Questo post non vuol essere un’analisi delle cause del crollo del viadotto o un’attribuzione di responsabilità. Sarebbe assurdo anticipare conclusioni che richiederanno anni di indagini, perizie e controperizie. Alla fine arriveremo ad una verità giudiziaria (me lo auguro), ma difficilmente sapremo cosa è successo veramente al viadotto genovese. Come è consuetudine di questo blog, prima di polemizzare e sparare giudizi, bisogna cercare di capire. Questo articolo è il riassunto delle mie riflessioni su quello che è accaduto a Genova e rappresenta un punto di vista personale che, per certi aspetti, si allontana dalla narrativa corrente e vuole essere un tentativo, modesto ovviamente, di aiutare a comprendere ciò che ha colpito Genova, la Liguria, l’Italia e che ha frantumato l’orgoglio di molti ingegneri.
Quando i notiziari e le agenzie di stampa annunciarono il crollo del viadotto progettato da Riccardo Morandi sul Polcevera a Genova, credo che ogni ingegnere italiano e non solo, abbia avvertito un senso di disagio e di smarrimento. Per gli ingegneri civili della mia generazione e di quelle appena precedenti, Riccardo Morandi e Pierluigi Nervi sono stati una specie di mito. Essi rappresentavano la punta di diamante dell’ingegneria strutturale italiana, in quanto avevano consentito al calcestruzzo armato di rivaleggiare con l’acciaio in quanto ad audacia strutturale ed a stile costruttivo.
Morandi e Nervi avevano voluto togliere al calcestruzzo la sua naturale pesantezza. I viadotti progettati da Morandi non avevano più i ciclopici piloni che caratterizzavano e caratterizzano i “normali” ponti. Al posto delle pile monolitiche, un reticolo di aste che conferisce leggerezza ed eleganza alla struttura. La materia cede il posto alla forma. Le strutture si alleggeriscono, evidenziano razionalità e funzionalità: neanche un centimetro quadrato in più di quanto serve. Basta entrare nella sala Nervi (ora sala “Paolo VI”) nella Città del Vaticano per rendersi conto di ciò di cui stiamo parlando: l’immensa volta parabolica sembra un merletto luminoso che, come una guida d’onda, convoglia gli sguardi del pubblico verso il trono papale. Il viadotto Morandi di Genova e la sala Nervi sono coetanei e rappresentano la sintesi di un’idea strutturale tipicamente italiana, tesa a valorizzare l’utilizzo del calcestruzzo armato ed a metterlo in competizione con l’acciaio.
Dopo qualche decennio, parlo degli anni ’80 del secolo scorso, le cose cominciarono a cambiare, in quanto il calcestruzzo cominciava ad evidenziare tutti i suoi limiti. Nelle aule universitarie molti docenti, tra cui i miei, mettevano in guardia i loro studenti sul rischio di utilizzare il “calcestruzzo nudo” caro a Morandi ed a Nervi. Il calcestruzzo è un materiale infido. Sembra una pietra, ma non ne ha le caratteristiche che hanno consentito alle piramidi, alle cattedrali ed ai ponti romani in muratura, di sfidare i millenni. Il calcestruzzo si degrada facilmente se esposto all’azione degli agenti atmosferici. L’alternanza del gelo e disgelo determina la formazione di fessure sulla superficie che, a lungo andare, ne provocano il degrado. La superficie perfetta del calcestruzzo appena disarmato, comincia a degradarsi: si formano dei vuoti, il legante viene dilavato e gli inerti cominciano a staccarsi dal corpo del calcestruzzo che perde coesione, forma e consistenza. Il manufatto viene assalito da muschi e licheni e nel giro di pochi decenni si trasforma in quello che era in origine: un mucchio di aggregati sciolti privo di qualsiasi caratteristica strutturale.
Il calcestruzzo conserva, però, tutti i difetti strutturali, intrinseci della pietra: non è in grado di resistere alla trazione. I greci antichi costruirono i loro templi in pietra, ma utilizzavano interassi tra le colonne estremamente ridotti. Le selve di colonne che caratterizzano il tempio greco, non sono dovute ad un fatto estetico (quello che oggi ci attrae), ma alla necessità di evitare che le trabeazioni cadessero sulla testa dei fedeli. Per le coperture essi si affidavano al legno che era meno duraturo, ma aveva la caratteristica di essere in grado di resistere a trazione: si potevano, cioè, realizzare travi lunghe e leggere.
Gli ingegneri romani inventarono la volta e l’arco. Le pietre (quindi il calcestruzzo di cui essi possono essere considerati gli inventori) potevano essere utilizzate anche per realizzare strutture prima di allora impensabili e per cui era necessario il legno. I ponti, gli archi e le volte costruiti dai romani, sono ancora ben visibili dopo quasi duemila anni. In questo caso è, però, la forma che consente alle strutture di resistere. La pietra lavora sempre a compressione, ma la forma consente di realizzare strutture che sono soggette a trazione. La cupola del Pantheon a Roma rappresenta, ancora oggi, una delle maggiori opere in calcestruzzo non armato realizzate dall’uomo e regge magnificamente i suoi circa 20 secoli di vita.
Nella seconda metà del XIX secolo gli ingegneri capirono che annegando nel calcestruzzo delle barre d’acciaio, si poteva ottenere un materiale che univa le caratteristiche della pietra a quelle dell’acciaio, ovvero un materiale capace di resistere tanto a compressione che a trazione. Esso divenne il materiale d’elezione per realizzare opere civili nel corso del XX secolo grazie a personalità come Le Corbusier, Wright, Morandi e Nervi. Ecco, in questo accostamento va ricercata l’origine del mito di Morandi e Nervi. Due italiani rivaleggiavano con figure eccezionali che avevano profondamente segnato l’architettura e l’ingegneria del XX secolo. Intere generazioni di ingegneri sono rimaste affascinate dall’immagine di Wright che, per convincere gli operai a smontare i casseri della Casa sulla Cascata, dovette mettersi sulla struttura: gli operai si rifiutavano di disarmarla per paura che crollasse loro in testa. Col senno di poi bisogna riconoscere che non avevano tutti i torti.
Il crollo del viadotto Morandi di Genova ha infranto questo mito. La mia prima reazione alla notizia è stata di incredulità e sconcerto. Possibile che l’opera di uno dei miei eroi giovanili avesse fatto quella miserrima fine? Le immagini impietose hanno fugato ogni dubbio. Ed allo sconcerto ha fatto seguito la rassegnazione, la rabbia e, soprattutto, la pietà per quelle 43 persone che hanno perso la vita nel crollo.
Dopo il primo smarrimento la razionalità ha ripreso, fortunatamente, il sopravvento e mi sono ritornate alla mente le raccomandazioni del compianto prof. Michele Pagano che ci invitava a valutare attentamente le caratteristiche dei materiali che utilizzavamo nei nostri progetti. Fu lui a farci prendere coscienza delle problematiche e delle criticità del calcestruzzo. Il ritiro del materiale (creep in inglese e fluage in francese) legato al contenuto d’acqua del calcestruzzo che determinava fessurazioni nelle strutture in calcestruzzo armato, la carbonatazione del calcestruzzo (qui su CM) che favorisce la corrosione delle armature in acciaio, la necessità di mantenere basse le tensioni nell’acciaio per evitare che il calcestruzzo si fessuri determinando il degrado dell’intera struttura, la necessità di armare il calcestruzzo anche quando non sembra necessario, in quanto esso è un materiale fragile e, pertanto, pericoloso. Potrei continuare ancora a lungo, ma voglio evitare di annoiare.
Prima di procedere oltre, è opportuno, però, focalizzare la nostra attenzione su quello che è l’elemento caratteristico del viadotto Morandi di Genova e degli altri tre o quattro ponti “gemelli” che Morandi progettò nel mondo. Nella foto che segue è raffigurata quella che in gergo si definisce macrostruttura: si tratta dell’elemento strutturale che, ripetuto un certo numero di volte, crea il ponte. Esso è costituito da una gigantesca “A”, detta cavalletto, che può considerarsi il simbolo distintivo delle opere di Morandi. All’interno della “A” la struttura ad “Y” è la pila vera e propria. La parte orizzontale è l’impalcato: al di sopra dell’impalcato i due stralli (le aste inclinate più snelle) e “l’antenna” alla sommità della quale sono collegati gli stralli. Le macrostrutture adiacenti sono collegate tra loro da travi Gerber dette anche “travi tampone” che non sono visibili nella foto del modello. La macrostruttura è perfettamente bilanciata ed è stabile intrinsecamente: può restare tranquillamente al suo posto anche se crolla quella vicina ed a Genova ne abbiamo avuto, purtroppo, una dimostrazione pratica. Nel caso di Genova l’aspetto più rimarchevole è che la struttura residua, pur essendo sbilanciata (manca una trave tampone ad un’estremità), continua ad essere stabile: probabilmente questo schema fu preso in considerazione nel calcolo come “schema transitorio” in fase di realizzazione. Gli scricchiolii che si avvertono nella struttura residuata, rappresentano il sintomo degli aggiustamenti statici che si stanno verificando. La struttura deve assumere, infatti, una nuova configurazione di equilibrio conseguente alla variazione dei carichi agenti su di essa.
Staticamente l’impalcato può essere diviso in quattro parti: le parti più estreme gravano sugli stralli, quelle più interne sulla pila centrale. Sugli stralli scaricano anche le travi tampone appoggiate mediante selle Gerber alla macrostruttura. Dal punto di vista statico è un capolavoro e nessuno lo può disconoscere.
Non è, però, tutto oro ciò che luccica. Approfondendo un poco in più la questione specifica del viadotto sul Polcevera, saltano subito agli occhi alcune caratteristiche del ponte crollato che fanno riflettere. Nel ponte il calcestruzzo si trova anche dove uno non se lo aspetta. Che senso ha, infatti, il calcestruzzo negli stralli? Sono dei tiranti, soggetti, quindi, esclusivamente a trazione e, come abbiamo visto, il calcestruzzo non è idoneo a resistere alla trazione. Essi sono in calcestruzzo precompresso. Si tratta di una tecnica che cerca di conferire al calcestruzzo caratteristiche di resistenza alla trazione. La logica alla base della tecnologia è, la seguente. Se io comprimo una pila di libri e la dispongo in orizzontale, i libri non cadono per terra uno alla volta come succederebbe se non applicassi alcuna compressione. Nel caso di un materiale fragile lo sforzo di trazione applicato successivamente, deve prima annullare gli sforzi di compressione indotti nella struttura dalla precompressione. Se io opero in modo oculato, applico, cioè, un’opportuna precompressione, i carichi agenti sulla struttura non determinano sollecitazioni di trazione nel materiale fragile. E’ la stessa tecnica che si utilizza per costruire i vetri temperati. Avete assistito qualche volta a cosa succede se si pratica una piccola scalfittura su un vetro temperato? Esso esplode in migliaia di pezzi. Lo stesso capita in una struttura in calcestruzzo armato precompresso: collassa in modo improvviso se viene meno l’effetto precompressione. Nel caso del calcestruzzo la precompressione viene applicata in due modi distinti: precompressione mediante cavi tesi dopo l’indurimento del calcestruzzo e precompressione mediante cavi tesi prima dell’indurimento del calcestruzzo (a cavi aderenti). Nel primo caso si annegano nel calcestruzzo delle guaine cave, all’interno delle quali si fanno passare dei cavi. Dopo l’indurimento del calcestruzzo, i cavi vengono tesi comprimendo il calcestruzzo. Nel secondo caso i cavi vengono tesi prima del getto del calcestruzzo e tagliati dopo l’indurimento dello stesso. Non conosco la fattispecie precisa degli stralli del viadotto del Polcevera, ma in un’altra realizzazione simile (il viadotto strallato Carpineto I in Basilicata) gli stralli furono realizzati applicando entrambe le tecniche: gli stralli sono costituiti da conci precompressi mediante cavi paralleli e precompressi ulteriormente dopo la posa in opera mediante cavi ad andamento parabolico. Cosa succede se uno dei cavi di precompressione si corrode? Semplice. Si riduce la sua sezione e il cavo si trancia di netto. Il risultato è il collasso del manufatto. Se un cavo d’acciaio è a vista, è facile controllarne lo stato di degrado, ma se è immerso nel calcestruzzo, l’operazione diventa enormemente più difficile.
