Una delle più frequenti e odiose accuse rivolte a quanti commettono l’imprudenza di sollevare dubbi sulla robustezza scientifica dell’attribuzione delle dinamiche del clima recente in via esclusiva alle attività umane – leggi soprattutto le emissioni di anidride carbonica derivanti dall’uso dei combustibili fossili – è quella di essere al soldo di gruppi di interesse che da una transizione verso fonti energetiche alternative subirebbero gravi danni economici, e avrebbero quindi tanto da guadagnare nel distogliere l’attenzione da un problema invece cogente e reale, a tutto discapito della salvezza del pianeta.
Vero? Probabilmente sì. Il mondo si regge da sempre sul perseguimento di interessi spesso inconfessabili. Ma è altrettanto vero che questo non può e non deve essere un assunto e certe accuse, rivolte in quanto ritenute infamanti, devono essere provate. E, in assenza di prove, il dubbio e le incertezze espresse, che sono oltretutto il fondamento della scienza, devono essere presi per quello che sono, ossia desiderio di capire, approfondire, e dare solidità al percorso della conoscenza. Un percorso che, alla luce dei fatti, è tutt’altro che solido.
Prendiamo infatti il caso opposto. Cosa pensereste se venisse fuori che ci sono fior di realtà finanziarie che hanno agito e agiscono, legittimamente e alla luce del giorno, per sostenere invece la tesi del disastro imminente? Personalmente, se il disastro fosse vero, li considererei dei benefattori dell’umanità. Ma se l’impegno, piuttosto che nella ricerca di solidità scientifica, fosse stato profuso nel consolidare una pratica scientifica gravemente deficitaria e instillare nell’immaginario collettivo e nelle conseguenti azioni dei decisori certezze che non ci sono, sarebbe la stessa cosa?
Non direi proprio.
Piaccia o no, questo è esattamente quello che è accaduto, ripeto, alla luce del sole e senza nessuna cospirazione, quanto piuttosto con il chiaro intento di attuare una strategia salvifica perché ritenuta necessaria e, soprattutto… utile ;-). Sentimento nobile, certamente, che però non giustifica in alcun modo l’assalto all’integrità della scienza. Attenzione, questo non perché la si ritenga intoccabile, in fondo le cose sono sempre andate così, quanto piuttosto perché le decisioni prese a valle di questo processo, rischiano gravemente di non essere giuste, di non affrontare il problema per quello che è e di proporre soluzioni che dissipano risorse nella direzione sbagliata, magari facendo comunque la fortuna di qualcuno…
Il tema è, fatevene una ragione, che pur essendo reale per molti aspetti l’influenza dell’uomo sulle dinamiche del tempo e del clima – urbanizzazione, cambiamento dello stato d’uso del suolo, emissioni di CO2 naturalmente – non è affatto vero che la conoscenza attuale permette di assegnare questo o quel risultato finale in materia climatica ai diversi percorsi che lo sviluppo della nostra società e il peso che le conseguenti attività antropiche potranno avere finiranno per generare. Ma tutti sono convinti del contrario, e cioè che sia assodato che questi risultati siano noti, alcuni in qualche modo più probabili di altri e tra questi quasi certi quelli più drammatici.
L’IPCC per esempio dice che “the future is inherently unpredictable and so views will differ as to which of the storylines and representative scenarios could be more or less likely. Therefore, the development of a single “best guess” or “business-as-usual” scenario is neither desirable nor possible“. In pratica non è possibile definire quale degli scenari proposti sia più probabile, compreso quello che viene normalmente definito BUS, appunto business as usual, che non è affatto identificabile con una completa assenza di policy né con dosi più o meno importanti di azioni di mitigazione.
Esistono invece diversi scenari, quattro per l’esattezza, molto differenti tra loro non solo per il “tipo di clima” cui si pensa potrebbero portare, ma soprattutto per il percorso attraverso cui ci si dovrebbe arrivare, ivi compresi aspetti dello sviluppo della società che hanno caratteristica di impredicibilità ancora maggiore di quella del clima, come l’uso dell’energia, l’economia e, non da ultima, la demografia. Questi scenari non sono quindi intercambiabili in funzione delle policy adottate, non si può semplicemente passare da uno all’altro, descrivono mondi completamente diversi che non comunicano tra loro. Per dirne una, tra lo scenario con effetti di minore impatto e quello che dovrebbe condurre al disastro c’è una differenza demografica di 3 miliardi di esseri umani ad abitare il pianeta.
Per questa ragione, è scientificamente sbagliato tanto immaginare che possa esistere uno scenario che possa essere definito BUS, tanto che questo possa coincidere con quello a maggiore impatto. Impostare la pratica scientifica su questi assunti è una grave inadempienza del processo scientifico, per il modo stesso con cui questi scenari sono stati costruiti. Nelle parole di chi li ha creati: “RCP8.5 cannot be used as a no-climate-policy reference scenario [”business as usual”] for the other RCPs because RCP8.5’s socioeconomic, technology and biophysical assumptions differ from those of the other RCPs.” The scenarios are completely independent from each other, and policy cannot “move” us from one to another.”
Volete sapere la novità? Questo invece è esattamente quello che è accaduto negli ultimi anni ed ha visto coinvolta praticamente tutta la comunità scientifica, compresi naturalmente i lavori dell’IPCC.
