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Global Warming, più dei SUV poté la zappa

Domanda: in termini di raccolta differenziata, dove potrebbero andare i modelli climatici? Escludiamo il riciclaggio, perché ne abbiamo visto già abbastanza, quindi resta una sola opzione… la discarica o l’inceneritore. Già perché viene il sospetto che molti non sopravvivranno al paper che vi segnalo oggi.

The mark of vegetation change on Earth’s surface energy balance

C’è qualcuno, come Roger Pielke Sr., che lo va dicendo da tempo: le alterazioni del bilancio radiativo dovute alle variazioni dell’uso dei suoli sono largamente sottostimate, a tutto vantaggio, indebito, di un mondo che funzionerebbe a CO2. Non è così, e oggi c’è lo ricorda questo lavoro del Joint Research Center dell’Unione Europea, appena pubblicato su Nature Communication.

Variazioni non solo riferite alla eliminazione della vegetazione, ma anche e soprattutto alla sua sostituzione, come ad esempio il passaggio dalla vegetazione spontanea alle coltivazioni. Leggendo i numeri che scaturiscono dalla loro analisi – che ha utilizzato dati relativi ai primi 15 anni di questo secolo, a più di qualcuno verrà il grattacapo.

Ma mi preme porre un quesito. Pare che questo effetto sia particolarmente significativo nelle aree tropicali, per la crescita recente della coltivazione intensiva. Come conciliare quindi la necessità di aumentare la produzione di cibo per far fronte alla crescita demografica e, contemporaneamente, prediligere modelli di coltivazione cosiddetta sostenibile che richiedono un raddoppio se non più della terra utilizzata rispetto alla coltivazione intensiva sviluppatasi negli ultimi decenni?

Si attendono risposte coerenti.

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Published inAttualità

7 Comments

  1. Ciao Guido, sempre sul pezzo eh!
    Sappiamo tutti bene gli importanti limiti dei modelli e quanto questi studi stanno costando alla società. Sappiamo anche da tempo (lo avevano già notato i colonizzatori nel settecento) che la deforestazione ha profonde conseguenze anche sul clima non solo per il ciclo del carbonio, ma anche e forse soprattutto per quello dell’acqua, molto difficile da studiare.
    Quindi un approccio scientifico è innanzitutto studiare il passato per cercare di pianificare uno sviluppo sostenibile.
    Recentemente abbiamo pubblicato su Scientific Reports ( https://www.nature.com/articles/s41598-018-20286-4 ) e su Plant Biosystems ( http://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/11263504.2018.1435582 ) la ricostruzione paleoecologica delle trasformazioni dei territori forestali dell’Appennino negli ultmi 2500 anni dimostrando in modo quantitativo come nel corso della storia abbiamo perso, o comunque semplificato, la funzionalità ecologica di vaste foreste. Soprattutto abbiamo dimostrato che il paesaggio cambia con la società verso forme via via più “degradate” a causa delle profonde modificazioni ambientali, con una importante accelerazione dei processi di degrado verso ecosistemi più resistenti alla siccità in epoca moderna. In questi processi, le variazioni climatiche sembrano avere un effetto molto secondario sulla dinamica degli ecosistemi, innazitutto quelli forestali. INGV, che ha curato la datazione paleomagnetica, ha anche lanciato dei comunicati stampa sul tema, ma tutto è passato inosservato. Chissà perchè?!
    In relazione al pezzo in discussione, con le varie campagne di bonifica in epoca moderna abbiamo distrutto tutte le foreste umide e mesofile e poi ci domandiamo perchè nelle città, che abbiamo costruito ed espanso in quei luoghi, o in prossimità delle vaste aree una volta paludose e densamente forestate la temperatura sia aumentata! Pensiamo al litorale romano o pontino e agli effetti sul clima della Capitale.
    Il governo sta varando in questi giorni una nuova legge per rilanciare l’economia con il taglio dei boschi, anche con la scusa di mitigare i cambiamenti climatici e aumentare i servizi ecosistemici. Abbiamo prodotto delle osservazioni sul tema, basate proprio su principi dell’ecologia come quelli studiati nel presente articolo, ma penso inutilmente…
    Grazie a tutta la redazione per l’interessante e accurato lavoro multidisciplinare che portate avanti da anni!