Perché Morandi ha utilizzato questa tecnica nella realizzazione dei suoi viadotti? Nel 1958 fu pubblicato sulla rivista “Rassegna Tecnica” della SIAT (Società Ingegneri e Architetti di Torino) un articolo a firma di R. Morandi dal titolo eloquente: “Su alcune recenti realizzazioni di strutture in cemento armato e precompresso”. In questo articolo R. Morandi spiega perché ha utilizzato il cemento armato precompresso negli stralli dei suoi viadotti: l’uso di semplici tiranti in acciaio avrebbe determinato deformazioni di circa un metro della struttura dell’impalcato, rendendolo, di fatto, inutilizzabile. Non sono molto d’accordo: la quasi totalità dei ponti strallati esistenti al mondo, ha stralli in acciaio e vengono percorsi normalmente da auto e da treni. La differenza tra i ponti di Morandi e quelli “classici” deve essere ricercata nel numero degli stralli: egli pensava ad un unico strallo, gli altri sono caratterizzati da molti tiranti, per cui si riesce a contenere le deformazioni degli stralli e, quindi, dell’impalcato. Più avanti egli chiarisce meglio l’utilizzo del calcestruzzo anche nei tiranti: una delle funzioni del calcestruzzo degli stralli è quella di proteggere l’acciaio. E’ la stessa filosofia del calcestruzzo armato, ma ciò presuppone che l’acciaio si deformi poco, altrimenti il calcestruzzo si creperebbe e verrebbe meno la sua funzione protettiva. Precomprimendo il calcestruzzo, l’azione dei carichi esterni è tale da “decomprimere” il calcestruzzo che, però, non verrà mai sollecitato a trazione perché i carichi determinerebbero delle sollecitazioni inferiori a quelle di precompressione. Analizzando bene il ragionamento di Morandi, si giunge alla conclusione che, precomprimendo il calcestruzzo, si riusciva a sfruttare tanto il modulo elastico del calcestruzzo (in fase di precompressione) che quello dell’acciaio (in fase di esercizio) e, quindi, si riducevano drasticamente le deformazioni. La componente orizzontale della forza di precompressione, infine, precomprimeva naturalmente l’impalcato, determinando una riduzione delle dimensioni strutturali e, quindi, una diminuzione dei costi dell’opera.
L’idea era geniale, ma non teneva conto delle problematiche connesse alla durabilità dei materiali, alle modalità esecutive ed al comportamento del calcestruzzo e dell’acciaio nel tempo.
Il viadotto Morandi è una struttura intrinsecamente isostatica: travi Gerber, mensole e tiranti (stralli). Un mio vecchio docente di Scienza delle Costruzioni ci esortava a diffidare delle strutture isostatiche in quanto avevano scarse riserve di resistenza. Ecco un’altra criticità del viadotto crollato. Il cedimento di un appoggio delle travi Gerber che collegano le tre macrostrutture, la rottura di uno strallo o il collasso di una mensola, avrebbero avuto un unico effetto, ovvero il crollo dell’intera struttura. Personalmente non amo le strutture isostatiche in quanto non hanno riserve di resistenza: se si rompe un elemento è finita, crolla tutto. Riconosco che anche questa è una conseguenza della mia formazione: mi è sempre stato consigliato di evitare le strutture isostatiche proprio a causa della loro fragilità e posso asserire di averne realizzate pochissime nel corso della mia carriera. Una di esse mi ha creato grossi problemi e, forse, dovrà essere demolita.
Negli anni scorsi ho avuto modo di seguire, attraverso la stampa specializzata, le vicende del viadotto Carpineto I cui ho fatto cenno poco più sopra. Nel 2015 sul sito “Strade & Autostrade” fu pubblicato un interessante articolo “Il viadotto strallato Carpineto I” a firma di A. Sabatiello, L. Della Sala ed R. Cerone, in cui venivano descritte le indagini eseguite sul viadotto strallato in questione. Tralasciando i dettagli relativi alle metodiche di indagini, è opportuno sottolineare due aspetti, secondo me fondamentali.
a) Gli stralli erano deteriorati e in qualche punto avevano perso una parte del copriferro. L’aspetto più importante del degrado della struttura era, però, costituito dal fatto che gli stralli si erano “decompressi”. Essi avevano perso tra il 20 ed il 30 per cento della precompressione iniziale ed il calcestruzzo cominciava a lesionarsi a causa degli sforzi di trazione che erano insorti in esso a causa dei carichi esterni.
b) Indagini endoscopiche ed estensimetriche eseguite sui cavi di precompressione evidenziavano segni di corrosione e cadute di tensione. In altre parole essi si erano “rilassati” per cui non erano più in grado di garantire le prestazioni iniziali.
Detto in altre parole il calcestruzzo si era ritirato e l’acciaio si era deformato eccessivamente, per cui erano state vanificate tutte le ipotesi di progetto di R. Morandi.
Eseguita la diagnosi, i tecnici suggeriscono anche il rimedio: applicare dei cavi esterni per precomprimere nuovamente la struttura e ripristinare le condizioni di sicurezza iniziali, anzi migliorarle. In altre parole la stessa soluzione utilizzata per il viadotto del Polcevera per consolidare una delle macrostrutture negli anni scorsi. Nelle conclusioni essi avvertono, però, che le indagini eseguite sono state puntuali e, quindi, non possono escludere che nella struttura esistano altri problemi.
Non conosco nei dettagli i risultati delle indagini eseguite dal Politecnico di Milano sul viadotto di Genova, ma non mi sembra che esse abbiano dato esiti molto diversi da quelle eseguite sul viadotto Carpineto 1°. Stando alle mie fonti, il Carpineto 1° è l’unico viadotto strallato progettato da R. Morandi ad essere ancora in servizio, ma sono pronto a fare ammenda se qualcuno mi dimostra il contrario. Quello realizzato sul lago di Maracaibo è fuori servizio da anni, quello realizzato in Libia, è fuori servizio dal 2017, quello di Genova è crollato due settimane fa.
Ragionando per analogia con quanto successo al viadotto Carpineto 1°, dobbiamo concludere che il sistema ideato da R. Morandi, era perfetto da un punto di vista statico, teorico ed economico, ma non aveva tenuto conto di alcuni aspetti che sono emersi in modo prepotente nel corso degli anni e che accomunano molte altre opere ad esse coeve.
Il primo aspetto riguarda la durabilità dei materiali: essi si degradano per cui bisogna intervenire con continue manutenzioni che diventano sempre più onerose con il passare degli ann,i fino al punto che conviene ricostruire la struttura. Nel caso del viadotto sul Polcevera fu lo stesso Morandi a lanciare l’allarme nel 1979: salsedine e fumi industriali avevano creato un’atmosfera altamente aggressiva che metteva a repentaglio la sua opera e che rendeva necessario procedere al rivestimento dell’intera superficie del ponte con resine polimeriche ad altissima resistenza chimica. Altro aspetto riguarda il fenomeno del ritiro del calcestruzzo ed il rilassamento dell’acciaio. Entrambi determinano una riduzione dello stato di compressione del calcestruzzo precompresso e la sua fessurazione con conseguente ossidazione dell’acciaio delle armature. La carbonatazione del calcestruzzo è un ulteriore fonte di degrado strutturale. Non dobbiamo dimenticare, infine, che i ponti sono soggetti a sollecitazioni dinamiche, per cui all’interno delle strutture si vengono a creare sollecitazioni cicliche di carico-scarico che le sollecitano a fatica di e, quindi, possono determinarne il collasso anche lontano dai valori limite della resistenza del materiale. Altro aspetto da tenere in conto è che il volume di traffico che caratterizza le strade odierne è enormemente superiore (oltre quattro volte, nel caso di Genov) rispetto a quello di progetto, per cui le sollecitazioni dinamiche sono fortemente aumentate rispetto a quanto progettato in origine.
Nonostante ciò il viadotto Morandi ha garantito oltre mezzo secolo di traffico in condizioni di sicurezza. Ad un certo punto però non ce l’ha fatta più ed è crollato.
Con questo non voglio difendere la “categoria”: ho evidenziato impietosamente tutte le criticità delle strutture progettate da Morandi e ne ho sottolineato la delicatezza e la fragilità. Ciò non toglie che da un punto di vista statico, sono dei capolavori. Il problema non sta nella struttura, ma nella testa di chi non ha voluto e non vuole capire che nessuna opera umana è eterna. Nella testa di chi non si vuol rendere conto che ogni costruzione ha una vita utile, oltre la quale il suo utilizzo diventa pericoloso. All’epoca in cui Morandi, Wright, Nervi, Le Corbusier e via cantando, progettavano le loro opere, non si teneva presente la loro vita utile: nessuna norma imponeva di farlo, né in Italia, né altrove. Oggi non è più così: i ponti devono essere progettati per avere, sottoposti ad opportuna manutenzione, una vita operativa di 100 anni, dopo di che devono essere demoliti. Ciò non significa, però, che un’opera realizzata nel passato deve essere eterna, ma che essa avrà una vita utile che, non essendo stata calcolata, va valutata caso per caso.
Nel caso del ponte sul Polcevera era doveroso fare delle scelte politicamente coraggiose allo scopo di ridurre drasticamente il volume di traffico e, quindi, creare una viabilità alternativa. Questo doveva essere fatto indipendentemente dallo stato del ponte, in quanto una nazione moderna non può consentirsi di dipendere da una sola arteria di vitale importanza: l’autostrada A10 che è stata interrotta dal crollo del viadotto Morandi collega, ad esempio, l’Italia alla Francia. Viviamo, però, nel paese del NO-TUTTO per cui il progetto della Gronda di Genova che altro non è che un raddoppio della viabilità autostradale genovese, è stato approvato dopo circa 20 anni di polemiche e contestazioni. Neanche a farlo apposta i principali antagonisti del progetto, sono stati proprio quelli che oggi si stracciano le vesti, inveendo contro chi, quel progetto, lo ha realizzato e portato avanti con fatica estrema sottoponendolo anche ad una discussione pubblica protrattasi per diversi mesi ed alla fine della quale molti suggerimenti e richieste di varianti sono stati inseriti nel progetto finale. Se invece di opporsi senza se e senza ma, quell’opera fosse stata realizzata, forse non dovremmo piangere i 43 morti provocati dal crollo del viadotto che, badiamo bene, non è stato provocato dalla mancata realizzazione della Gronda (qui un piccolo riassunto della vicenda, mentre per una disamina molto più approfondita si possono leggere le circa cento pagine della Relazione conclusiva della Commissione sulla Gronda qui ).
Non dobbiamo dimenticare, infine, che sicuramente i morti non ci sarebbero stati se il viadotto sul Polcevera, come consigliato da molte parti compresi ingegneri, architetti, docenti universitari e, non ultimo, il gestore della struttura, fosse stato demolito, considerati sia i risultati delle indagini eseguite, sia quanto avvenuto per altre strutture similari. E la cosa grave è che tutti ne erano a conoscenza anche se ora sembra che tutti cadano dalle nuvole: l’abbattimento e la successiva ricostruzione del ponte Morandi è stata all’ordine del giorno per anni, ma la cosa è restata lettera morta. Anzi, in passato suscitò irrisione, in quanto l’ipotesi del crollo del viadotto Morandi, fu liquidata in certi ambienti come una “favoletta”. Con il senno di poi bisognerebbe parlare di una favola horror, ma si mancherebbe di rispetto ai morti.
Ancora una volta dobbiamo contare i morti e ancora una volta devo constatare con disgusto che su questi poveri morti si specula. C’è poco da fare, non siamo in grado di imparare dai nostri errori, non siamo capaci di assumere posizioni razionali, ci facciamo guidare dall’istinto e dalla passione ideologica. Neanche i disastri riescono a farci rinsavire. In queste due settimane avrei voluto che la Nazione piangesse le proprie vittime e si impegnasse subito per risolvere al più presto i problemi che il disastro ha prodotto. Nulla di tutto ciò. Solo polemiche e chiacchiere in libertà, non un’analisi seria delle problematiche messe in evidenza dal disastro.
Un esempio? Basti pensare che sono stati messi sotto osservazione tutti i ponti progettati da Morandi. Come se stessimo parlando non delle opere di uno dei maggiori ingegneri del mondo, ma di quelle di un lestofante qualunque. Anche quando non vi è nulla da temere (a Benevento, giusto per evidenziare un caso pratico, ne hanno chiuso uno ristrutturato da un paio d’anni e che non mi sembra manifesti segni di dissesto tali da farne temere il crollo). Bisognerebbe, invece, varare un grande piano di verifica delle infrastrutture esistenti, ormai datate, certificarne le condizioni statiche e, se necessario, prevederne di nuove che le sostituiscano. Con serenità e responsabilità, senza isteria e furori ideologici. Sono convinto, invece, che tra qualche settimana non si parlerà più di Morandi, Polcevera, ponti e viadotti. I No-Tutto torneranno alla ribalta e ci ossessioneranno con le loro becere lamentazioni, ribadendo fino alla noia che non abbiamo bisogno di grandi (e piccole, aggiungo io) opere, ma di “ben altro”, vagheggiando di irrealistici “modelli di sviluppo alternativi e sostenibili”, di “viabilità dolce”, di “trasformazione del modello di mobilità”, di “passaggio dal modello di trasporto su gomma al modello di trasporto su ferro”, ecc., ecc.. Il tutto nell’ottica della “decrescita felice” e nella prospettiva di andare tutti a vivere in un bel mulino bianco. Fino al prossimo disastro.
Aggiornamento
Dopo quasi tre anni dal crollo del viadotto sul Polcevera, sembra che i magistrati inquirenti siano giunti ad una conclusione: il crollo è stato causato dal cedimento degli stralli della pila 9 del ponte. In particolare le indagini hanno messo in luce che lo strallo lato mare aveva evidenziato fina dal 1991 grossi problemi di degrado. Alcuni dei trefoli pre-tesi avevano completamente perso le loro capacità statiche: si erano rilassati a tal punto da poter essere mossi con uno scalpello, oppure non erano mai stati tesi (ipotesi . da non escludere del tutto). Altri trefoli avevano perso la malta di protezione perché asportata dalle intemperie oppure perché, aggiungo io, non era stata proprio iniettata nelle guaine metalliche e, infine, molti trefoli risultavano spezzati.
