostamenti dell’Homo Sapiens non sono dipesi dal clima, né dalla sua variabilità, ma dalla naturale espansione di una specie che deve aver raggiunto un livello di adattamento alle varie condizioni che non ha eguali nei mammiferi, se non su tempi enormemente più lunghi (vedi camelidi, equidi, proboscidati, ecc.).
Ciò premesso giustifica il fatto che l’evoluzione è di tipo culturale e non più o solo biologica / genetica. Lo straordinario adattamento culturale inoltre, comporta un’esplosione demografica che induce la naturale dispersione in tutte le direzioni. In poche migliaia di anni, indipendetemente dall’alternanza di stadiali e interstadiali, l’uomo raggiunge l’Australia e la Beringia, distanti 20mila km dal centro di radiazione, e 10mila km tra loro. Intorno a 30ka bp, in pieno LGM, alcune tribù nomadi raggiungono l’Alaska, attraverso una vasta area di terre emerse, fatto di tundre e torbiere, che dalle Aleutine si estende fino all’isola di Wrangel, nel bel mezzo del mare Siberiano Orientale. In poche migliaia di anni raggiungono il Cile meridionale e la Patagonia, all’impressionante velocità di 5km all’anno, attraversando tutti i climi immaginabili della terra, dai deserti, alle foreste pluviali, alle savane, alle steppe di altitudine.
La popolazione umana cresce ovunque e si diffonde, fino ad almeno 11 mila anni fa… poi un misterioso tracollo, che si accompagna a quello di quasi tutta la megafauna allora esistente. Oltre l’80% delle specie di mammiferi di peso superiore ad una tonnellata scompare dalla faccia della terra; e tra Americhe , Europa ed Asia (ad eccezione del sud-est) si sfiora il 95%!!!
Interessante la dispersione post optimum olocenico verso l’arcipelago canadese e la Groenlandia. E’ in questo periodo che le foreste boreali si espandono fino a toccare le coste del mare di Beaufort e si diffondono sull’isola di Wrangel, dove si rifugiano gli ultimi mammuth, spinti a nord proprio dal caldo e dall’avanzata degli alberi, mentre il mare non ha ancora raggiunto i livelli attuali e vasti territori tra la Siberia e l’Alaska sono ancora emersi.
La ringraziamo anzitutto per il suo cortese ed argomentato commento.
Ci preme, però, segnalarle che dall’analisi del rapporto fra clima e migrazioni umane effettuata in passato su casi antichi o più recenti emerge che il clima è solo uno dei tanti fattori in gioco, ovviamente più o meno rilevante a seconda del caso indagato. Ci pare altresì di poter dedurre che sia eccessivo affermare che il clima non c’entri.
Al riguardo le portiamo il seguente esempio: quando l’uomo si spostò dagli ambienti africani di savana alle più umide sedi europee doveva necessariamente disporre di una tecnologia evoluta di generazione e conservazione del fuoco, trasmessagli magari dal mitico Prometeo, al cui mito si lega anche l’uso del fusto cavo della Ferula per trasportare la brace, in uso nei paesi mediterranei.
Infatti se il fuoco si spegne mentre sta nevicando e per svariati motivi non si è in grado di generarne del nuovo, è facile che ci si rimetta la vita.
Quello del fuoco è solo un caso di tecnologia evolutasi per far fronte al clima, un caso che insieme a tanti altri ha portato l’illustre storico Emmanuel Leroy Ladurie a sostenere che la civiltà sotto un certo punto di vista è da vedere come l’insieme degli strumenti messi in atto dall’uomo per sfuggire alla dittatura del clima.
Franco e Luigi
E’ interessante che venga indicata anche la rotta di emigrazione attraverso la Penisola Arabica, Avevo letto su un Libro di Jarred Diamond che attualmente sarebbe stato impossibile seguire quel percorso, sia per la larghezza del braccio di mare fra Etiopia e Yemen sia per la mancanza di acqua e territori di caccia. Tuttavia scavi archeologici in zona hanno dimostrato la presenza di aree di produzione di utensili in pietra di dimensioni considerevoli. Questo supporterebbe l’ipotesi di un ambiente molto più umido e di una migrazione in epoca glaciale
Evidenzio che l’idea espressa da Rocco e recepita poi in un commento da Franco secondo cui l’uscita di Homo sapiens dall’Africa risalirebbe a 100.000 anni fa è tutt’ora in discussione come si può evincere da questa review di O’Connel etal del 2018 (https://www.pnas.org/content/115/34/8482).
