Due recenti lavori (Scafetta et al, 2020 e Mann et al., 2020) ci portano a riflettere sulle cause e la rilevanza per il clima globale della variabilità multidecennale, quella cioè espressa da indici atmosferici e oceanici come AMO, NAO e PDO.
Effettuando un’analisi periodale su serie storiche climatiche (temperature in superficie e in quota, precipitazioni, ecc. ) e sui relativi proxy fisici e biologici è possibile individuare una vasta gamma di ciclicità caratteristiche che pervadono il sistema climatico terrestre a disparate scale temporali. Fra queste la più importante è senza dubbio costituita dai cicli di Milankovic (Rotter, 2020) con periodi di decine o centinaia di migliaia di anni e sulla cui origine astronomica (variabili orbitali che determinano la quantità di radiazione che raggiunge il nostro emisfero nel periodo estivo) sussistono oggi pochi dubbi. Periodi più brevi presentano le ciclicità millenarie (es: ciclo di Bray Halstatt a 2400 anni e alternanza quasi millenaria fra optimum e deterioramenti climatici), multidecennali (PDO, AMO, NAO – figura 1), subdecennali (ENSO) per giungere poi alla variabilità interannuale legata alla variabilità in frequenza e persistenza dei diversi tipo di tempo atmosferico ed approdare infine la variabilità stagionale legata all’inclinazione dell’asse terrestre. Peraltro il lettori di CM sono abituati a riflettere sulla componente ciclica del sistema climatico grazie ai molti lavori pubblicati sul sito e che si debbono soprattutto a Franco Zavatti, il quale impiega metodi sofisticati di analisi spettrale e al quale si devono le immagini a corredo di questo post.
Le cause della variabilità multidecennale
Tutt’oggi sussiste una rilevante incertezza circa le origini della variabilità multidecennale, rispetto alla quale sussistono due principali teorie, la prima delle quali ne attribuisce la genesi alla variabilità interna al sistema climatico nella sua componente oceanica e atmosferica (in tale chiave AMO viene ad esempio visto come frutto della variabilità nell’afflusso di acqua calda nel Nord Atlantico descritta dall’indice AMOC) mentre la seconda teoria vede invece le ciclicità multidecennali come effetto di forcing esterni, naturali o antropici.
In merito al dibattito in corso segnaliamo due lavori scientifici usciti di recente ed ambedue favorevoli alla seconda ipotesi, quella che lega la variabilità multidecennale ai forcing esterni. Il primo a firma di Nicola Scafetta et al. evidenzia come possibile causa delle ciclicità a 60 anni la polvere rilasciata da meteoriti, la cui frequenza di passaggio in vicinanza delle terra è modulata dagli effetti gravitazionali di Giove. Scafetta et al. Ipotizzano che la maggior “polverosità” possa modulare la formazione di nubi e dunque agire sull’albedo planetario. Tale lavoro si colloca dunque nello stesso filone di ricerca inaugurato dai lavori di Svensmark e Shaviv, i quali proposero un effetto dei raggi cosmici galattici sulla nucleazione e la conseguente formazione di nubi. A supporto della loro ipotesi, Scafetta et al. citano la correlazione esistente fra l’eccentricità dell’orbita di Giove e diverse serie storiche: monsone indiano (1813-1998), indice NAV (1650-1990), temperature globali Hadcrut 4 (1850-2019) e serie di caduta di meteoriti in Cina (619-1943).
Il secondo lavoro, a firma di Michael Mann et al. (2020), attribuisce l’insorgere della variabilità multidecennale al forcing antropico e nella fattispecie alle emissioni di solfati che sarebbero all’origine della fase negativa di AMO riscontrata nei primi due decenni del XX secolo e nel periodo 1950-1980. A supporto della sua ipotesi, Mann et al. evidenziano il fatto che la run di controllo dei AOGCM di CMIP5 (quella per intenderci che non considera forcing antropici o da vulcanesimo) non mostra la ciclicità a 60 anni, il che starebbe a dimostrare che non si tratta di variabilità interna. Viceversa tale ciclicità è significativa nei modelli AOGCM comprensivi di forcing, ivi incluso il succitato forcing da solfati.
Conclusioni
In sostanza siamo di fronte a due lavori contrari all’ipotesi di una variabilità interdecadale come frutto di variabilità interna al sistema e che ci pongono di fronte a due visoni del mondo del tutto opposte: la prima, quella di Mann et al., secondo cui il forcing antropico è di gran lunga il meccanismo preponderante nel determinare la variabilità climatica dal 1850 ad oggi mentre la seconda, quella di Scafetta, attribuisce un ruolo essenziale ai forcing naturali.
