Un fattore causale essenziale per spiegare il rischio idrogeologico per le valli dell’Appennino Emiliano è costituito dalla struttura del reticolo idrografico appenninico, caratterizzato da bacini relativamente piccoli e con tempi di corrivazione molto ridotti, il che significa rapida formazione delle piene ed elevati valori delle portate al colmo. Ciò spiega le periodiche e rovinose alluvioni come ad esempio quelle del Reno del 1889, del 1966 e del 1996 o quella della Trebbia e del Nure del 14 settembre 2015 (Climatemonitor, 14 settembre 2015).
Circa l’evento alluvionale che il 12-13 dicembre 2017 ha interessato la parte pianeggiante del bacino dell’Enza e più precisamente le località di Lentigione di Brescello e di Santa Croce di Boretto (fonte), è utile segnalare la pluviometria in figura 1 tratta dal sito del servizio Meteorologico Regionale dell’Emilia Romagna e che mostra livelli di pioggia di tutto rispetto caduti in corrispondenza con lo spartiacque fra i bacini emiliani e quelli liguri e toscani, con un massimo di oltre 220 mm in 48 ore (zona in azzurro nell’immagine) caduto grossomodo in corrispondenza con la testata della val d’Aveto, in un’area peraltro accreditata di massimi pluviometrici di oltre 300 mm in 24 ore (fonte: Lino Cati, 1981. Idrografia e idrologia del Po, Poligrafico dello Stato – pagina 65). Nel bacino dell’Enza i massimi sono invece risultati in 48 ore fra 100 e 150 mm (zona in rosso nell’immagine) contro valori massimi assoluti che lo steso Cati (pagina 63) quantifica in 410 mm in 48 ore.
Veniamo poi al dubbio che molti hanno espresso rispetto all’anomalia di una transizione brusca da un’estate siccitosa a un autunno prono alle alluvioni. Penso che tale fenomeno sia conseguenza dei caratteri di mediterraneità sostanziale del nostro clima, che si caratterizza per la vicinanza di un bacino (il Mediterraneo) che è fonte di masse d’aria caldo-umida e per la presenza di meccanismi molto efficaci in grado di far salire tale massa d’aria provocando la condensazione del vapore con produzione di precipitazioni di forte intensità da sempre note come rovesci (showers in lingua inglese) e che oggi, grazie a una martellante campagna televisiva divulgatrice di ignoranza, vengono dai più chiamate “bombe d’acqua”. Fra i meccanismi di salita dell’aria rammento ad esempio l’instabilità sinottica (scorrimento dell’aria calda su un materasso d’aria più fredda di origine atlantica, artica o polare continentale) e l’instabilità orografica (scorrimento dell’aria calda sulle pendici del massiccio alpino o appenninico).
Ritengo inoltre fuori luogo chiamare in causa il cambiamento climatico. Da questo punto di vista, oltre a richiamare i succitati massimi pluviometrici registrati per la valle dell’Enza in 48 ore e che, come abbiamo visto, sono ben lontani dai massimi assoluti, posso segnalare:
- La sostanziale stazionarietà nel numero delle grandi piene che periodicamente colpiscono il più grande bacino italiano, il Po, e che mi risultano essere state 21 nel XIX secolo (1801, 1802, 1803, 1807, 1808, 1810, 1811, 1812, 1823, 1839, 1839, 1840, 1841, 1843, 1846 primavera, 1846 autunno, 1857, 1868, 1872, 1879), 17 nel XX secolo (1907, 1914, 1917, 1926 maggio, 1926 novembre, 1928, 1937, 1949, 1951, 1953, 1957, 1959, 1966, 1968, 1976, 1994, 2000) e due nel XXI (2002 e 2009).
- L’alluvione di Genova del 1970, avvenuta in un periodo in cui le temperature globali erano in calo e che ciò nondimeno fu frutto di un evento precipitativo in cui, come documentò Lino Cati nel succitato Idrografia e idrologia del Po (pagina 65) in 2 stazioni del bacino del fiume Polcevera (Bolzaneto e Valleregia) furono misurati rispettivamente 948 e 932 millimetri di pioggia in 24 ore, la quantità che di norma cade in 1 anno.