In conclusione il ponte Morandi doveva essere chiuso al traffico negli anni novanta del ventesimo secolo e demolito, in quanto le problematiche emerse non potevano essere risolte con semplice manutenzione. Quando il ponte è crollato, esso non era più idoneo all’uso per cui fu progettato e costruito, da oltre due decenni. Detto in altri termini il ponte progettato dal prof. Morandi, per metà della sua esistenza ha lavorato oltre i limiti delle resistenze dei materiali con cui fu costruito.
Perché esso è restato in servizio per tanto tempo, invece di essere demolito e ricostruito? Chi ha consentito che questo potesse succedere e che, alla fine, 43 persone ci rimettessero la vita?
A queste domande risponderà il processo ed, alla fine, avremo una verità processuale. Quella tecnica era chiara fin dal momento del crollo.
Ciao, Donato.
Da ingegnere a ingegnere.
Il ponte è crollato anche per un pessimo calcolo del carico a cui sarebbe stato sottoposto negli anni, che un ingegnere DEVE fare.
Lei dice che per 50 anni ha fatto il suo lavoro ‘in sicurezza’, laddove io credo che negli ultimi 20 anni noi genovesi abbiamo corso un rischio altissimo a passarci sopra. I ripetuti interventi di manutenzione, ai quali assisto da quando sono bambino, evidenziano che la struttura era pesantemente insufficiente allo scopo già dopo 10-20 anni.
Il sig. Morandi, che è il suo idolo (e rispetto la sua scelta) non poteva conoscere 70 anni fa certi dettagli dei materiali che erano in fase di scoperta, ma aveva iL DOVERE di fare una struttura idonea allo scopo e all’investimento finanziario associato. Era un ponte costosissimo in manutenzione, non dimensionato opportunamente per lo scopo e quindi già destinato ad un ciclo di vita (e ad un ammortizzamento dei costi) piuttosto penalizzante.
Questo almeno è quanto mi viene chiesto, quotidianamente, come ingegnere: soluzioni che valgano l’investimento, non esercizi di stile.
Se poi al sig. Morandi è stata chiesta unicamente un opera d’arte, allora il discorso è diverso, e l’uso dell’opera è stato scorretto.
Caro collega,
il prof. Riccardo Morandi ed il prof. Pierluigi Nervi sono stati dei Maestri per un’intera generazione di ingegneri: almeno quelli della mia. Come ho spiegato nell’articolo e nei commenti, il prof. Morandi ed il prof. Nervi erano la punta di diamante della scuola ingegneristica italiana nel mondo. Ciò non significa che tutto ciò che essi hanno fatto debba essere accettato acriticamente. Ciò che li rendeva dei simboli era e, almeno per me, è, la capacità di sfruttare le caratteristiche di resistenza dei materiali fino all’ultimo e plasmare la materia in modo tale da creare delle opere d’arte oltre che opere di ingegneria. Nel quotidiano anche a me viene chiesto di realizzare delle strutture funzionali e poco costose, ordinarie, in altre parole, ma in questo consiste il mio limite.
Anche loro hanno commesso i loro errori: scagli la prima pietra chi è senza peccato. Il principale errore del prof. Morandi è stato quello di aver sopravvalutato le potenzialità del calcestruzzo armato semplice e precompresso. Realizzare dei tiranti in precompresso, come egli ha fatto, rasenta la temerarietà e, dopo di lui, nessuno ha più osato, a ragione, ovviamente.
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Il problema non deve essere ricercato nel genio progettuale del prof. Morandi, ma nell’incapacità dei suoi eredi di rendersi conto che il suo viadotto sul Polcevera, dopo cinque decenni (lei dice meno ed io non ho nulla per contraddirla, né ne ho necessità), non era più idoneo all’uso per cui era stato progettato e realizzato (per usare una formula cara ai collaudatori statici). Chi aveva il dovere di tutelare la pubblica e privata incolumità, non ha avuto il coraggio ed il buonsenso di decidere di demolire quel ponte. E si sa perfettamente di chi sia questa responsabilità. La policy del sito mi impedisce di fare nome e cognome delle persone che si sono opposte alla sua messa fuori servizio, altrimenti le citerei nomi, circostanze e date. E si tratta quasi esclusivamente di soggetti che in modo ideologico si oppongono alle grandi e piccole opere.
Per quel che mi riguarda, la responsabilità delle morti conseguenti al crollo è politica oltre che tecnica, ma non credo possa essere attribuita al prof. Morandi.
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La struttura, stando ai primi risultati delle perizie tecniche, non fu realizzata in modo conforme a come era stata progettata e questo non è un vizio del solo ponte Morandi, ma di buona parte delle strutture esistenti in Italia e non solo.
Il viadotto Morandi non è crollato perché ci sono stati errori di progettazione, ma perché ci sono stati errori esecutivi e gestionali successivi, aggravati dalle scelte sciagurate dei politici che hanno governato tutto il processo.
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Fra qualche giorno si inaugurerà il nuovo viadotto sul Polcevera. Anche questa struttura ha dei problemi: dovrà essere percorsa a velocità ridotta in quanto il raggio delle curve che caratterizzano la carreggiata, non consente di mantenere le velocità di progetto tipiche di una moderna autostrada, ma a settanta chilometri orari si percorre una strada di montagna, non un’autostrada. Eppure nessuno ne parla.
Quando avremo i primi incidenti ed i primi morti, si dirà che è colpa dell’eccesso di velocità e si stenderà un velo pietoso sull’errore progettuale commesso. Si è detto che l’errore è conseguenza della necessità di mantenere lo stesso percorso del ponte originario, ma resta il fatto che, dopo aver speso centinaia di milioni di euro, ci troviamo di fronte ad un’opera poco funzionale. Ai tempi di Morandi era giustificabile, ma oggi non più: errare è umano, perseverare è diabolico.
E, giusto per esprimere un mio personalissimo parere, il viadotto progettato dall’arch. Piano sta al viadotto progettato dall’ing. Morandi, come lo stadio Olimpico sta al Colosseo: un normalissimo viadotto come ce ne sono migliaia in Italia, un’opera ordinaria costosissima.
https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2019/02/04/news/genova_il_conto_del_nuovo_ponte_battera_il_viadotto_piu_alto_d_europa-218312190/
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Semplificando e facendo le debite proporzioni, non è costato meno del viadotto Morandi, non è un’opera d’arte e non è funzionale. E farà la stessa fine del viadotto Morandi se non verrà gestito a dovere e sottoposto ai trattamenti, cui deve essere soggetta una struttura in acciaio in ambiente aggressivo. Eppure non ne parla nessuno.
Ciao, Donato.
E’ stata depositata oggi, a quasi un anno di distanza dal crollo del viadotto sul Polcevera, la relazione redatta dai periti nominati dal giudice che sta indagando sul crollo del viadotto. La consulenza tecnica d’ufficio (questo il suo nome tecnico) non ha lo scopo di accertare le cause del crollo, ma di rispondere ad uno dei quesiti del giudice: fotografare lo stato del viadotto al momento del disastro.
Come avevo ampiamente previsto, si cominciano a concretizzare tutti i miei peggiori timori: il viadotto Morandi versava in pessime condizioni statiche a causa di “DIFETTI ESECUTIVI” e di una “MANUTENZIONE CARENTE FORSE ASSENTE”.
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Prima di passare ad un brevissimo esame delle conclusioni della relazione peritale, è opportuno fare un piccolo passo indietro. Sembra ormai quasi certo che la causa del crollo del sistema bilanciato sia da ricercarsi nel cedimento di uno degli stralli. Personalmente lo avevo scritto circa un anno fa, in quanto mi sembrava l’ipotesi più logica. La Commissione tecnica ministeriale era di tutt’altro avviso, ma le conclusioni degli esperti che la formavano non mi vedevano d’accordo.
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Alla luce di ciò appare molto importante quanto scrivono i periti. La consulenza che contiene anche le osservazioni dei consulenti tecnici degli indagati, mette in evidenza che la quasi totalità dei trefoli (cavi in acciaio che armavano i tiranti o stralli) presentano valori di corrosione elevatissimi che hanno ridotto la loro sezione in misura rilevantissima (dal 15% al 75%).
Per uno del settore questo lascia poco spazio ai dubbi: gli stralli hanno ceduto a seguito del collasso dell’acciaio, diventato incapace di adempiere alle sue funzioni.
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Adesso bisogna stabilire perché ciò è accaduto. Si dirà per difetto di manutenzione. Certo, come negarlo? C’è, però, un però!
I periti hanno accertato che molte delle guaine che contenevano i trefoli erano vuote (totalmente o parzialmente). Mancava, cioè, la malta cementizia che avrebbe dovuto circondare i ferri e proteggerli dalla corrosione. In alcune guaine sembrerebbe che non ci sia proprio traccia dei trefoli: corrosi completamente o mai inseriti?
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Tutto questo significa che il ponte presentava gravi carenze costruttive e, in particolare, era difforme dal progetto. Una manna per tecnici ed avvocati di parte. Possiamo essere sicuri, sin da ora che su queste basi verrà costruito un tale castello difensivo che espugnarlo sarà arduo se non impossibile.
Ciao, Donato.
E’ stata pubblicata da qualche giorno (14/09/2018) la relazione della Commissione Ministeriale, istituita per accertare i fatti relativi al crollo del viadotto sul Polcevera, avvenuto il 14 agosto scorso.
La Commissione ha avuto vita abbastanza travagliata: circa la metà dei commissari nominati originariamente si sono dimessi o sono stati sostituiti nel corso del tempo. Alla fine essa risulta costituita per buona parte da membri del Consiglio Superiore del Lavori Pubblici che rappresenta l’organo tecnico di più alto livello dello Stato italiano.
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Ho letto la relazione e la condivido solo in parte. Mi è sembrata una requisitoria nei riguardi di Autostrade per l’Italia e poco più. Rappresenta, inoltre, un’arringa difensiva a favore degli organi statali delegati a sorvegliare ciò che Autostrade per l’Italia ha fatto in questi anni.
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Se ciò che è scritto nella relazione risponde anche in minima parte a ciò che accade nella realtà, c’è poco da stare allegri: ogni qualvolta si percorre un viadotto o una galleria, esiste una probabilità non trascurabile di non arrivare dall’altra parte. Non sembra, infatti, che le nostre infrastrutture siano in buone mani: chi le gestisce non le controlla e chi dovrebbe verificare che il gestore adempia ai suoi compiti, non è capace di farlo. Nonostante il chiaro intento assolutorio della Relazione, relativamente all’operato degli organi di Vigilanza, leggendola, a me appare chiara la loro incapacità di esercitare la funzione per cui sono stati istituiti, ovvero vigilare su quello che fanno i concessionari.
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Sempre sulla base di quanto è scritto nella relazione, sembrerebbe, infatti, che essi siano stati “tratti in inganno” dal titolo del progetto di ristrutturazione presentato da Autostrade!
E’ ridicolo pensare che un organo tecnico deputato a verificare l’operato di altri tecnici, si limiti al titolo del progetto e non si renda conto di che cosa stia esaminando: nella fattispecie l’organo di vigilanza avrebbe omesso di inviare il progetto al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, in quanto gli elaborati progettuali non evidenziavano CHIARAMENTE che si trattava di opera complessa dal punto di vista tecnico. Come se i viadotti strallati di R. Morandi fossero opere ordinarie: non serve un luminare dell’ingegneria per rendersene conto, riesco a capirlo anch’io, ma non gli apparati tecnici dell’organo di vigilanza!
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Mettendo da parte, però, le polemiche ed entrando più nello specifico, sembrerebbe che le opere di manutenzione sul viadotto Morandi, almeno da un punto di vista strutturale, siano state piuttosto carenti, che le indagini effettuate siano state insufficienti, che gli adempimenti burocratici non idonei, che le verifiche di sicurezza previste dalla legge omesse. A parte questo (che non è poco) sembrerebbe che il gestore della struttura abbia sottovalutato il rischio connesso all’uso del ponte e non lo abbia chiuso al traffico. Cosa ancora più grave, lo avrebbe fatto intenzionalmente: non lo si dice apertamente, ma lo si capisce chiaramente.
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Anche il progetto di ristrutturazione della struttura viene messo sotto accusa, in quanto, pur avendo individuato molte criticità, non prevede interventi risolutivi che interessino anche la parte orizzontale del ponte: si limita a interventi sui tiranti e su qualche elemento dell’impalcato.
Ciò appare molto grave se si dovesse rivelare fondato il meccanismo che ha innescato il crollo e che i Commissari reputano più probabile.
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Secondo la relazione sembrerebbe, infatti, che il crollo sia stato innescato dal cedimento di una delle travi tampone o di una parte dell’impalcato. La rottura di uno strallo è considerata tra le ipotesi, ma ad essa si assegna una probabilità inferiore rispetto alle altre due ipotesi. Io non sono molto d’accordo in quanto gli elementi in possesso dei Commissari mi sembrano molto deboli e del tutto insufficienti a stabilire la causa effettiva del crollo. Molto probabilmente è un insieme di tutte le concause che ha prodotto il disastro.
