Ieri l’altro (martedì 18 febbraio ore 13.30) ho avuto la ventura di ascoltare l’intervista al TG24 di Francesco Vincenzi, presidente di ANBI, Associazione nazionale consorzi di tutela e gestione territorio e acque irrigue, intervista disponibile qui e che, come dimostra il titolo “Carenza idrica, è allarme in tutta Italia” si proponeva di lanciare un allarme a livello nazionale. Peraltro tale allarme è stato ribadito nel corso dell’intero intervento, anche se da alcune frasi di Vincenzi si coglieva che al Nord la situazione è tutt’altro che critica e che i veri problemi si limitano ad alcune aree del mezzogiorno.
Anche su sollecitazione di alcuni colleghi agronomi, preoccupati per l’allarme diffuso da fonte tanto attendibile, mi sono proposto di verificare se l’allarme siccità generalizzato all’intero territorio nazionale abbia o meno fondamento e per tale scopo ho eseguito per il periodo dal 1 gennaio 1973 al 15 febbraio 2020 un modello di bilancio idrico che opera a scala nazionale con passo giornaliero sui dati delle 202 stazioni meteorologiche raccolte nel dataset GSOD della NOAA. Il modello è stato da me applicato alla vite, coltura pluriennale particolarmente adatta a esercizi di questo genere. Tuttavia risultati analoghi sarebbero a mio avviso emersi anche per altre colture come ad esempio il frumento, a più riprese citato dal presidente ANBI.
In figura 1 trovate la carta del contenuto idrico dei suoli aggiornata al 15 febbraio 2020 da cui si nota che, con l’eccezione di alcuni casi specifici evidenziati con colori dal giallo al rosso (Sardegna orientale, Sicilia Occidentale, alcune regioni del versante adriatico – Marche, Abruzzo, Molise, Puglia), le riserve idriche dei suoli sono in ottimo stato [varie tonalità di azzurro che indicano valori fra 140 e 200 mm di riserva utile su un serbatoio massimo invasabile (AWC) di 200 mm] o in buono stato [varie tonalità di verde che indicano valori di riserva utile fra 80 e 140 mm].
Per una corretta interpretazione dei dati ricordo anche che le riserve idriche dei suoli risultano piene nella maggior parte del territorio nazionale per effetto di un novembre e di una prima metà di dicembre con piovosità abbondanti e spesso superiori alla norma, come emerge peraltro dai commenti mensili pubblicati su questo blog. Tali abbondanti precipitazioni, che permangono a lungo nei suoli in quanto i consumi idrici delle colture nel periodo invernale sono in genere ridotti, si sono quest’anno anche tradotte in un rilevante innevamento sulle Alpi, il che fa ben sperare per la prossima campagna.
Ricordo anche che al settentrione nella fascia a Nord del Po il minimo pluviometrico annuale si colloca in inverno, fra dicembre e febbraio, per effetto dell’influsso dell’areale centro-europeo a clima oceanico (Cfb di Koeppen-Geiger), per cui trovo particolarmente debole la frase introduttiva del giornalista, il quale ha esclamato: “Pensate che a Torino non piove da 60 giorni esatti e anche a Genova e Milano a parte piccole piogge non ci sono stati temporali”. Un altro concetto emerso dall’intervista è quello secondo cui il cambiamento climatico avrebbe alterato in modo molto rilevante il regime delle precipitazioni, nel senso che prima pioveva in modo molto regolare nel corso dell’anno mentre oggi abbiamo lunghissimi periodi siccitosi che si alternano ad altrettanto lunghi periodi con precipitazioni eccessive.
Ma è davvero così? In figura 2 riporto il livello medio italiano di stress idrico per la vite espresso come giorni con riserva facilmente utilizzabile esaurita, ottenuti applicando il bilancio idrico di cui ho in precedenza parlato. Come si vede i livelli di stress sono pressoché stazionari (43,1 giorni di stress nel periodo 1973-1998 contro 42,2 del periodo 1999-2019). In sintesi lo stress idrico per una coltura come la vite non è in alcun modo aumentato o se preferite il rischio di siccità si è mantenuto stazionario, pur in presenza di una grande variabilità interannuale, con anno più siccitoso il 2017 seguito a brevissima distanza dal 1984 e dal 1990 e anno meno siccitoso il 2002 seguito da 1976 e 1986. In sostanza dunque gli elaborati da me ottenuti contraddicono quanto affermato dal dottor Vincenzi.