Personalmente preferisco restare ancorato all’idea di un’uscita dall’Africa intorno a 60-65.000 anni fa come da figura 1 e come riporta anche Broodbank nel suo testo del 2013.
Aggiungo che ho trovato il testo di Broodbank di grandissimo interesse per cui invito tutti a leggerlo, meglio se in lingua originale.
“…In altre parole: sono le città create dall’uomo (con le loro isole di calore) a rendere molto pericolose temperature che altrimenti sarebbero più sopportabili, per quanto anomale…”
Citazione di un equilibrato articolo di ieri sul CORSERA online in cui finalmente si puntualizza un elemento finora sottovalutato dai Profeti del clima che cambia per colpa del Sapiens.
Ritenete che sia una condizione di partenza da cui possa partire un ripensamento in tema di materiali e progettazioni urbane di qui ai prossimi anni?
Buon week end a tutta la nostra piccola ma fantastica “community”.
Il mio parere da (molto) poco esperto è che se è vero che più di metà della popolazione mondiale vive nelle città, è anche vero che le “città”sono agglomerati molto diversi tra loro in termini di densità urbana (costruzioni) e di popolazione.
Un effetto isola di calore importante ed esteso si ha nelle grandi città e molto meno nei paesi e nelle cittadine che in gran parte del mondo ospitano una fetta consistente della popolazione.
Quindi, sì, la modifica dell’isola di calore urbana è, credo, necessaria nelle situazioni critiche (quindi localmente) ma in generale no, o almeno si potrebbe sviluppare un alleggerimento della densità urbano con estensione di parchi e giardini, il che però implica sviluppo verticale oppure maggiore occupazione del suolo. Franco
pere che la rivoluzione culturale umana sia datata intorno a 50 mila anni fa, ossia in piena epoca glaciale..
Potrebbe essere plausibile che il freddo aiuti a stimolare le capacità intellettive per la ricerca di soluzioni alle precarie condizioni di vita.
Si, è pur vero che la culla umana è africana, ma lo sviluppo cognitivo è avvenuto in eurasia, forse anche grazie all’accoppiamento con denisova e neandhertal, già abituati a climi freddi.
La prima uscita dei sapiens avvenne circa 100.000 anni fa, in epoca interglaciale e più calda di questa ed in questa occasione gli accoppiamenti con i neandhertal erano frequenti.
Penso di poter concordare quasi su tutto, anche se il clima caldo dell’Africa ha prodotto quella “robetta” niente male di H. Sapiens e la sua capacità, una volta costretto dalle circostanze a muoversi (ma sulla costrizione come unica spinta avrei qualche dubbio: penso anche alla curiosità, a proposito di almeno un embrione di sviluppo cognitivo), di trarre il massimo anche dai climi più freddi, accoppiandosi con gli “indigeni”.
Sui 100 mila anni fa, l’epoca era certo interglaciale (IG) e il tragitto era verso un rapido avvicinamento al MIS 5c; però questo IG è stato nettamente più freddo (1.5-2.5 gradi in meno circa, a seconda delle aree geografiche) del massimo olocenico, come si può vedere nell’immagine sotto, che, pur derivando da Dome Fuji in Antartide credo renda bene l’idea. All’origine, lo scopo di questo grafico era quello di dimostrare come la
temperatura possa precedere la CO2 e per questo viene riportata anche una
composizione di CO2 antartica (linea rossa). Franco
Immagine allegata
Certo, la figura 2 ci dice che dopo 20 ka … e, dopo la figura 6 :In figura 4 c’è poco da dire …
Le indicazioni figura 2 e figura 4 sono, rispettivamente, figura 4 e figura 6: è un mio errore di cui chiedo scusa ai lettori. In pratica, l’inserimento di due figure precedenti non è stato adeguatamente segnalato nel testo. Franco