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Qualche considerazione finale mi sembra necessaria. Non sappiamo ancora perché il ponte è crollato: le ipotesi di cinematismo del crollo sono, secondo me, equamente probabili.
La relazione mi sembra attaccabile dai tecnici di fiducia della controparte in quanto non evidenzia elementi incontrovertibili: molte delle contestazioni sono basate su aspetti discrezionali e, quindi, opinabili. L’aspetto più sostanzioso è la mancanza della verifica della sicurezza del viadotto ai sensi di legge. Su questo però si scanneranno gli avvocati e deciderà il giudice.
Quello della Commissione è solo uno dei punti di vista: lo hanno già fatto sapere quelli di Autostrade (e su questo concordo).
Tutto come previsto.
Ciao, Donato.
Caro ing. Barone: concordo.
La relazione della Commissione MIT reca una messe di dati terrificanti, e nuovi almeno per me, sia sullo stato di fatto (accertato piuttosto di recente) sia sulle omissioni fattuali e documentali, colpose o dolose, da parte di ASPI. Stranamente però non fa riferimento (almeno, io non l’ho trovato) al doc. “Risanamento degli stralli del viadotto Polcevera” di Camomilla et al., che riporta una situazione di degrado analoga o peggiore, già oltre 25 anni fa! quindi sottovaluta, cioè considera solo in subordine, l’ipotesi di cedimento degli stralli in sommità: che invece è la più plausibile. Anche perché il cedimento degli stralli comporta oltre alla perdita di appoggio, anche la perdita di “autocompressione” dell’impalcato, che quindi si sgretola prima ancora di cadere a terra; mentre se avesse ceduto l’impalcato, degli stralli forse qualche moncone tristemente penzolante sarebbe rimasto.
La scadente veste editoriale (scansione dell’originale cartaceo, a bassa risoluzione) in cui è stato diffusa la Relazione poi non si presta a una facile lettura. Insomma “prendere o lasciare”. Posso capire che la Commissione abbia tenuto a dimostrare la tesi prevalente, cioè la colpa di ASPI: ma non sembra fatta “secondo scienza e coscienza”.
Sul piano tecnico, avrebbero dovuto anche e anzitutto sgombrare il terreno da “vizi [più o meno] occulti” come carenze di realizzazione (si intuiscono qua e là, ma solo … tra le righe) e (torno a dire) talune criticità del progetto Morandi. Mi stupirebbe che ASPI non si riservasse questo asso nella manica! “abbiamo preso per buono un manufatto, che alla prova dei fatti, presentava dei vizi occulti! tié!!!”
Forse proprio per scansare questo imbarazzante incarico, alcuni illustri proff. inizialmente designati come Commissari, hanno declinato l’incarico (certo, adducendo tutt’altri motivi: conflitto di interessi etc.)?
Infine, resta da capire la rilevanza di tale Relazione rispetto alle indagini che la Magistratura sta svolgendo. “Roma locuta est?” cioè il MIT ritiene forse di aver già reso la sua testimonianza, e di non dover rispondere a ulteriori quesiti? se io fossi il Giudice, ovviamente prima sentirei tutt’altri testimoni, e poi, uno alla volta in camera caritatis, i Commissari.
Anche a seguito della pubblicazione di tale Relazione, all’Assemblea dell’Ordine tra le “varie ed eventuali” (ma avendo preavvisato il Presidente) ho preso la parola per suggerire che l’Ordine cioè le Commissioni competenti organizzino un seminario che, “di prima” o “di sponda” (come si dice al biliardo) affronti questo scabroso tema, in termini oggettivi. Perché non sarà certo facendo gli struzzi, che risolleveremo l’immagine della categoria. Ovviamente mi sono offerto di contribuire: ma dubito che la cosa andrà avanti…
Staremo a vedere.
MF
Immagine allegata
@ Luca Rocca
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Luca, nel 1967 gli stralli non presentavano nulla di quello che si vede oggi. Nella foto allegata relativa al giorno dell’inaugurazione, il nodo stralli-antenna era perfettamente identico a quello indicato nell’articolo di Morandi. Tutto quello che non era presente nella foto del 1967, è stato aggiunto dopo e testimonia che il principale problema del viadotto sul Polcevera sono stati gli stralli.
Ogni giorno che passa mi convinco sempre più che il crollo è stato innescato dal cedimento di uno strallo. A seguito di ciò l’impalcato è andato in torsione, squilibrando il “sistema bilanciato” e facendo precipitare nel vuoto la trave tampone che collegava due “sistemi bilanciati” adiacenti. A seguito di ciò il crollo dell’intera struttura è stato questione di attimi.
Oggi al telegiornale ho sentito parlare di “difetti costruttivi”, di “vuoti nelle guaine intorno ai trefoli”, di “perizie che non facevano intravvedere rischi immediati di crollo”.
Lo scenario che delineavo in filigrana nel mio articolo, comincia ad apparire con sempre maggiore nitidezza: sulla base delle perizie il crollo improvviso del ponte non era prevedibile, i periti non potevano che eseguire verifiche puntuali che non potevano mettere in evidenza difetti presenti in zone lontane dal punto indagato, l’esecuzione del progetto non era stata perfetta ed i vizi strutturali erano occulti. Dopo tre gradi di giudizio, passata l’emozione del momento, verranno pagati corposi indennizzi alle parti civili e finirà tutto nel dimenticatoio.
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Dalle prime indiscrezioni sembra, infatti, che in nessun atto tecnico si parlasse di crollo imminente (linea difensiva degli indagati). Gli inquirenti stanno acquisendo le perizie tecniche, ma non credo che troveranno molto. Si leggerà che le verifiche effettuate sono state puntuali e che nulla si può dire circa lo stato delle parti della struttura lontane dai punti indagati. Si leggerà che sarebbe necessario estendere le indagini ad altre parti della struttura. Si leggerà che il degrado dei materiali e lo stato tensionale desunto dalle prove rendono necessari ed indifferibili interventi di manutenzione e di riqualificazione strutturale. Si leggerà che sulla base di quanto è stato possibile accertare non “parrebbe” che la struttura versa in grave pericolo, salvo situazioni puntuali che sono sfuggite all’indagine perché lontane dai punti indagati . Si leggerà che tutti gli accertamenti sono stati effettuati in conformità della bibliografia tecnica pacificamente accettata ed in scienza e coscienza. Quello che si scrive normalmente in questi casi: molti condizionali e molte dubitative. Potrebbe sembrare una leggerezza, ma non è così. Come si fa ad indagare una struttura millimetro per millimetro? Il difetto può annidarsi ovunque nelle centinaia di metri cubi di calcestruzzo e nelle migliaia di chilogrammi di ferro di uno strallo, è umanamente impossibile individuarlo.
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Di contro se la responsabilità del crollo è imputabile a difetti esecutivi (i famigerati vizi occulti) o a ipotesi progettuali che alla prova dei fatti si sono rivelate sbagliate, chi pagherà a distanza di oltre mezzo secolo? Credo che tutti coloro che furono impegnati, con funzioni di responsabilità nella costruzione della struttura siano ormai del tutto inattaccabili da un punto di vista penale e, forse, anche da un punto di vista civile.
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Sembra cinico? Credo di no, diciamo che è realistico.
E c’è chi crede di poter attribuire la responsabilità di tutto ad Autostrade! Potrebbe essere, ma dovrebbe accadere un miracolo o, più prosaicamente, dovrebbero essersi verificate una serie di circostanze tali da rendere indifendibile la loro posizione. Stando alle prime avvisaglie, sembrerebbe di no. Comunque chi vivrà, vedrà.
Ciao, Donato.
Immagine allegata
Se gli stralli erano realizzati come appare nei disegni (molto sommari, d’accordo: ma significativi) del rapporto redatto dall’ing. Morandi stesso, cioè in sostanza: due travi in cls precompresso, formanti un gomito quasi ad angolo retto pure in cls; con i cavi che invece di scaricare la tensione ad ambedue le estremità di ciascun tratto rettilineo (sul quale il cls la può reggere come “sforzo normale”) proseguono portandosela appresso attraverso il gomito, ebbene, io dubito che quel gomito (o “cuspide”) di cls sottoposto a un complesso stato di sforzo triassiale, in assenza di una fitta armatura di confinamento (che non appare né nei disegni né nella fotografia dell’ing. Camomilla) possa reggere: si sbriciola!
Se poi i cavi sono affasciati paralleli e senza trasposizione e senza elementi distanziatori come pure appare dalle foto, il cls per quanto fluido e ben vibrato difficilmente sarò penetrato in modo da aderire bene a ciascun singolo cavo: quindi, i cavi più interni saranno rimasti relativamente liberi di scorrere tra loro e rispetto al cls; quindi oltre al rilassamento più o meno viscoso dell’acciaio, al ritiro del cls etc., la precompressione si sarà ridotta vieppiù.
Il resto … è cronaca.
Se possono aiutarvi vi allego le foto dell’ attacco degli stralli del pilone del ponte Morandi.
Ad occhio le soluzioni sembrano molto diverse da quelle della pubblicazione. Ho l’impressione che Morandi non abbia detto, forse per non farsi copiare, tutta la verità sugli attacchi che sembrano molto più complessi di quello che risulterebbe dalla pubblicazione
Immagine allegata
il livello della rete gestita da Autostrade, sia superiore a quello dei tratti gestiti da ANAS.
Concordo. La rete gestita dall’ANAS è un disastro, anche se dipende da zona a zona. Faccio solo due esempi recenti che mi sono capitati, entrambi in condizioni disastrose: la SS1 Aurelia tra Cecina e Grosseto e il pezzo di superstrada tra Monte S. Savino e Arezzo. Io poi confesso di non capire più di chi è la competenza delle strade secondarie (comunque di certo delle amministrazioni pubbliche), ma conosco praticamente a memoria (sono quarant’anni che le bazzico) le strade delle province di Grosseto e la parte occidentale e meridionale di quella di Siena: sono in degrado progressivo, eclatante. Vedo che su molte le amministrazioni se la cavano mettendo limiti demenziali, tipo 50 km/h su tratti extra-urbani, larghi e in rettilineo, solo perché il fondo è talmente deteriorato che percorrerle a 70 o 80 km/h per molti potrebbe essere pericoloso.
oddìo, tanto merito di Autostrade, ovvero demerito di ANAS, non saprei; però … il tragico crollo del cavalcavia di Annone B. (ancora sotto sequestro) va imputato all’ANAS, dato che il manufatto è sì nato per assicurare il traffico locale su una strada provinciale, ma in origine non c’era: fu costruito per superare lo sbancamento necessario per costruire la superstrada SS36 c.d. “Nuova Valassina”, quindi “appartiene” all’ANAS, nella buona e nella cattiva sorte (c.d. “Legge del Menga”).
Perché poi la Regione abbia stabilito che ai trasporti eccezionali (quello era oltre il doppio della portata “nominale”) sia sufficiente il nulla-osta della Provincia di partenza (Brescia) e non anche quello delle Province attraversate (Lecco) è una delle c.d. “eccellenze lombarde” che il mondo ci invidia (come la Moto Guzzi).
Poi va detto che, tranne la “Camionale” Genova-Serravalle che risale al ventennio fascista (come se non erro anche la Milano-Laghi) le autostrade hanno in media solo mezzo secolo ; le strade statali (a parte la pagliacciata di chiamarle “provinciali”, per poi fingere di “abolire” le Province… lasciamo stare) e soprattutto quelle “consolari”, sono leggermente più vecchie: naturale che richiedano più manutenzione.
Ma proprio per questo, sotto il manto di asfalto, hanno una massicciata che sfida i secoli.
Certo, attraversano i centri abitati; e allora le PP.AA. realizzano le “tangenziali”… che talvolta sono solo un penoso periplo per periferie (scusate lo scioglilingua).
Aggiungo che anche Autostrade quando non sa che pesci pigliare a causa della propria disorganizzazione (tipicamente d’inverno lesinano il sale per cui toh!?! si forma il ghiaccio!…oppure aspettano a mettere in marcia gli spazzaneve quando ce n’è almeno una spanna, per cui toh?!? ormai è troppa perfino per loro) che fa? “per sicurezza” chiude i varchi di accesso.
Bravo, sette più! e uno che deve viaggiare (come sarebbe un suo diritto) che fa: piglia la strada statale? che notoriamente è arcisicura e non è soggetta alle medesime intemperie? o si premunisce con San Cristofori, “papà non correre”, o cornetti vari?
Senza contare l’assurdità di quelli che, entrati in Riviera e poi bloccati nella eccellentissima Padania, giunti a destinazione stravolti dopo 7-8 ore hanno dovuto ancora pagare il pedaggio: io per fortuna o prudenza non mi ci sono trovato; ma penso che avrei puramente e semplicemente divelto le barriere.
Insomma, Autostrade come del resto la maggior parte dei concessionari, certi della benevolenza della P.A., con una mano firma il “Contratto di Servizio”, e con l’altra fa gli scongiuri per disattenderlo e farla franca.