In conclusione mi sento di dire che trovo francamente eccessivo un allarme lanciato in modo generalizzato a livello nazionale, mentre sarebbe stato tecnicamente più corretto riferire l’allarme alle aree oggi effettivamente interessate dalla carenza idrica, aree che peraltro ci auguriamo possano risolvere i loro attuali problemi nel corso della parte finale dell’inverno e della prossima stagione primaverile, periodi che climatologicamente si caratterizzano per un’elevata probabilità di precipitazioni su gran parte del paese.
Non posso infine fare a meno di considerare che il dottor Vincenzi ha lanciato un “grido di dolore” relativo allo stato delle opere di gestione delle risorse idriche (per l’agricoltura, l’industria, gli usi civili, ecc.) e su tale argomento non posso che convenire con lui, nel senso che la cura di tali opere con linee di finanziamento adeguate è più che mai strategica per un paese fisiologicamente esposto alla siccità estiva tipica degli ambienti a clima mediterraneo (Csa di Koeppen-Geiger).
Si, posso capire che ci siano degli interessi da difendere e dei progetti da mandare avanti che, senza la pressione dell’opinione pubblica spaventata, non andrebbero mai in porto. Ma, visti i dati reali quasi completamente discordanti dalla narrazione, non si rasenta il limite del “procurato allarme” ? E’ mai possibile che per vedere ristabilita un minimo di vera realtà, in questo paese si debba sempre ricorre a “estremi rimedi”? Che tristezza!
il tetto della cupola di S. Pietro ha un buco per cui l’acqua delle piogge cade all’interno della basilica col rischio di rovinare opere d’arte, marmi ed affreschi.
Si riunisce il comitato per la salvezza della basilica e vengono proposte delle soluzioni.
La prima, frutto di architetti ed ingegneri, dice: rifacciamo la cupola perchè è vecchia ed in varie parti logora dal tempo, per cui in futuro si potranno aprire crepe e fessure col rischio di stabilità per tutta la struttura.
– “Noooo, è impossibile”, rispondono i porporati incaricati di valutare le proposte “E’ un’opera d’arte unica, non possiamo rifarla con materiali e tecniche moderne, non sarebbe più la stessa cosa, e poi costa molto”.
La seconda, frutto di critici d’arte e soprintendenze varie dice: “Tappare il buco con lo stesso materiale originario”
– “Noooo, è impossibile”, risponde il comitato porporale “non esiste più quel materiale, oggigiorno è tutto di plastica”.
La terza, frutto dell’impegno di associazioni per la salvaguardia delle opere d’arte dice: Raccogliamo l’acqua che cade dal tetto con dei grandi serbatoi che in seguito potranno sempre servire per tanti scopi”
– “Nooooo, è impossibile, come potremmo svolgere le funzioni con questi serbatoi tra i piedi” Anche la terza proposta viene bocciata.
Si alza un delegato delle associazioni ambientaliste e dice: “Ciò dipende dai cambiamenti climatici, o ho la soluzione definitiva: installiamo pale eoliche in modo da deviare le correnti ascensionali e spargendo bromuro di zolfo eviteremo il formarsi delle nubi, così non pioverà più sulla cupola ed eviteremo i guai paventati”
– Siiiiiii, questa è la soluzione giusta: evitare che piova.
Contenti della soluzione proposta pregarono tutti insieme il Signore affinchè gli desse una mano per placare le ire di Giove pluvio.
Breve racconto di ciò che sta accadendo attualmente; e chi ha orecchie per intendere intenda.
Temo che, troppo spesso, lanciare urla di dolore senza veri motivi nasconda altri interessi.
Alcuni decisamente positivi, come attirare l’attenzione su problematiche altrimenti ignorate dalla politica ottusa e dalla società in genere, quali lo stato spesso pietoso delle strutture fondamentali e il nullo interesse per l’agricoltura di molte istituzioni (ripeto: esiste un diffuso convincimento – direi inconscio e ingenuo – che gli scaffali dei negozi si riempiano di cibarie da soli, con l’immagine dell’albero della fattoria di Nonna Papera pieno di frutti perfetti mentre Ciccio se la dorme beato sotto).
Altri decisamente pessimi, come piangere in anticipo per ottenere qualche fondo “a pioggia” (è proprio il caso di dirlo) per emergenza, secondo lo schema tipico del “chiagne e fotte” partenopeo. Usanza ormai consolidata, ahimè.