Si parla in questi giorni delle nuove sanzioni all’Iran (embargo totale sulle esportazioni di petrolio) che andranno a colpire in modo pesantissimo l’economia del Paese messo già da tempo nel mirino dall’amministrazione Trump. Le analisi che si leggono in questi giorni sono ovviamente di tipo geopolitico, e ruotano attorno al complesso incrocio di interessi che vedono Stati Uniti, Israele e la monarchia saudita, unirsi appassionatamente nella lotta al regime degli ayatollah. Certamente sono considerazioni che hanno una loro validità. Ma sotto la cenere, al solito, cova altro. E come al solito quando si parla di Medio Oriente, covano temi legati all’energia.
L’esplosione dello Shale
Qualcuno forse ricorderà che qualche anno fa il tema dominante delle discussioni energetiche era il “Peak Oil”, ovvero la teoria secondo la quale si stesse raggiungendo la massima produzione mondiale di petrolio, e che questa dovesse inesorabilmente scendere a causa dell’esaurimento dei vecchi giacimenti, e della difficoltà crescente di trovarne di nuovi. Fiumi di inchiostro venivano riversati sull’argomento, con la inevitabile conclusione che “le rinnovabili ci avrebbero salvati”.
I profeti del “Peak Oil” furono smentiti clamorosamente dai fatti nel giro di pochi mesi, allorché in America l’introduzione di nuove tecnologie rese accessibili risorse idrocarburiche ingentissime ammassate in strati superficiali del sottosuolo: l’olio e il gas di scisto, per l’appunto. Una vera e propria rivoluzione energetica portò in breve tempo gli Stati Uniti a diventare il primo produttore mondiale di petrolio, sopravanzando Russia e Arabia Saudita. Non solo: anche l’export americano è letteralmente esploso, fino a diventare una voce chiave della bilancia commerciale a stelle e strisce.
Corsi, ricorsi…e casualità
Inevitabilmente, la rivoluzione dello shale ha avuto risvolti geopolitici immediati e su scala planetaria. Se è vero che gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da conflitti armati devastanti in Medio Oriente, costati la vita a milioni di persone, e sottesi inevitabilmente al controllo delle risorse petrolifere locali, è altrettanto vero che oggi le cose sono cambiate. Dal completamento del ritiro dei soldati americani dall’Iraq nel Dicembre 2011, infatti, non si sono più avuti conflitti armati su larga scala che coinvolgessero paesi chiave dell’OPEC, se non attraverso proxy-wars (Siria e Yemen su tutte).
Certo colpisce la concidenza temporale perfetta tra il ritiro dei soldati americani e l’inizio della esplosione del fenomeno shale. Fatto sta, che dal 2012 la quantità di petrolio immessa sul mercato cresce inesorabilmente, proprio a causa dell’olio di scisto americano e del rientro in campo di paesi produttori chiave come l’Iraq e l’Iran, quest’ultimo grazie all’accordo sul nucleare fortemente voluto dalla presidenza Obama.
Un nuovo paradigma
L’eccesso di offerta di petrolio, conseguente ad un “eccesso di pace” nel Medio Oriente petrolifero (si perdoni l’ossimoro) provoca il crollo del prezzo del greggio nel 2015, cambiando per sempre il panorama dell’offerta petrolifera mondiale.
Per gli Stati Uniti, quindi, si pone un nuovo problema: commerciale, prima che geopolitico. In considerazione degli alti costi di estrazione dello Shale rispetto a quelli dei paesi concorrenti, gli USA hanno bisogno di mantenere un prezzo sufficientemente elevato del greggio, pena una crisi estrattiva con associato crollo dell’export di idrocarburi, perdita di posti di lavoro, calo del PIL e ulteriore aumento del già enorme disavanzo commerciale a stelle e strisce. Ormai dimenticati i tempi (pur vicinissimi) in cui gli Stati Uniti battagliavano in Medio Oriente a sostegno della democrazia (e incidentalmente a vantaggio della sicurezza di approvvigionamento energetico), l’interesse attuale pare quindi essere semplicemente quello di produrre greggio in gran quantità mantenendone il prezzo a livelli sufficientemente elevati, e rubando quote di mercato ai produttori tradizionali.
È in quest’ottica che si possono leggere le scelte americane in politica estera degli ultimi anni: in particolare l’impegno in Venezuela e in Iran, con relativi embargo che strozzano l’industria estrattiva di quei paesi, eliminandone la concorrenza dal mercato e nel contempo contribuendo al mantenimento dei prezzi del greggio su valori non troppo bassi. I classici due piccioni con una fava.