@ Maurizio Rovati e @ Maurizio Forcieri
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Difatti in quei maledetti stralli il calcestruzzo sarebbe stato meglio non mettercelo proprio. Perché è proprio lì che, secondo me, si è innescato il crollo. L’elemento bilanciato ristrutturato negli anni ’90, ha funzionato egregiamente per decenni e sta ancora lì. I tiranti incapsulati nel calcestruzzo precompresso, sono stati sostituiti con tiranti in acciaio esterni protetti da guaine in polietilene ed amen. Credo che la stessa cosa si sarebbe dovuta fare sugli altri otto stralli, ma non c’è stato il tempo. L’errore di Morandi (se tale possiamo definirlo) fu, probabilmente, quello di pensare che il calcestruzzo precompresso potesse proteggere l’acciaio dei tiranti e questo ho avuto modo di precisarlo anche nell’articolo. Oggi come oggi nessuno si sognerebbe di farlo, ma all’epoca si fece questa scelta, anche sulla base delle conoscenze tecniche e strutturali di allora.
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In merito alle responsabilità di Autostrade voglio esprimere solo un parere strettamente personale. Girando per l’Italia ho modo di circolare sulla rete di Autostrade e su quella ANAS. A livello di autostrade sono dell’avviso che, nonostante tutto, il livello della rete gestita da Autostrade, sia superiore a quello dei tratti gestiti da ANAS.
A mio parere sulla questione si sta combattendo una battaglia politica ed ideologica che ha poco a che fare con la responsabilità civile e penale circa il crollo del viadotto Polcevera. E mi fermo qui per non fare troppi danni, né ho intenzione di ritornare sull’argomento. 🙂
Ciao, Donato.
In tutto questo tira e molla sul povero calcestruzzo, faccio fatica a comprendere la necessità e l’utilità del calcestruzzo stesso in una struttura (strallo) destinata a resistere esclusivamente a trazione. Io sono tutto meno che un ingegnere civile, ma ‘sta cosa proprio non la digerisco, con buona pace dell’ing Morandi e dei suoi discepoli.
Cerco di rispondere al quesito di Maurizio Rovati dall’abisso della mia ignoranza:
A quanto capisco, la lunghezza complessiva oltre 1km non si poteva coprire con un’unica “campata”.
Non si poteva quindi realizzare un “nastro” flessibile (tipo ponte di Brooklyn) sorretto da stralli flessibili (che pure hanno i loro problemi, come noto) ma occorreva un impalcato rigido.
Ma neppure un impalcato in cls armato continuo di 1km tutto d’un getto sarebbe fattibile, perché non tollererebbe la dilatazione termica: quindi, va fatto in più tratti indipendenti, ciascuno con i propri sostegni, congiunti da elementi “rompitratta” elastici.
Ma l’impalcato rigido a sua volta richiede sostegni rigidi, siano puntoni o tiranti: quindi gli “stralli” in cavo di acciaio non vanno bene, non solo perché l’acciaio come materiale è più elastico, ma anche perché la curva della “catenaria” può variare secondo il carico: l’impalcato avrebbe subito escursioni verticali inammissibili (se non erro, Morandi dice 1 metro!)
Va da sé che tiranti in semplice cls anche se armato fino ai denti non vanno bene perché sottoposto a trazione si fessura: donde la scelta del precompresso, che coniuga la resistenza a trazione dell’acciaio con la rigidezza del cls, il quale resta sempre compresso (o almeno, dovrebbe).
L’alternativa (non lo dico per assecondare Fincantieri! e men che meno Renzo Piano!!!!!!!!) è una struttura reticolare in acciaio, come i mitici ponti di Gustave Eiffel, che essendo rivettati sopportano anche dilatazioni importanti, ed essendo composti di un gran numero di elementi (di norma, tiranti e puntoni, esenti da momento flettente: e relativamente facili da calcolare col c.d. poligono funicolare o “cremoniano”!) tollerano anche il cedimento o la sostituzione di un elemento senza interruzioni del traffico. E in cui il degrado è visibile.
@ Forcieri ing. Maurizio
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Maurizio, prima una piccola precisazione: nel mio commento di replica i 13 MN si riferiscono alla precompressione indotta nella guaina di calcestruzzo dei tiranti, dai cavi di precompressione specificamente predisposti. Il dato non tiene conto della sollecitazione nei tiranti in quanto essi sembrano indipendenti dal calcestruzzo della guaina. In realtà un po’ le due strutture dovrebbero interagire in quanto la guaina grava sui tiranti in acciaio, ma non ho la più pallida idea di come tale interazione sia stata considerata nel calcolo statico generale.
Se invece consideriamo la sollecitazione nei tiranti, ottengo un valore di circa 30 MN.
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Per quel che riguarda l’interazione tiranti-antenne, nell’articolo di Morandi si parla di calcestruzzo e lamiere in acciaio. Dalla tav. VI mi sembra di capire che la sella di appoggio sia costituita da una serie di piastre e lastre in acciaio che distanziano i cavi e ne trasferiscono i carichi al calcestruzzo dell’antenna. Circa le tue perplessità circa le possibili conseguenze dello scorrimento relativo tra cavi, piastre e calcestruzzo, Morandi parla di “sistema bilanciato”, per cui tali scorrimenti dovrebbero essersi verificati in fase di costruzione e, quindi, prima del getto finale del calcestruzzo. In un punto dell’articolo, Morandi sottolinea che le guaine sono state l’ultima opera, tutto il resto era già stato costruito e le distorsioni elastiche eliminate.
Ulteriori scorrimenti, ma di entità molto esigua possono essere stati indotti dai carichi accidentali e dalle sollecitazioni dinamiche di traffico e vento. .
Ciò non toglie che la sella sia uno dei punti critici della struttura e l’esposizione dei ferri documentata da Camomilla e dai tecnici del Politecnico di Milano, lo testimonia. In proposito Camomilla è chiaro: non di difetto progettuale si trattava, ma di carenze esecutive. Gli altri appoggi, infatti, non manifestavano alcun problema.
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Maurizio non me la sento di attribuire colpe a Morandi anche perché stiamo parlando di un’opera unica, altamente innovativa, oserei dire sperimentale. Le opere successive hanno migliorato la tecnica, forse proprio sulla scorta delle difficoltà evidenziate da questo prototipo. Sono sempre più convinto, però, che se a Genova fosse stata realizzata la Gronda, il ponte Morandi sarebbe stato messo fuori servizio. Camomilla non lo dice esplicitamente, ma fa intendere che molti sapevano che le cose non andavano bene e che la decisione di continuare ad usarlo deve considerarsi più politica che tecnica. E questo è molto grave.
Ciao, Donato.
Poiché sul colmo il raggio di curvatura è dello stesso ordine di grandezza delle dimensioni del “trave” (1m) e la reazione verticale della sella sull’antenna è applicata proprio lì, siamo ben lontani dal modello ideale del cilindro o prisma di De Saint Venant; quindi è improprio descrivere lo stato di sforzo in termini di sforzo normale, momento flettente, taglio etc. All’epoca poi i FEM erano embrionali, molto pesanti, e usati forse solo nel mondo aerospaziale.
Comunque, a occhio e croce, la cuspide si sarà lesa secondo una V molto aperta come l’angolo tra gli stralli contrapposti, a causa dello sforzo di taglio. Probabilmente sarà venuta meno la precompressione in prossimità della cuspide, per un tratto lungo una decina di volte il diametro dei cavi, sempreché questi fossero ben adesi al cls uno ad uno: ma ne dubito, poiché formavano un fascio inestricabile e difficilmente penetrabile al getto (è nota l’initilità delle “gabbie” con troppo ferro…): su tale base è arduo dire se alla lunga, con l’inevitabile scorrimento (relativo tra cavo e cavo e rispetto al cls) il grosso dei 60 o 65m degli stralli sia rimasto precompresso
Con ciò non intendo sminuire le enormi responsabilità di Autostrade, perché gli stessi ragionamenti miei (se mai tali si possono chiamare) li potevano e dovevano fare loro per primi; perché sapevano ed erano stati avvisati; e perché quand’anche non avessero saputo, vale la Legge del Menga: l’ignoranza non è ammessa.
@ Forcieri ing. Maurizio
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Maurizio, (spero ci si possa dare del tu) i miei calcoli sono leggermente diversi.
I tiranti furono pretesi per sostenere la travatura principale ed in modo tale che la quota dell’estremità della stessa fosse maggiore di quella di progetto di quel tanto che consentisse di raggiungere la quota di progetto dopo il varo della trave che collegava i due sistemi bilanciati adiacenti. Dopo questa operazione si procedette alla realizzazione delle guaine dei tiranti. Le guaine furono realizzate con conci di calcestruzzo che, dopo l’indurimento, furono assoggettati a precompressione. La compressione fu applicata con 112 cavi da mezzo pollice di diametro.
Sulla base delle sollecitazioni dichiarate dal progettista per i cavi di precompressione, la sollecitazione di precompressione delle guaine in calcestruzzo dovrebbe essere pari a circa 16 MN al tempo zero ed a circa 12 MN al tempo infinito. Queste forze dovrebbero aver generato una tensione di compressione del calcestruzzo oscillante tra 13 N/mmq al tempo zero e 10 N/mmq al tempo infinito.
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A parte i valori numerici diversi, gli ordini di grandezza sono gli stessi, per cui la tua deduzione mi sembra logica.
C’è, però, un problema. Nel caso del viadotto Carpineto 1° è stata individuata una riduzione della forza di precompressione del calcestruzzo di circa 3 MN rispetto a quella di progetto (non so dire se a tempo zero o a tempo infinito, ma presumo a tempo infinito). Ciò ha determinato una tensione residua di compressione del calcestruzzo degli stralli di circa 3 N/mmq, del tutto insufficiente a garantire l’assenza di tensioni di trazione nella guaina dei tiranti sotto l’azione dei carichi accidentali.
Il viadotto Carpineto 1° è, però, parecchio diverso da quello del Polcevera sia per forma che per schema di calcolo, l’unica cosa che li accomuna sono gli stralli, le lunghe travi longitudinali strallate e la tecnica di costruzione.
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Da quanto ho avuto modo di leggere, già poco dopo la messa in esercizio del viadotto del Polcevera, si verificarono deformazioni della struttura che resero necessario intervenire con correzione altimetrica della livelletta: probabilmente le deformazioni a lungo termine erano state sottovalutate in fase di progetto e questo depone a favore di una drastica riduzione dello stato di precompressione delle guaine dei tiranti a tempo infinito. Non mi stupirei, pertanto, che anche nel caso del Polcevera, come in quello di Carpineto 1°, lo stato tensionale delle guaine dei tiranti sia diventato del tutto insufficiente ad evitare la fessurazione delle guaine in calcestruzzo dei tiranti e la conseguente corrosione di cavi di precompressione e tiranti, vista l’estrema aggressività dell’atmosfera della zona, come testimoniato anche dai commenti a questo post. Siamo, però, nel campo delle ipotesi in una discussione tra ingegneri. Si tratta di ipotesi plausibili e, forse, vicine alla realtà, ma pur sempre di ipotesi.
Credo che sia opportuno attendere gli esiti delle perizie tecniche in corso, per evitare di dare informazioni che potrebbero essere smentite in futuro.
Ciao, Donato.
un’altra considerazione, sempre ipotetica
1. Gli schemi in sezione longitudinale degli stralli, riportati a tav. VI del doc. originale scritto da Morandi e meritoriamente diffuso da IngenioWeb, mostrano un getto di cls che ingloba come un tutt’uno anche la sommità, dove i cavi scavalcano la sella dell’antenna. I cavi non sono attestati alla sommità con chiavi atte a scaricare la tensione sul tratto rettilineo di ciascuno strallo indipendentemente, ma al contrario, prima d’essere “omogeneizzati” e quindi bloccati (?) col getto di cls, sembrano liberi di scorrere sulla sella, così che la tensione si propaga e si equilibradall’altro lato: come sembra naturale, se non altro per la difficoltà di portare in quota martinetti e simili dispositivi (ma poi non si vede come realizzare un adeguato copriferro anche sul lato inferiore concavo, che così teso, aderisce con forza alla sella stessa).
2. Il doc. “risanamento pila 11 etc.,” scritto dall’ing. Camomilla, oltre a riportare gli stessi schemi, mostra proprio nella fig. 1 la situazione di grave degrado (cavi esposti!) proprio in sommità (se leggo bene, un analogo degrado in sommità era stato rilevato di recente dal PoliMi anche su quello crollato).
3. Allora, a prescindere da vibrazioni vs. frequenze di risonanza, rilassamento, corrosione da salsedine, CO2 etc., mi viene un dubbio: come diavolo fa quella cuspide di cls che dovrebbe inglobare la sommità dei cavi, a stare al suo posto, essendo sottoposta alla enorme spinta di 40MN (o secondo i tuoi calcoli, “solo” 12 MN) da una parte e altrettanti dall’altra, ma non contrapposti, bensì con un angolo di circa 55° rispetto alla verticale? manca qualcosa… la somma vettoriale di tali due spinte risulta verso l’alto 2*cos55°*40MN=45MN (ovvero, anche solo 13MN): e dove trova la necessaria reazione? quella cuspide di cls (a meno che fosse armata con una fittissima gabbia trasversale di confinamento, o con uno scudo in acciaio saldamente ancorato: ma dai disegni non appare molto, se non 3 staffe un po’ esili) dovrebbe all’istante schizzare via, per essere frivoli, come il tappo di una bottiglia di spumante!