Chi avrà ragione? Personalmente penso che dalla ricerca scientifica debbano emergere i meccanismi che stanno alla base della variabilità multidecennale e su questo ambedue i lavori portano argomenti che ritengo interessanti.
Al riguardo non posso tuttavia trascurare il fatto che quando si analizzano le serie storiche delle date di vendemmia in Francia che iniziano nel 1371 (Labbé e Gaveau, 2013), la semplice analisi visuale (figura 2) mostra la presenza di ciclicità multidecennali che sono evidenziate in modo oggettivo dall’analisi riportata in figura 3. Pertanto non credo che basti, come hanno fatto Mann et al., dire che se i modelli non riproducono la realtà “è la realtà a sbagliare”. Al riguardo è importate ad esempio ricordare l’esempio che ci viene da alcune delle grandi carestie che afflissero l’Europa in epoca pre-industriale. In particolare il grande storico del clima Emmanuel Leroy Ladurie scrive che in Francia si ebbero 200.000 morti nel 1740 a causa di un inverno oltremodo freddo, che fu seguito da un’annata piovosissima che distrusse le colture di frumento sopravvissute al gelo (Le Roy Ladurie, 2004). Lo storico segnala come causa di tale mortalità il fatto che le popolazioni rurali, già pesantemente colpite dalla grande carestia del 1693-95 (oltre 1 milione di morti) si erano disabituate a fare scorte di cibo e combustibile a seguito di alcuni decenni caratterizzati da inverni molto miti. In questo racconto ho sempre visto il segno della variabilità multidecennale legata ad AMO ma questo potrebbe rivelarsi solo un mio pregiudizio, visto che AMO allora non esisteva, almeno secondo Mann et al….
Ringraziamenti
Ringrazio Donato Barone e Franco Zavatti per gli utili commenti forniti in fase di stesura del testo.
Riferimenti
- Labbé T., Gaveau F., 2013. Les dates de vendange à Beaune (1371-2010). Analyse et données d’une nouvelle série vendémiologique, Revue historique, n° 666, 2013/2, p. 333-367.
- Le Roy Ladurie E., 2004. Histoire humaine et comparée du climat. I. Canicules et glaciers (XIIIe-XVIIIe siècles), Flammarion, Paris.
- Mann M.E., Steinman B.A., Miller S.K., 2020. Absence of internal multidecadal and interdecadal oscillations in climate model simulations, Nature communications, https://doi.org/10.1038/s41467-019-13823-w
- Rotter C., 2020. Using Milankovitch Cycles to create high-resolution astrochronologies, su WUWT, https://wattsupwiththat.com/2020/12/06/using-milankovitch-cycles-to-create-high-resolution-astrochronologies/#comment-3141030)
- Scafetta, N., Milani, F., & Bianchini, A. (2020). A 60 ‐ year cycle in the Meteorite fall frequency suggests a possible interplanetary dust forcing of the Earth’s climate driven by planetary oscillations. Geophysical Research Letters, 47, e2020GL089954. https://doi.org/10.1029/2020GL089954
Gentilissimo Luigi, sono d’accordissimo con lei.
Mi piacerebbe però che tale “incertezza” nel valore dei dati proxy venga accettata, considerata e soppesata ogni volta: sia che confermi sia che non confermi i dati strumentali o modellistici. Non si può ritenerli affidabili solo se soccorrono le proprie teorie / volontà.
Mi pare, più in generale, che i proxy possano essere indicativi di tendenze ma non possano mai sostituire i dati puntuali e strumentali (anche se, poi, ci sarebbe da discutere non poco sulla qualità di certi dati, ma questo lei lo sa certamente meglio di me).
Se il modello non riproduce la realtà, la realtà è sbagliata. Un po’ come dire che se una CPU fa 2+2 = 5 l’errore non è nel chip ma nella matematica.
Mah….. qui non si tratta nemmeno di presunzione, è disonestà intellettuale al servizio di uno scopo.
Gentile Luca,
nel ringraziarla per il suo commento le voglio dire che quanto lei scrive fu quello che io stesso pensai all’inizio. Poi però ho riflettuto sul fatto che prima del XX secolo i dati sono molto più incerti nel senso che sono soprattutto frutto di proxy data. In tale cotesto i modelli, se usati in modo assennato, possono essere utili per validare i dati. Ciò detto, penso però che vi sia modo e modo, nel senso che non si può buttare i dati se non concordano con gli output del modelli, specie quando ci riferiamo al sistema climatico che è il sistema più complesso presente sul pianeta e che fra le varie cose è soggetto a caos deterministico, fenomeno con cui i modelli meccanicistici basati sulla meccanica newtoniana della continuità non sono in grado di confrontarsi.
Un cordiale saluto.
Luigi Mariani