Tutto è iniziato nel 2012 con l’opera di mecenatismo di tre (molto) facoltosi uomini politici americani, due dei quali incidentalmente oggi candidati alle prossime presidenziali, ma non allora ovviamente, e il terzo ex CEO di Goldman Sachs e ex membro del governo Bush. I nomi? Tom Steyer, Michael Bloomberg e Hank Paulson. Googolare per credere, i tre insieme valgono circa 63mld di dollari (quasi tutti di Bloomberg). Con un contributo di mezzo milione di dollari ciascuno, fondarono un gruppo di ricerca che produsse di lì a due anni un rapporto che aveva il chiaro intento di quantificare in termini finanziari gli effetti del climate change negli Stati Uniti. Questo rapporto: Risky Business: The Economic Risks of Climate Change in the United States. L’approccio fu esattamente quello discusso poche righe più su, identificare – sbagliando – il più impattante degli scenari IPCC come quello più prossimo al Business As Usual e basare tutti i risultati su quello scenario che, a tutti gli effetti, dall’essere il più lontano dalla realtà, diventava invece il più probabile, anzi, inevitabile a meno di opportune e anche molto ben descritte azioni di mitigazione. In una serie di talk e paper prodotti a valle di quel report, la pratica scientifica sbagliata diventava virale. Circa 12.000 (!) pubblicazioni scientifiche hanno citato lavori in cui si faceva riferimento allo scenario RCP8.5 come Business As Usual, tra queste circa 2.000 (!!) possono essere ricondotte direttamente al lavoro iniziato con il report e continuato poi con fortunate operazioni mediatiche come quella del Climate Impact Lab, che ha generato una serie di tool che consentono la navigazione nel “clima che verrà”, tutto basato esclusivamente sull’RCP8.5. Alla festa, naturalmente, si sono uniti vari assessment report di gruppi di studio istituzionali e l’IPCC nel recente Special Report on the Ocean and Cryosphere in a Changing Climate.
E così, la catastrofe climatica prossima ventura, da uno degli scenari possibili, anche se molto lontano dalla realtà – le proiezioni del consumo e del fabbisogno energetico dell’RCP8.5 sono già molto fuori strada, per esempio – è diventata l’unico futuro possibile “se non si agisce presto e bene”. Anzi, nella comunicazione quotidiana, è già una realtà assodata. Tutto questo perché “nessuno si è accorto” che nella pratica scientifica attuale in materia di clima, si continua a fare un uso distorto ed errato di strumenti di analisi nati per scopi molto diversi, ossia non per “prevedere” il futuro (e quindi venderlo come probabile) quanto piuttosto per compiere esperimenti sugli effetti di policy diverse applicate su modelli di sviluppo diversi.
Il risultato? Del disastro imminente (e improbabile) se ne parla molto, si fanno summit, si promettono mari e monti, ma, alla prova dei fatti, nessuno fa un accidente e molti finiranno (giustamente!) per smettere di crederci. E, se quello del clima è un tema serio, come lo è sempre stato perché l’adattamento è comunque necessario, sarà meglio affrontarlo seriamente, ad iniziare dalla pratica scientifica, per la quale, come per tutte le altre cose, il fine non giustifica i mezzi.
NB: le informazioni (più molto altro) contenute in questo post vengono da recenti pubblicazioni di Roger Pielke Jr.
Grazie a Guido Guidi per l’articolo e gli interessantissimi riferimenti. La prima citazione penso di metterla in calce alla firma nei miei messaggi di posta elettronica.
Chi produce scenari in base a modelli (come il sottoscritto con riferimento all’economia) è consapevole di che cosa si tratta, e lo scrive: non sono previsioni (forecast), sono simulazioni in cui il ricercatore, come una sorta di deus ex machina (per quanto sulla base di ragionevoli ipotesai), decide come sarà il futuro stato del mondo per alcuni parametri assunti come esogeni (ad es. tasso di crescita della popolazione, sviluppo della tecnologia etc.) e poi ne deduce il futuro andamento di altri indicatori dello stato del mondo in base ad un modello (in genere più o meno deterministico). Il fatto è che, con ogni evidenza, quando si parla dell’evoluzione del sistema globale “terra” nessun parametro può essere considerato in qualsiasi ragionevole senso come esogeno: tutto è endogeno (visto che il modello è, appunto, globale). Questo non solo suggerisce di considerare le simulazioni di scenario per quello che sono e di prenderle con le molle, ma getta anche una luce metodologicamente un po’ preoccupante su tutti gli esercizi di natura statistica (basati sulla regressione) volti a ricavare da osservazioni del passato il valore di determinati parametri di sistema (come ad esempio i vari di coefficienti di sensibilità climatica).
Benedetto, grazie per l’interessante analogia. Il tema è, come giustamente sottolinei, che non è in discussione il metodo d’indagine, quanto piuttosto l’uso che è stato fatto di questi strumenti. Un approccio che ha prodotto una mole enorme di informazioni, tutte rivolte nella sola direzione delle ipotesi più pessimistiche. E se questo avviene per scelta, non per robustezza dei dati, smette di essere scienza e diventa ideologia.
gg
Ma, in definitiva, quale sarebbe codesto Business As Usual nel ripetere ossessivamente che, se non diminuiamo la produzione di CO2, arrostiremo tutti ?
Ottima la nota di Guido Guidi. Bisognerebbe anche indagare se dentro e dietro alla “lotta al cambiamento climatico” non si sia intromessa una grave deriva ideologica.
Ottima riflessione, Guido!
Roger Pielke Junior sta da tempo evidenziando che le emissioni sono indirizzate verso scenari molto più tranquillizzati rispetto a RCP8.5. In particolare ho trovato interessante questo scritto di Pielke del 30 novembre scorso: https://www.forbes.com/sites/rogerpielke/2019/11/30/global-carbon-dioxide-emissions-are-on-the-brink-of-a-long-plateau/
Per inciso concordo appieno con quanto evidenziato dal professor Pedrocchi.
Luigi