Se così fosse, spiace dirlo, ma l’ing. Morandi pur nel disegno complessivamente geniale, forse aveva un po’ trascurato qualche dettaglio….
ringrazio per le puntuali risposte
in base ai dati di tensione impartita ai cavi in fase di “omogeneizzazione”, risulterebbe (per ciascuno strallo) una forza compressiva complessiva (!) di quasi 40MN (MegaNewton) che rapportata al circa 1,1mq di sezione darebbe circa 36N/mmq nel cls;
mentre la trazione sullo strallo (=decompressione del cls) dovuta al peso dell’impalcato (assunto 30t/m lineare, quindi 1000t su 36 metri, di cui metà a carico degli stralli, equamente ripartita tra questi) sarebbe meno di 2N/mmq; e quella accidentale dovuta a un mezzo di 50t che accede all’estremità dell’impalcato tutto a mano destra (quindi gravando su quel solo strallo) meno di 0,4N/mmq: inferiori di uno o due ordini di grandezza!!!
insomma, a meno di ipotizzare scuotimenti enormi, e anche ammettendo un certo ritiro e un certo rilassamento viscoso, è difficile che il cls si sia trovato sia pure momentaneamente in trazione
gradirei una Vs. autorevole conferma di tali ordini di grandezza, per confutare quanto da me sospettato in un primo momento, cioè che il cls sia col tempo, sia con le vibrazioni, si fosse decompresso del tutto (almeno nelle zone più sollecitate) e ciò avesse innescato il crollo
Ritorno sull’argomento precompressione per chiarire qualche dettaglio.
Il sistema di precompressione “Morandi M5” che fu il primo dei sette brevetti intestati a R. Morandi e che è quello utilizzato in quasi tutte le sue opere in precompresso, è un sistema di precompressione a cavi scorrevoli post- tesi. Esso è utilizzabile tanto per precomprimere strutture monolitiche in calcestruzzo, che strutture realizzate con conci prefabbricati.
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Analizziamo il sistema applicato alle opere in calcestruzzo monolitico. Nei casseri vengono disposte delle guaine metalliche flessibili secondo il tracciato previsto in fase di progetto e, quindi, si procede al getto del calcestruzzo. I cavi sono posti all’interno delle guaine metalliche e non sono a contatto con il calcestruzzo, ma sono liberi di scorrere nelle guaine. Dopo l’indurimento del calcestruzzo i cavi vengono tesi con martinetti idraulici secondo quanto previsto in fase di progetto ed ancorati alle piastre di estremità mediante dei sistemi a blocco reversibile. La tesatura può essere ripetuta quante volte si vuole, fino ad ottenere i valori di deformazione e precompressione previsti. Quando tutte le operazioni di tesatura dei cavi sono state completate, attraverso dei tubicini appositi si procede all’iniezione nelle guaine di pasta di cemento che ha l’esclusiva funzione di proteggere i cavi dalla corrosione.
Non mi risulta che R. Morandi abbia utilizzato altre tecniche per realizzare la precompressione delle sue strutture.
Non mi risulta in particolare, l’utilizzo di metodiche basate sul riscaldamento dei cavi, anche perché in questo modo sarebbe impossibile controllare lo stato di tensione all’interno della struttura.
http://www.enzomartinelli.eu/MaterialeDidattico/tecnicaII/BrevettoMorandi.pdf
Ciao, Donato.
La cupola del Panteon a Roma è realizzata in calcestruzzo leggero non armato, usando lapillo e pomice come inerti leggeri. E’ il primo esempio a me noto dell’uso strutturale di questo materiale
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Ogni volta che ne sento parlare mi metto mentalmente “sull’attenti” in segno di rispetto per gli straordinari progettisti e costruttori di duemila anni fa.
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Due riferimenti sommari alla struttura del Panteon si trovano qui:
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http://www.aleckassociates.co.uk/structural-engineering/history-of-structural-engineering-the-pantheon/
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http://www.sustainableconcrete.org.nz/page/the-pantheon-rome.aspx
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e uno esauriente (purtroppo a pagamento) qui:
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https://www.jstor.org/stable/3050861?seq=1#page_scan_tab_contents
@ Forcieri
La cupola del Pantheon è’ un getto in calce idraulca pozzolanica, e cocciopesto Con una ripartizione degli inerti in tre fasce, Travertino dalle fondazioni all primo terzo circa della cupola , il terzo centrale in tufo la parte finale in pomice .Fu anche realizzato un oculus: un arco circolare per concludere la volta, il tutto per ridurre i carichi La tecnica ad anfore non fu usata per questa struttura.. Nonostante tutto fu necessario, già pochi anni dopo la fine dei lavori , il rinforzo delle fondazioni con un ulteriore anello le la creazione di muri e di un corpo posteriore per riportare l e spinte al terzo centrale
Il riscaldamento del metallo non fu fatto per resistenza,,non è possibile, ci sarebbero voluti megawatt di potenza mettendo a rischio la vita di chiunque lavorasse vicino. molto probabilmente fu usato un sistema ad induzione (radiofrequenze) , molto più efficiente e con meno rischi.
Pur con molto ritardo, ecco l’inevitabile ed insulso riferimento ai cambiamenti climatici, anche per il ponte Morandi.
Secondo il presidente Senato “è inoltre auspicabile che gli interventi vengano progettati anche in riferimento ai nuovi imprevedibili fenomeni climatici”.
Ci sono infatti notorie statistiche di un sempre maggior numero di ponti crollati a causa di neve, vento e grandine.
@ Forcieri ing. Maurizio
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Gentile collega, sono riuscito a recuperare in modo fortuito un vecchio articolo del prof. R. Morandi pubblicato sulla rivista “L’industria Italiana del Cemento” del lontano 1967. In esso sono illustrate con grande dovizia di particolari tanto la progettazione che la realizzazione del viadotto Polcevera. Purtroppo la “scoperta” dell’articolo è successiva alla pubblicazione del mio scritto, per cui non ho potuto approfittare della miniera di dati contenuta nell’articolo di Morandi. Ho potuto accertare, comunque, che la tecnica utilizzata è la stessa del viadotto Carpineto 1°, per cui resta salva l’impostazione dell’articolo. Con il senno di poi posso dire che lo avrei riscritto allo stesso modo, eliminando molti condizionali: le ipotesi che ho fatto sono state suffragate dalla fonte originale.
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Tutto ciò premesso posso rispondere in modo esaustivo alle sue richieste.
Gli stralli del viadotto sono costituiti da due tiranti per lato. Ogni tirante è formato da fasci di 352 trefoli in acciaio speciale R=170 kg/mmq (notazione riferita alle norme dell’epoca, ovviamente). Essi furono pre-tesi mediante martinetti idraulici. Tali tiranti furono rivestiti da conci in calcestruzzo che dopo l’indurimento furono precompressi mediante 112 trefoli paralleli a quelli costituenti i tiranti.
Alla fine dei lavori le tensioni nei tiranti e nei cavi di compressione erano le seguenti:
Cavi di precompressione:
a tempo 0: 12000 kg cm-2
a tempo infinito: 9000 kg cm-2
Tiranti:
tensione max = 7.500 Kg cm-2
tensione min = 6.900 Kg cm-2
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Durante l’esecuzione dei lavori le tensioni nei cavi furono variate, a seconda delle fasi di lavorazione e dovettero essere attentamente calibrate, in modo da produrre delle distorsioni ben precise che, dopo il completamento dell’opera, risultarono essere annullate. Il controllo delle distorsioni fu effettuato con estensimetri e con metodi geometrici.
Tutto ciò è possibile solo ed esclusivamente se si utilizzano martinetti idraulici.
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In merito alla cupola del Pantheon tutte le fonti di cui sono venuto a conoscenza, parlano di calcestruzzo non armato. In senso letterale non si può parlare di calcestruzzo armato fino alla metà del 1800, per cui mi sento di escludere che essa sia stata realizzata in calcestruzzo armato, nel senso che intendiamo oggi, anzi a partire dalla fine del 1800. Se lei ha a disposizione notizie e fonti diverse, sarei felice di condividerle.
Ciao, Donato.
Tra tante chiacchere da bar, o cosiderazioni magari giuste, ma parziali, finalmente un’analisi abbastanza esauriente [però mi lasci dire: sia pure in senso lato, la cupola del Pantheon è proprio cls armato… e anche alleggerito con elementi vuoti di terracotta!]
il mio dubbio è questo: si può sapere di quanto era precompresso il cls degli stralli? pare che sia stata usata la tecnica ideata e brevettata dall’ing. Morandi, di riscaldare i tondini facendovi scorrere una corrente elettrica: ma (1) a contatto col getto di cls freddo, la differenza di temperatura si sarà ridotta a ben poca cosa; (2) dato che l’acciaio non è ‘sto gran conduttore, e il getto è a base acquosa, la corrente si sarà ridistribuita nel getto, almeno per le prime ore; (3) la presa del cls è una reazione chimica sia pur leggermente esotermica: quindi, scaldarlo non gli fa tanto bene… insomma io penso che alla fine la precompressione fosse modesta, comunque non controllabile; e per di più la presa tra acciaio e cls fosse precaria a causa del calore: questo fin dal 29° giorno quando hanno disarmato, prescindendo poi da ritiro, corrosione etc. etc. Lei che ne dice?
Immagine allegata
@ A. de Orleans-B.
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Grazie per il bel contributo alla discussione e per le puntuali notizie tecniche che arricchiscono il mio lavoro. Un particolare ringraziamento per aver voluto condividere con la comunità di CM i ricordi del rapporto personale con il prof. Morandi. Concordo circa le sue ottime capacità comunicative che gli consentivano di far comprendere a tutti anche gli aspetti più complessi delle sue strutture. Non ho avuto il piacere di poterlo ascoltare personalmente, ma ho visto un video in cui spiegava lo schema statico dei suoi ponti strallati. Poche linee di matita su di un foglio di carta e poche parole sono state sufficienti a farmi capire perfettamente come funzionava la struttura. Ho commentai la cosa con mio figlio, anche lui ingegnere, e ricordo di aver usato la seguente espressione: fa apparire semplici cose estremamente complesse. Ciò che ho scritto nell’articolo circa lo schema statico del ponte sul Polcevera, è in larga parte frutto della sua lezione.
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Molto opportuno anche il riferimento alla vicenda del Comet. Ricordo che tanto il mio docente di Tecnologia dei Materiali che quello di Tecnica delle Costruzioni, utilizzarono lo stesso esempio quando ci spiegarono il problema della rottura a fatica e le tematiche relative alla resilienza dei materiali e delle strutture.
Ciao, Donato.
Magnifico articolo del Prof. Barone, che mi permetto di commentare con qualche considerazione anche di natura personale.
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Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente l’ing. Morandi, accompagnandolo quando fu invitato dal governo venezuelano nel 1982 per celebrare 20 anni dall’inaugurazione del ponte sullo stretto di Maracaibo, ponte ancor oggi pienamente in funzione.
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Producevo in Venezuela argille espanse usate anche per calcestruzzi leggeri strutturali e passai delle ore a parlare con lui ammirando la sua (almeno per me) straordinaria capacità di spiegare in modo semplice le problematiche connesse alle strutture in calcestruzzo armato precompresso – lo sentivo come un vero Maestro. Scoprii più tardi che, nel 1936, aveva costruito, in calcestruzzo ciclopico a vista, un piccolo monumento funebre per i due fratelli di mia madre scomparsi in un incidente aereo – lui lo sapeva ma non mi disse niente, con ammirevole discrezione.
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Per capire i calcestruzzi leggeri alla fine mi ero costruito un mio laboratorio per misurare i dati sperimentali sui calcestruzzi pesanti e leggeri, compreso un sistema automatico per disegnare le curve tensione/elongazione durante le prove di carico sui cubetti e i cilindri in calcestruzzo, anche a lungo termine. Ero affascinato dalle formulazioni delle miscele e le conseguenze sulla resistenza, il ritiro, il fluage e la variazione temporale del modulo elastico dei calcestruzzi – e mortificato da quanto questo materiale fosse incompreso e maltrattato durante la sua applicazione in cantiere…
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Poi nella vita mi sono dedicato anche a capire alcuni rudimenti di tecnologia aeronautica, di certificazione e manutenzione di aeroplani e da tutto questo ricavo alcune conclusioni, spero non troppo irriverenti:
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1. Il progetto del ponte di Genova non era complicato da capire, anche per chi, anni dopo, doveva responsabilizzarsi ex-novo della sua manutenzione e delle variazioni dei parametri di progetto e dei carichi applicati.
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2. Il progetto di quel ponte – e di tanti altri in quel periodo – era basato sulle conoscenze disponibili in quel momento sul comportamento del calcestruzzo a lungo termine. Dopo l’entrata in esercizio del ponte sono state acquisite nuove e significative conoscenze sul calcestruzzo che avevano un impatto sulla sua vita utile e sulle tecniche di manutenzione necessarie.