    Immagine allegata

  2. Luigi Mariani

    Caro Guido,
    Una cosa non mi torna e si lega al fatto che dagli anni ‘60 ad oggi gli aggiustamenti delle aree coltivate sono assai limitati, ed in effetti nell’articolo si parla di un passaggio netto a superfici coltivate di 22 milioni di ettari – figura 5 – mentre la superficie globale coltivata (arativi + colture permanenti) assomma a 1,5 miliardi di ettari (rispetto a cui 22 milioni sono solo l’1,5%).
    Peraltro il grosso del cambiamento nella superficie coltivata è avvenuto dal 1700 al 1960, come mostra il diagramma allegato riferito al periodo che va dall’alto medioevo (800 dC) al 2010 e che ho ottenuto da dati di più fonti. In esso le barre verdi indicano le superfici ad arativo mentre la linea blu indica il trend nelle aree irrigue.
    E qui esprimo il mio dubbio: se il passaggio a crop di 22 milioni di ettari ha dato il rilevante effetto descritto dagli autori, cosa sarà mai capitato fra 1700 a 1960 quando la superficie coltivata è passata da 300 milioni a 1,4 miliardi di ettari?

    Immagine allegata

    • Maurizio Rovati

      Sospettavo fosse così. Dietro l’angolo si cela il fantasma dell’impatto demografico per cui è necessario decimare la popolazione umana, senza se e senza ma e senza nulla togliere alla “dannata” CO2.

    • donato b.

      Caro Luigi, la tua disamina è veramente interessante e, se tanto mi dà tanto, anche la tua domanda finale è gravida di conseguenze. Potremmo giungere alla conclusione che tutto il riscaldamento globale sia imputabile alla variazione d’uso dei suoli. Non credo che sia così, ma la cosa rende ancora più sorprendente il nostro grado di ignoranza dei meccanismi, dei feedback e della complessità del sistema climatico terrestre. Alla faccia della scienza definita!
      Ciao, Donato.

  3. donato b.

    Dopo aver dato un’occhiata all’articolo. vorrei sviluppare un paio di considerazioni.
    La prima riguarda il grado di conoscenza del sistema climatico: non posso fare a meno di meravigliarmi della nostra ignoranza. Anche gli autori dello studio hanno dovuto definire “sorprendenti” le conclusioni a cui sono giunti. Proseguendo su questa strada è sorprendente, per quanto mi riguarda, la conclusione che il riscaldamento regionale, conseguente alla variazione dell’uso del suolo, è di circa due decimi di grado negli ultimi quindici anni. Sarebbe scorretto dire che un quarto dell’intero riscaldamento globale è da imputare all’uso del suolo, ma, fatte le ovvie proporzioni, ne rappresenta una significativa aliquota.
    .
    Altro aspetto sorprendente dell’articolo è la conclusione che i modelli climatici non riescono a tenere conto di questo contributo al bilancio radiativo a causa dell’ampiezza delle maglie della griglia d’integrazione. Trattandosi di un contributo rilevante, ho l’impressione che il margine d’incertezza introdotto da questo fatto nei modelli, sia di entità non trascurabile .
    .
    L’ultima considerazione riguarda il problema sollevato dalla domanda finale di G. Guidi. Mi sembra ovvio che l’unica risposta che riesca a tenere insieme le conclusioni dello studio e le esigenze alimentari del genere umano, sia l’agricoltura intensiva, quella che consente, attraverso l’uso di anticrittogamici, cultivar moderne, insetticidi e concimi di sintesi, di ottenere altissime rese unitarie. Utilizzando organismi geneticamente modificati o ibridi particolari si potrebbe fortemente ridurre l’uso dei pesticidi, ma questo innesca altre polemiche e preferisco finirla qui.
    L’alternativa sarebbe utilizzare una quantità molto più elevata di suolo che comporterebbe, però, maggior disboscamento proprio nelle aree critiche per l’aumento della temperatura della superficie terrestre. E la cosa non mi sembra praticabile.
    Ciao, Donato.

  4. Giusto Buroni

    Attenzione a sollevare incautamente problemi alimentari da risolvere con sostanze non tradizionali per noi “occidentali”, e per me schizzinoso! Ritengo necessaria un’energica immediata opposizione da parte di esperti del settore agricolo e di nutrizionisti. Molte imprese, con l’appoggio dei sempre più ingombranti Cinesi, sono già pronte a commercializzare lombrichi e insetti e altre rispettabili e ecosostenibili schifezze, crude o cucinate, il cui consumo, dicono, risolverebbe un sacco di problemi ecologici, in particolare l’eccessivo consumo di acqua richiesto dall’allevamento dei bovini. Il successo dei Vegani insegna. Cordialmente. Giusto Buroni (quasi vegetariano per motivi di salute, ma ancora “civile”)

    • Fabrizio Giudici

      De gustibus etc…, ma confermo che anch’io non sono interessato a grilli e lombrichi.

      Mi chiedo però: abbiamo stabilito per legge (o per sentenza, la sostanza non cambia) che le aragoste devono essere soppresse pietosamente. Suppongo quindi che anche i grilli fritti vengano soppressi pietosamente, uno per uno, con… ecco, non so come si sopprima pietosamente un grillo.

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