Punti di vista
Coi paradigmi dell’ambientalistoide neo-pauperista, antiamericano, anticapitalista e anti-tutto, è sempre la solita storia: gli idrocarburi fanno solo danno, ieri causavano guerre convenzionali su vasta scala e oggi guerre commerciali, per non dire delle mortifere emissioni di CO2. Ci salverà solo la Nuova Trinità globalista: il Pannello, la Pala e la Tesla.
Un’analisi un po’ meno emotiva potrebbe invece suggerire che in mancanza di una alternativa in grado di sostituire completamente gli idrocarburi, questi ultimi continueranno ad essere centrali, e a determinare gli sviluppi geopolitici su scala planetaria. Da questo punto di vista è difficile negare che la rivoluzione dello shale abbia determinato un cambiamento strategico di dimensioni epocali per il principale attore geopolitico mondiale: sempre meno interessati a lottare (anche sul campo) per garantisi la sicurezza energetica, gli Stati Uniti hanno scelto adesso di adottare un approccio concreto e pragmatico, basato su logiche di mera concorrenza commerciale. Talvolta brutali, certamente, ma per lo meno non mediate da conflitti più o meno democratici.
Meno marines, quindi. E più trivelle americane e dazi commerciali. Viene il sospetto che quella porcheria dello shale oil, tanto vituperata e bistrattata (talvolta con ottime ragioni), abbia invece contribuito, suo malgrado, a rendere il mondo un po’ meno violento. Come è lecito attendersi, del resto, in un contesto in cui l’energia è abbondante e a costi ragionevoli. Quale che sia la fonte, di quella benedetta energia.
Analisi più che condivisibile a cui va aggiunto (vedi la guerra del 2011) il tentativo di Gheddafi di fare dell “dinaro” garantito in oro e dal petrolio libico una moneta di scambio per le economie degli stati di area francofona. Motivo per il quale è stato “defenestrato” …oltre ai buoni rapporti con ENI concorrente diretto della Total e degli inglesi … ” à la guerre comme à la guerre”
Condivido l’aspetto energetico e commerciale del post, ma per quel che riguarda gli aspetti geopolitici, considero fondate le considerazioni di Alessandro2. Non mi sembra, infatti, che l’impegno militare USA sia diminuito più di tanto, in quanto esistono centinaia di migliaia di tonnellate di navi che incrociano in tutti i mari del globo, migliaia di aerei pronti ad intervenire ovunque e migliaia e migliaia di uomini dislocati un po’ dappertutto. Gli USA erano e sono il poliziotto del mondo. E mi fermo qui perché già sono andato troppo fuori tema. 🙂
Ciao, Donato.
Obama…. vietava le trivelle in mare e zitto zitto scistava.
Che geni i fautori dell’ambiente pulito, decarbonizzato e green;
fanno l’economia circolare: gira gira il citrulo….
Analisi eccellente ma incompleta. La geopolitica, insieme a quella roba che si chiama ideologia e che in fondo anima ancora i principali scontri a livello mondiale, gioca ancora un ruolo. Eccome.
Israele, USA (spesso golem israeliano in MO) e monarchia saudita wahabita contro non solo Iran, ma anche Siria e Palestina (Hezbollah). Guarda caso, tre Paesi sciiti, gli ultimi cattivoni rimasti insieme alla Russia oggi “sovranista”, anti-globalista, e non dimentichiamolo cristiana. Blocco “occidentale” alla ricerca – come sempre negli ultimi 70 anni – di nuovo lebensraum per Israele e del dominio completo, planetario e unilaterale, per l’unica superpotenza oggi rimasta.
Caro Alessandro, come anticipato fin da subito in questo pezzo si sarebbe parlato d’altro, rispetto ai “soliti” temi di geopolitica che sono gia’ sviscerati a sufficienza un po’ dappertutto (con tanto di substrato ideologico annesso). Qui si parla solo di implicazioni commerciali ed energetiche, ed e’ gia’ tanta roba, per un pezzo di 800 parole 😉
@Massimo.
Vero: grazie per davvero per l’articolo a proposito 🙂
PS. Continua a non funzionare il tasto “post a reply”.
Per utilizzare il tasto Post a Replay:
Cliccare col destro su Post a Replay.
Nel menu contestuale scegliere Apri in una nuova scheda (prima scelta).
Scorrere fino a Rispondi a… (in questo caso Alessandro2)
Scrivere la risposta come al solito nello spazio Commento.
Spero di essere stato utile, ciao.
Caro Maurizio, ti ringrazio infinitamente per la tua dritta: era indispensabile.
Ciao, Donato.
Condivido in toto Alessandro2 nel geopolitico e Massimo in quello energetico e commerciale. Speriamo di essere in maggioranza a pensare così, sarebbe un bene per tutti.