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3. Nel settore aeronautico abbiamo avuto numerosi “ponti crollati”: uno dei più famosi era la inspiegabile distruzione in volo dei velivoli Comet, poi sperimentalmente spiegata con rotture a fatica lungo i finestrini della fusoliera soggetta ai cicli di pressurizzazione; oggi tutti gli aeromobili vengono seguiti durante la loro vita anche in funzione delle nuove conoscenze sui materiali acquisite dopo la loro progettazione e, se necessario, vengono “messi a terra” prima della fine della loro vita utile prevista originalmente.
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4. Nel settore delle costruzioni non abbiamo una autorità così forte e indiscussa da poter facilmente dichiarare inagibile un ponte sulla base di nuove conoscenze acquisite dopo il progetto – il Genio Civile non sembra poter esercitare poteri simili a quelli delle analoghe autorità aeronautiche.
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5. Il ponte di Genova durante la sua vita sembra aver subito modifiche sia nella sua configurazione sia nelle sue esigenze prestazionali – dal 1975 lo attraversavo una decina di volte l’anno e ne osservavo i costanti lavori, i parziali rivestimenti degli stralli e l’aumento del traffico.
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6. Come ben spiegato dal Prof. Barone, le strutture isostatiche sono soggette al collasso totale e improvviso quando cede “l’anello debole” e sono quindi progettate con riserve molto elevate: ricordo per il ponte di Maracaibo due cifre: carico di progetto 11.000 tonnellate e carico effettivo 2.500 t!
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7. Questi elevati margini progettuali, noti agli addetti, possono perversamente portare al pensiero del “tanto non crollerà mai” e riducono ulteriormente l’autorità di chi potrebbe imporre “o riduci subito il carico o demolisci”, che si sente rispondere dal politico: “d’accordo, ma non subito”.
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8. Risolvere questo problema credo che sia molto difficile, perché, a mio modesto avviso, è un problema anzitutto culturale con radici legislative, accademiche e, in sostanza, di competenza e serietà professionale dei partecipanti all’intera catena decisionale.
Confesso che, da questo punto di vista, le prime reazioni istituzionali sono desolanti… credo che un modo sincero per onorare la memoria delle vittime di questa tragedia è di lavorare tenacemente per evitarne una ripetizione.
Acqua, umidità, carico giornaliero.. una situazione lasciata allo sbando, e quasi tutti i cavalcavia passanti al di sopra delle autostrade padane, (e non solo) sarebbero da controllare (al momento)
Quasi quasi, è capitata la stessa cosa a me, si è ritardato quanto è bastato, per evitare il maxitamponamento, con tanto di esplosione, sulla tangeziale bolognese.
(Raccordo Casalecchio A1-A14)
se non si prendono provvedimenti..
non si va da nessuna parte.
@ Claudio Giorgi
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Grazie per la testimonianza e per il contributo alla discussione. Grazie anche per la segnalazione di un altro ponte strallato di R. Morandi di cui ignoravo l’esistenza.
Ciao, Donato.
@ Luigi Mariani
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Caro Luigi, nel settore edilizio ed infrastrutturale le norme sono piuttosto precise ed abbastanza severe: conviene non sbagliare, altrimenti sono dolori. Il problema è essere pescati e, se succede qualcosa di grave, in genere si viene pescati e si paga (civilmente e penalmente). Deve succedere, però qualcosa di grave, come è accaduto a Genova e deve scapparci il morto. Altrimenti finisce tutto a tarallucci e vino.
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Una volta le opere pubbliche e private erano assoggettate al controllo formale e sostanziale di uffici pubblici (Genio Civile, Uffici tecnici comunali, provinciali e regionali, ANAS, ENEL, Ferrovie dello Stato, ecc., ecc.). Le opere realizzate, inoltre, venivano collaudate da funzionali pubblici. Oggi è tutto demandato alla responsabilità dei professionisti: se si è coscienziosi, va tutto bene, in caso contrario va tutto a rotoli. Il motivo deve essere ricercato nella necessità di accelerare le procedure, eliminare la burocrazia ed economizzare su tutto, anche sul tempo.
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Esiste un vecchio detto che recita: la moneta cattiva caccia la moneta buona. In campo infrastrutturale è accaduto proprio questo. La mancanza di filtri e controlli, ha consentito ai professionisti più spregiudicati di accaparrarsi incarichi di ogni tipo, alle imprese meno scrupolose di aggiudicarsi commesse milionarie e, chi ne ha pagato le conseguenze, sono stati i professionisti e le imprese che non hanno troppo pelo sullo stomaco: sono finiti fuori mercato.
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Un Paese degno di questo nome non può demandare ogni forma di controllo alla magistratura. Nei giorni scorsi avrai sentito parlare del parere sul progetto per la ristrutturazione del ponte Morandi di Genova: i commissari ministeriali si sono schermiti dicendo che non avevano le competenze tecniche per esaminare il progetto. Probabilmente è vero perché anche gli uffici del Genio Civile si limitano ad un controllo formale degli atti tecnici e restano a carico del progettista e del collaudatore tutte le responsabilità. Esse saranno accertate, però, solo se l’opera crolla o viene fatto qualche esposto. In caso contrario nessuno risponderà di nulla.
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Oggi i controlli più serrati riguardano l’impatto ambientale e gli interventi su immobili soggetti a vincoli artistici o archeologici. Tutte le problematiche legate alla sicurezza (sisma, incendio, infortuni vari) sono delegati a professionisti o imprenditori privati che solo in caso di incidente vengono inquisiti. Senza incidenti si limitano a fare soldi.
Ciao, Donato.
Quel maledetto 14 agosto dovevo passare per Genova alle 12.30, ma per un ritardo le cose sono andate diversamente. Alle 14, in area di servizio, vedo la notizia del crollo del viadotto. Il viadotto Polcevera??? Quello di Morandi??? Non può essere! Sono geometra e ingegnere (non civile, ma Scienza e Tecnica delle Costruzioni le ho fatte), ho passato la mia vita di adolescente in cantiere autostradale con mio padre, ho collaborato a costruire un viadotto di Morandi che oggi non c’è più (il Costaviola, sulla SA-RC poco prima di Scilla). Ho rotto centinaia e centinaia di cubetti, ho fatto il precompresso, ho usato tutti i macchinari di cantiere. Quella tecnica di costruzione la conosco molto ma molto da vicino. L’impressione di questo fatto per me è grandissima. Ho pregato per quelle povere persone (e cosa altro potevo fare?), che pena per loro! Da tecnico, prima ancora che da cittadino, spero che chi non ha fatto il suo dovere, chiunque esso sia (tecnico, amministratore, politico) venga punito a dovere. Ma spero anche che finalmente si prenda la consapevolezza che le costruzioni, soprattutto in c.a., non sono eterne. Purtroppo a tutti i livelli vedo che non è così. Ecco come è ridotto un ponte tra dei fabbricati per civile abitazione posti a meno di 1 Km da casa mia. Infine, una nota sull’ottimo articolo: mi risulta che ci sia ancora un ponte strallato progettato da Morandi in esercizio, sulla Roma Fiumicino, nell’ansa del Tevere
Immagine allegata
Forse sarebbe bene capire il carico che poteva affrontare la struttura. Forse la semplicità.. anziché inutili rococò è la scelta vincente..
Si intuisce che la struttura ha subito per forza alterazioni interne, magari quelle parti portanti che la sostengono..
Se esse si dilatano o si ritraggono, per forza il cemento si sbriciola, con due gocce d’acqua.. Senza tirare in ballo anomalie climatiche ed il solito “scarica-barile”.
Vediamo come andrà a finire.. sono solo ipotesi..
Nota tecnica.
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Non succede solo a me, dunque. Si comporta in modo davvero strano: a volte non fa niente, a volte sembra che non faccia niente, ma poi vedo che il mio commento arriva (come quello in risposta a Luca Rocca).
Caro Donato,
ti ringrazio per l’analisi accurata, appassionata e sofferta che hai fatto del problema. Da totale inesperto della materia, leggendo quanto hai scritto ne ricavo che nel nostro paese la cultura della manutenzione e delle scelte fatte al momento giusto è venuta meno da tempo, il che non è solo tragico per tutti quei poveri i morti ma anche perché demolisce in modo irrimediabile la nostra autostima. Da questo punto di vista mi viene da paragonare la vicenda a quella della Costa Concordia (un popolo che andava fiero di comandanti che affondavano con la loro nave ha scoperto che per una strana mutazione antropologica aveva ora a che fare con comandanti che fuggivano a terra lasciando nelle peste equipaggio e passeggeri).
Mi chiedo anche se al venir meno della cultura della manutenzione possa aver contribuito il fatto che nel nostro sistema di leggi e norme le responsabilità non siano sufficientemente chiare e definite. Se io fossi stato il responsabile di una struttura con tutte le magagne che aveva il ponte Morandi non avrei dormito la notte. Possibile che in tanti dormissero sonni tranquilli?
Grazie.
Luigi
@ Fabrizio Giudici
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Caro Fabrizio ti ringrazio per i complimenti e per le interessantissimi considerazioni che hai svolto sul problema della Gronda. Io ho potuto dedurre le problematiche relative alla nuova viabilità genovese da quanto sono riuscito a trovare in rete. Le tue sono, invece, testimonianze dirette, vissute in prima persona e, per questo, estremamente preziose. Contavo molto sul tuo contributo.
Ciao, Donato.
@ Luca Rocca
Luca (collega, mi sembra di capire) ti ringrazio per le tue considerazioni che confortano, per conoscenza diretta, quanto io posso solo intuire dalla letteratura sull’argomento.
Molto interessanti mi sono parse le tue considerazioni sulla sostituzione dei guardrail in acciaio con le barriere in calcestruzzo. Per una struttura estremamente deformabile come il viadotto Morandi e calcolata al limite consentito dalle norme, la sostituzione ha determinato un duplice contributo negativo: aumento del carico e riduzione della rigidezza. En plain!
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Molto interessanti anche le considerazioni sull’aggressività dell’atmosfera e sul cambio di paradigma relativo alle dimensioni delle strutture in C.A. che avvalorano quanto io ho scritto nell’articolo riprendendo R. Morandi.
Ciao, Donato.
@ robertok06
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Neanch’io! 🙂
Ciao, Donato
@ Rosa
Rispondo qui perché il pulsante rispondi “si rifiuta” di attivarsi.
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Gent.ma Rosa, la ringrazio per le sue puntuali precisazioni che integrano alla perfezione il mio scritto: non avrei saputo fare meglio.
Concordo, in particolare, sul giudizio circa la qualità della scuola ingegneristica italiana e sulle qualità del calcestruzzo “ben fatto”. Il grosso problema italiano è, però, in quelle due paroline: ben fatto, riferite al calcestruzzo.
La mia esperienza di calcestruzzi è diversa dalla sua, in quanto io lo utilizzo sui cantieri. Ho assistito a centinaia di getti, a tante di prove su provini cubici ed ho effettuato svariate campagne di indagini su calcestruzzi in situ (sclerometriche, prelievi di provini cilindrici e via cantando) e ho ordinato la demolizione di manufatti realizzati in assenza di controllo o in difformità dal progetto. Una volta mi rifiutai di collaudare la struttura di un edificio pubblico perché il solaio di primo impalcato era stato gettato a mia insaputa ed alla fine è stato demolito. Ho rischiato grosso, anche da un punto di vista fisico. Alla fine, però, l’ho spuntata e meno male perché il solaio era completamente privo di armature ed il calcestruzzo era stato gettato senza alcuna costipazione. Per tutto ciò non mi sento di esprimere un giudizio altrettanto positivo sui calcestruzzi utilizzati nei cantieri.
Sulla base della mia esperienza, il principale problema dei calcestruzzi è l’acqua, il secondo il tipo di inerti, il terzo il tipo di cemento ed, infine, le modalità di getto e manutenzione del manufatto in calcestruzzo.
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Con riferimento all’acqua parlo di quella di impasto, il famigerato rapporto acqua cemento. Allo scopo di aumentare la lavorabilità dell’impasto, è molto più conveniente aggiungere acqua all’impasto che un prodotto fluidificante. Il risultato è che scadono le caratteristiche meccaniche e aumentano paurosamente il ritiro del materiale e la porosità dello stesso.
Il calcestruzzo dovrebbe avere la consistenza della “terra umida” e superare la prova del cono di Abrahms, ma posso garantirle che ciò non accade quasi mai: appena ti allontani un attimo parte l’aggiunta d’acqua e la frittata è fatta. Non le nascondo che spendo buona parte del mio tempo in cantiere a pontificare sulla necessità di non aggiungere acqua al calcestruzzo nell’impastatrice ed a sorvegliare tutte le operazioni, ma alla fine qualcosa ti sfugge sempre, anche quando ritardi ad arte il prelievo del provino. E’ una lotta continua che non sempre si riesce a vincere.
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Gli inerti sono sempre più frequentemente calcarei, in quanto è quasi impossibile prelevare inerti silicei dai fiumi e dai laghi. Sono quasi sempre a spigoli vivi e ciò rende il calcestruzzo sempre meno vicino a quello ideale su cui sono basate le campagne sperimentali, utilizzate per la costruzione dei diagrammi sforzi-deformazioni consegnate nelle normative.
