C’è solo una previsione di apocalisse che si avvera, quella che nessuno sarà mai in grado di verificare. E sarà anche l’ultima, per la stessa ragione. Tutte le altre, tutte quelle che ci martellano con sempre maggiore frequenza, specie se si parla di clima e affini, sono e restano nel migliore dei casi delle esagerazioni, nel peggiore delle autentiche boutade.
Meglio sarebbe, ma non pare sia facile, accompagnare la propria comunicazione scientifica con un po’ più di incertezza, non v’è dubbio. Ma, questo, alle orecchie abbastanza poco raffinate del media generico medio (scusate m’è scappato…), suonerebbe abbastanza male, più o meno così: sale il livello dei mari, tra cento anni moriremo tutti annegati, o forse no. E si potrebbe anche fare a meno di specificare se l’incertezza riguardi il fatto che il mare non sale o che avremo imparato tutti a respirare come i pesci, per il lettore/ascoltatore/dibattitore generico medio sarebbe sufficiente per non farsi abbindolare e, di conseguenza, per il media in questione di cambiare lavoro.
Nn stupisce quindi se, ad una analisi specifica condotta da un gruppo di ricercatori, sia balzata agli occhi una cosa piuttosto chiara, quando si tratta di comunicare le nefaste e apocalittiche conseguenze del climate change, l’ingrediente dell’incertezza non è quasi mai nella ricetta, anche se, in origine, l’autore della para-previsione (para è lo stesso suffisso che distingue chi sa che non potrà mai essere smentito…) in effetti un po’ di dubbio ce lo mette, così, per salvare capra e cavoli. Risultato? Nessuno ci crederà più. Aggiungo di pugno, per fortuna.
Il lavoro è questo:
Apocalypse now? Communicating extreme forecasts
Lo scopo, quello di esplorare nuove metodologie di comunicazione per rendere edotti del rischio senza, come dire, correre a propria volta quello di essere poi clamorosamente smentiti semplicemente perché si è sopravvissuti.
Altra boutade che va tanto di moda e che soprattutto è molto utile quando si tratta di far digerire il fatto che le cosiddette contromisure per il clima che cambia costano un casino, è che il cambiamento fa danni irreparabili anche in termini economici. Ossia, il conto degli eventi estremi, in aumento causa AGW, ca va sans dire è sempre più salato.
Al riguardo, chi i conti li fa per bene, cioè tenendo conto del fatto che forse, oggi, c’è qualcosa in più esposta ai danni anche solo di alcune decadi fa, scopre sempre che i suddetti costi, se normalizzati, non aumentano affatto. Ergo, due cose, non necessariamente alternative, anzi probabilmente complementari. Diventiamo sempre più bravi a proteggerci – l’uomo non è passato dalle caverne alle palafitte per i consigli di un architetto – e i segnali di un reale aumento degli eventi estremi non ci sono o non si vedono, come del resto recita la letteratura di riferimento.
L’ultimo lavoro che affronta il problema in questi termini viene dai nostri antipodi, ed è questo:
Normalised New Zealand natural Disaster insurance losses: 1968–2019
Dal loro abstract:
More frequent losses due to extreme weather, notably storms of tropical, sub-tropical and extra-tropical origin, when combined and after adjusting for changing societal factors, show no trend over the record length.
Un lavoro interessante, al di là del risultato che conferma quanto già si sa ma si dice solo sottovoce, non sia mai qualcuno dovesse svegliarsi, anche perché affronta il tema dei danni da eventi meteo estremi facendo anche una dotta disamina degli eventi stessi in termini appunto meteorologici. Singolare.
Il tutto, naturalmente, per il vostro week end di lettura.
Enjoy
Caro Guido,
grazie per la segnalazione dell’analisi delle perdite assicurative in Nuova Zelanda, davvero molto interessante anche perchè è rappresentivo di un paese che si trova alle medie latitudini nell’emisfero sud.
Inserisco il riferimento nel mio “Nullius in verba” che continua a lievitare.
Luigi
eh no, l’apocalisse ci sarà se si continuano a seguire le follie ambientaliste e salvimondoclimatiche….ne rimarrà uno solo… su Marte!