Appena qualche giorno fa, con l’uragano Florence che minacciava le coste degli USA e ben altre tra zone attive nell’area atlantica, scrivevo che, dopo una lunga fase praticamente inerte, sembrava quasi che qualcuno avesse acceso la luce sull’oceano. Tutto abbastanza normale per molti aspetti, dal momento che settembre è il mese di picco della stagione degli uragani. Luce che, subito dopo l’impatto di Florence sulla costa della Carolina del Nord e l’assorbimento da parte della circolazione extra-tropicale delle altre zone attive, si è nuovamente, inesorabilmente spenta.
Tuttavia, Florence è bastato (e avanzato) per stimolare la fantasia di molti commentatori della prima ora, che si sono affrettati ad attribuirne evoluzione, intensità e, naturalmente, danni provocati, alla madre di tutte le cause: il climate change.
L’attribuzione degli eventi strettamente attinenti al tempo meteorologico alle dinamiche del clima, anzi, del clima che cambia, oltre ad essere la traslazione di qualcosa di impalpabile come la variazione di decimi di grado della temperatura globale nella vita di tutti i giorni, è anche quanto di più incerto, difficile e, ad oggi privo di robustezza scientifica ci possa essere nell’ambito delle discussioni in tema di clima.
Per la prima ragione e nonostante la seconda, ogni volta che arriva un evento intenso o, peggio, estremo, l’attribuzione al clima che cambia è sempre la prima opzione, specialmente sui media, in molti casi con la complicità di esperti del settore. Naturalmente Florence, giunto sulle coste USA con intensità 1 della Scala Saffir Simpson, ossia con il livello più basso per gli Uragani, non ha fatto eccezione.
Tuttavia, mentre la quantità enorme di precipitazioni rilasciati dal sistema (complice anche un’orografia abbastanza complessa che ha ulteriormente esacerbato sia i fenomeni che i loro effetti) è ancora praticamente sul territorio dello stato USA, fa piacere leggere su Nature una Letter firmata da un gruppo scienziati specializzati nella modellizazione del sistema climatico, tutti assolutamente insospettabili di scetticismo sul tema, che mette in guardia tutti quelli che vorrebbero fare rapidi e fin troppo facili discorsi di attribuzione.
Attributing extreme weather to climate change is not a done deal
Il fatto è, scrivono, è che l’attribuzione di fenomeni meteorologici alle dinamiche del clima, è soprattutto un problema di scala e di capacità di riprodurre questi eventi con precisione, anche dal punto di vista delle loro dinamiche specifiche. Molto semplicemente, i modelli climatici, gli unici con cui si potrebbe pensare di tracciare modifiche al sistema in grado di riverberarsi sulla frequenza e sull’intensità del tempo atmosferico, non sono affatto affidabili alla scala spaziale e temporale meteorologica, si tratti anche di eventi decisamente importanti come gli uragani.
Forse sarebbe il caso che i commentatori della prima imparassero a tener conto di questo. Come si dovrebbe tener conto, e per questo non c’è bisogno di andare fino nell’Oceano Atlantico, della performance a dir poco disarmante che i modelli previsionali a 3 giorni (3 giorni, non 30 anni!) hanno mostrato sul tentativo di individuare la nascita e l’evoluzione del Tropical Like Cyclone sul Tirreno centrale di questi giorni…
Sulla pubblicazione di questa Letter e sul suo significato, è nata anche un’interessante discussione su TW, che potete leggere qui e qui, culminata, purtroppo come sempre, in atti di fede del verbo dell’IPCC, opportunamente selezionato alla bisogna.
Buona giornata.
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