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Altro problema riguarda il cemento. Quello di uso più comune è il portland in quanto più economico. Dal punto di vista della durabilità del manufatto, sarebbe auspicabile l’utilizzo dei più costosi cementi pozzolanici o d’altoforno, ma nella continua ricerca della massima economia, dei ribassi d’asta a due cifre e via cantando, lo spazio per la qualità tende a latitare.
Mi è capitato di assistere alla demolizione di manufatti in calcestruzzo realizzato con inerti silicei a spigoli arrotondati di origine fluviale e cemento pozzolanico e di constatare la perfetta conservazione delle barre in acciaio: dopo quasi mezzo secolo dalla loro posa in opera, le barre lisce erano ancora intatte e prive di ogni segno di corrosione. La carbonatazione era quasi assente ed il calcestruzzo impermeabile. Non altrettanto può dirsi di manufatti costituiti da calcestruzzo confezionato con inerti calcarei e cemento portland in epoche molto più recenti.
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Grande differenza è fatta, infine, dalla protezione del calcestruzzo. Quelli a vista stanno facendo una fine pessima, miglior riuscita, invece, si può constatare per i calcestruzzi protetti con vernici filmanti impermeabili all’anidride carbonica ed al vapore acqueo.
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Ho confrontato il calcestruzzo antico con quello odierno e sono rimasto allibito: dopo duemila anni quello romano è ancora praticamente come nuovo.
Anche le malte dell’epoca sono meravigliose. Ho potuto visitare un ambiente ipogeo le cui pareti erano costituite da muratura ad “opus reticulatum” e che nel corso dei millenni era stato adibito ad ovile (fino ad una quarantina di anni fa) ed ho provato grande invidia constatando che la pietra calcarea e la malta sono state consumate in modo pressoché identico dal passaggio delle pecore! Non oso pensare a cosa succederebbe se si fossero usate malte come quelle attuali. Non per niente il calcestruzzo romano era a base di calce, pozzolana e inerti di vario tipo (inerti naturali, laterizi frantumati e, addirittura, pietra pomice quando serviva un calcestruzzo leggero), a conferma della superiorità del cemento pozzolanico su quello portland in quanto a durabilità.
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Come non concordare con lei, infine, sulla necessità di rovesciare il paradigma attuale: opere meno economiche, ma più durevoli. Basterebbe utilizzare acciai zincati, inossidabili, corten e la vita media delle strutture aumenterebbe fortemente. Basterebbe curare meglio, solo di poco, il confezionamento, il getto e la manutenzione del calcestruzzo e le opere sarebbero molto più durature.
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Il 90% delle opere che ho seguito, sono in calcestruzzo armato in quanto lo considero un materiale economico e strutturalmente valido, ma non posso nascondere che le caratteristiche del calcestruzzo che pongo alla base dei miei calcoli, sono diverse da quelle del calcestruzzo posato in opera. Me ne rendo conto quando vado a verificare, dopo qualche mese dal getto, le zone di mezzeria delle travi: quasi tutte presentano le tipiche microlesioni da ritiro. Ed io sono considerato un mastino nell’ambiente. Cosa succede quando i miei colleghi si accontentano delle foto dei ferri scattate dall’impresa? Tremo al solo pensiero.
Ciao, Donato.
@donato
“Alla fine arriveremo ad una verità giudiziaria (me lo auguro)”
Me lo auguro anch’io, ma non metterei la mia mano sul fuoco…
Gent.mo Ing. Barone, ho letto con interesse l’articolo e sento di dover fare alcune precisazioni, non sulle considerazioni strutturali né sulle considerazioni politiche, ma sul calcestruzzo, di cui ho una certa esperienza per ragioni professionali ed accademiche. Io non sono un ingegnere, ma un chimico dei materiali, quindi nulla posso dire sugli aspetti strutturali. Ritengo, per le mie frequentazioni che la “scuola d’ingegneria” italiana sia tra le più grandi nel mondo, non solo per le antiche tradizioni, ma soprattutto per aver fatto di necessità virtù. La scelta del calcestruzzo armato nasce soprattutto dalla scarsa disponibilità di acciaio, ma esso, se ben progettato e realizzato (ed è questa la vera questione), permette di ottenere strutture altamente prestazionali. Tutto deriva dalla qualità con cui si progetta, prepara e si getta il calcestruzzo. Vale anche ora che saremmo in grado di progettarlo per avere anche un valore ben preciso di creep (e ritiro) a tot anni. Negli anni 60 e 70, questa consapevolezza non c’era, o meglio le conoscenze sul materiale erano così poche che, per assurdo, per ottenere un “buon calcestruzzo” spesso si operava praticamente rendendolo meno buono. Faccio un esempio che non riguarda specificatamente il ponte Morandi, di cui non so nulla. Il boom economico di quegli anni spingeva ad adoperare molto cemento, la parte più costosa del cls, come garanzia di resistenza meccanica, ma dal punto di vista della durabilità quei calcestruzzi ricchi in pasta cementizia si sono rivelati i meno durevoli.
Il calcestruzzo è un materiale molto complesso, la cui progettazione oggi prevede di considerare il tempo utile d’esercizio, che nel caso di un ponte, azzardo, non dovrebbe essere meno di 100 anni. Nel caso del ponte Morandi saremmo ancora lontani, quindi sebbene all’epoca questo concetto non fosse così comune, farebbe pensare che qualche problema di durabilità dei materiali ci possa essere stato. Tra l’altro è verissimo che se immerso ed in coazione con un calcestruzzo impermeabile, l’acciaio non si corrode e diventa durevole almeno quanto non lo sia il calcestruzzo del suo intorno. Posso assicurare che la valutazione dello stato del materiale (acciaio e/o calcestruzzo) è sempre possibile e deve essere programmata. Sicuramente non è stata fatta in questo caso, probabilmente perchè è un costo. E qui arriverei ad un altro punto la questione dei costi, in un sistema che si è modificato dal keynesismo economico degli anni 60 al liberismo economico a partire dall’adesione al trattato di Mastricht (di cui invito a leggere almeno i punti programmatici preliminari: per me è stata una lettura sconvolgente in quanto del tutto contrari agli indirizzi di politca economica della nostra Costituzione). Quando si spostano i costi dallo Stato sovrano alle concessionarie (per quello che dovrebbe essere un monopolio naturale) private si fa un’operazione destinata a non consentire null’altro che i profitti dei concessionari. Non possiamo mettere in discussione la grandissima scuola di ingegneria italiana, solo perchè qualcuno se ne arricchisce alle spalle.
Ulteriore precisazione sui materiali, il calcestruzzo precompresso non si comporta proprio come il vetro temprato a rottura, per diverse ragioni tra cui la più importante è proprio il creep, che opera ai fini del rilassamento sin dal momento dello scassero. Oggi gli ingegneri specializzati in questo settore sono in grado di progettare i livelli di creep primario e secondario con elevata precisione.
Inoltre i ponti degli antichi romani oggi si sa che sono resistenti e durevoli non solo per la forma, ma anche e soprattutto per i materiali. Non posso scrivere un trattato sul calcestruzzo antico e su come si cerchi oggi di imitarlo il più possibile. Il calcestruzzo antico (quello che oggi è arrivato fin qui, naturalmente) è sostanzialmente una roccia artificiale, per quanto intrinsecamente fragile, ed è a quello che oggi una sana scuola di ingegneria dovrebbe puntare. Poi neanche le rocce naturali sono eterne, ma millenarie sì.
Cordialmente
Rosa Di Maggio
Studiai anche il il ponte Morandi , il mio professore di scienza delle costruzioni all’ epoca l’ottimo professore Edoardo Benvenuto lo portava ad esempio di una struttura progettata al limite delle capacità dei materiali, Morandi e gli ingegneri dell’ epoca attribuivano al calcestruzzo una durabilità ed una resistenza che già dieci anni dopo era rimessa in discussione. Il miglioramento dei calcoli strutturali e questa fiducia del materiale era basata sulle esperienze precedenti in cui il CA veniva usato con molta prudenza e ridondanza. Basta vedere li Silos Hennebique di Genova dove per solai con carico a 4 Tonnellate venivano usati pilastri di oltre un metro di lato con travi rovesce proporzionate, per luci non superiori ai 5 metri.
L’articolo riporta quasi fedelmente quello che ricordo dei miei corsi universitari solo due osservazioni personali. La prima è che il ponte fu costruito sulle cokerie delle acciaierie di Cornigliano. Se qualcuno vuole vedere gli effetti può passare da Via Guido Rossa E guardare i palazzi che erano di fronte alle Cokerie dell’ ILVA. Le lastre di marmo dei balconi sono letteralmente sciolte.
Il secondo fattore che nessuno ha citato è stata la sostituzione dei guardrail metallici con barriere Jersey in cemento, Sono circa 600 Kg a metro moltiplicate per3 ( le due laterali più lo spartitraffico) per un totale di 1,8 Tonnellate per ogni metro lineare di ponte praticamente come se una colonna di autoveicoli stazionasse ferma . I Jerey inoltre erano fissati all’ impalcato irrigidendo la struttura e cambiandone completamente il comportamento di fronte a carichi armonici.
Donato, applausi.
Oso aggiungere due brevi considerazioni.
La prima è generale, è un completamento di un aspetto della questione che hai già sottolineato. La parola che voglio usare è: hybris. Ci si dimentica sempre che la scienza e la tecnologia sono “trial and error” e che non si deve mai presumere di conoscere tutto in maniera definitiva in un certo momento. Quando si fa, si cade nel dogmatismo e ne nascono errori, perché poi non si vuol riconoscere che uno sviluppo delle conoscenze può mettere in una prospettiva diversa quello che si dava per certo. In epistemologia l’esempio tipico è quello della fisica classica vs relativistica. Ecco quindi spiegato il motivo per cui chi osò contestare le certezze di Morandi non è stato preso sul serio. Evidentemente questa constatazione vale in tutti i campi, compresa la climatologia.
La seconda è una questione puntuale, a cui però tengo. Anche per convenienze politiche, si tenta di far passare il concetto “se fossero partiti i lavori per la Gronda, questa non sarebbe stata ancora completata e dunque non si sarebbe evitato il dramma”. Beh, è falso. Come è stato spiegato ieri sui media, la Gronda richiederà circa dieci anni per essere completata, un tempo lungo; però non si ribadisce che se ne iniziò a parlare a metà anni ’80, quando era già chiaro che il nuovo porto di Voltri avrebbe richiesto maggiori infrastrutture viarie. A dire il vero, a metà anni ’80 c’era già un progetto pre-finanziato (anche se molto più riduttivo dell’attuale progetto di Gronda), che fu cassato per i primi contestatori che si rivolsero al TAR. Ora, quel progetto poteva avere tutti i limiti che volete; diciamo però che quindici anni avrebbero dovuto essere più che sufficienti per formulare un progetto definitivo. Questo vuol dire che i lavori avrebbero potuto partire nel 2000, ed oggi sarebbero stati completati da sette anni (o quei sette anni avrebbero comunque potuto compensare ritardi anche cospicui). Invece è stato un susseguirsi di discussioni inutili, anzi, i famosi “tavoli di discussione” che sono l’unico prodotto tangibile che una certa classe politica è in grado di creare.
Con la Gronda oggi la città non sarebbe paralizzata e non correrebbe il grave rischio economico che purtroppo ora corre.
Ma, forse, si sarebbero evitati anche i morti. Perché si capisce bene già da oggi che vari fattori hanno ritardato il cantiere che avrebbe dovuto mettere in sicurezza il Ponte Morandi: quale precisa commistione di noncuranza, incoscienza, superficialità, fatalità, eccetera lo sapremo al termine delle indagini; tuttavia è chiaro che nella questione influisce pesantemente l’essenzialità di quel ponte. Se già ci sono questioni culturali (l’hybris precedentemente citata) a ostacolare le posizioni di chi aveva detto “demolitelo e ricostruitelo”, è chiaro che queste venivano rafforzate dalla constatazione che fintanto che quel ponte rimaneva l’unico asse viario, la demolizione e ricostruzione era molto difficile da attuare.
Il progetto della gronda è precedente agli anni ottanta e’ contemporaneo al primo piano regolatore di Genova: Delibera del 1976 ed approvazione del 1980. Ho avuto in mano la cartografia originale , Le prime ipotesi di tracciato dovrebbero essere fra il 72 ed il 74. All’ epoca era visto anche come la possibilità di fornire una viabilità alle opere di edilizia popolare di Begato che erano in fase di progettazione.
Il percorso burocratico non fu fermato solo dal’ opposizione popolare ma soprattutto dal fatto che il tratto di autostrada da Genova ovest a Genova Pra che sarebbe stato sostituito dalla gronda, avrebbe dovuto essere ceduto al comune per la realizzazione di una circonvallazione urbana . Visti i costi di manutenzione le varie giunte non furono mai state entusiaste di questa iniziativa.
Ci fu , anche se per un breve periodo durante la giunta Vicenzi , l’ipotesi di doppiare il ponte Morandi con un opera parallela ( L’ipotesi uno definita durante il dibattito pubblico negli anni 90)
Grazie Luca. Dunque, la discussione a vuoto è durata anche più a lungo…