- Il fatto che la Piccola Era Glaciale, periodo freddo compreso fra fra il XVI e la metà del XIX secolo, si contraddistinse per l’elevata frequenza di alluvioni, come attesta ad esempio questo lavoro scientifico riferito alle Alpi francesi: Wilhelm, B., Arnaud, F., Sabatier, P., Crouzet, C., Brisset, E., Chaumillon, E., Disnar, J.-R., Guiter, F., Malet, E., Reyss, J.-L., Tachikawa, K., Bard, E. and Delannoy, J.-J. 2012. 1400 years of extreme precipitation patterns over the Mediterranean French Alps and possible forcing mechanisms. Quaternary Research 78: 1-12.
La morale che si può trarre dai dati che ho sommariamente illustrato è che da un lato è fuori luogo utilizzare ad ogni piè sospinto la “foglia di fico” del cambiamento climatico e dall’altro che occorra una forte dose di consapevolezza perché solo dalla conoscenza del nostro clima e dei suoi caratteri medi ed estremi è possibile una convivenza felice, la quale non può in ogni caso prescindere dal prestare moltissima attenzione ai seguenti aspetti:
- La stabilità degli argini, e qui ricordo l’alluvione del fiume Secchia del 19 gennaio 2014 (Climatemonitor 10 Novembre 2015) in cui ebbero un ruolo primario animali (volpi, tassi, istrici, nutrie) che costruiscono le loro tane negli argini, minandone la stabilità. In proposito, fermo restando il mio massimo rispetto per questi “simpatici” animali, ricordo che sugli argini non ci dovrebbero mai e poi ma i stare
- La pulizia degli alvei che dovrebbero essere tenuti sgombri da alberi, ghiaia e quant’altro possa ostacolare il deflusso delle acque. Ricordo che fino a non molti anni orsno erano le popolazioni locali che facevano legna ad evitare l’accumulo di tronchi d’albero, e forse oggi questa millenaria tradizione fatta tramontare a colpi di divieti potrebbe forse trovare nuovi interpreti
- Un sistema di allerta delle popolazioni che consenta di mettere al riparto con tempestività i beni e le vite umane
- La realizzazione di casse d’espansione atte a favorire l’invaso delle acque di piena rallentandone sensibilmente il deflusso verso la pianura.
Infine a testimonianza delle tante alluvioni del passato e della generosità dei milanesi nei confronti delle vittime di tali eventi richiamo all’attenzione dei lettori il dipinto di Giacomo Campi dal titolo La passeggiata di beneficenza pro inondati di Verona, 1882 Milano, Civiche Raccolte Storiche (in copertina – fonte) e che immortala la passeggiata benefica tenuta il 24 dicembre 1882 in Corso Garibaldi a Milano a favore degli alluvionati veronesi.
NB: il post è uscito in origine su La nuova Bussola Quotidiana
Buon Giorno,
trovo completa e ben descritta la situazione dell’evento,
manca solo la temperatura, che in quota era elevata come descritto nel link
http://www.reggioemiliameteo.it/stazioni-meteo-camporella.php
Circa i commenti legati alla pulizia degli alvei sono convinto che come in tutte le cose vi sia una questione di misura.
C’è però una cosa che non mi torna nell’alluvione dell’Enza: sul Corriere della Sera del 13 dicembre a pagina 21 esce l’articolo a titolo “In 36 ore caduta metà della pioggia di un anno. Argini, lavori in ritardo: speso solo il 20% del fondi”.
E quel che non mi torna non è tanto quel “In 36 ore caduta metà della pioggia di un anno”, da leggere come una delle tante bufale di un sistema giornalistico che prima di inscenare campagne contro le bufale che si trovano sulla rete farebbe meglio a guardare alle proprie magagne (il bacino dell’Enza è accreditato di quantità di pioggia media annua che vanno da 600 a 1500 mm e se la carta che riporto parla di punte di 100-150 mm in 48 ore non so dove stia di casa quella “metà della pioggia di 6 mesi”).
Quel che mi disturba di più è che secondo i dati riportati da Cati le piogge cadute nelle 48 ore nella parte alta del bacino dell’Enza sono meno della metà di quelle massime attese per il bacino dell’Enza (100-150 contro 410), per cui dovrebbe trattarsi di un evento governabile perché rientra nella climatologia dell’area senza bisogno di tirare in ballo i perfidi cambiamenti climatici antropogenici. Invece nell’articolo del Corriere si riporta la seguente frase dell’Ing. Ivano Galvani dell’AIPO “in questi 4 anni abbiamo dovuto riformulare i progetti alla luce dei cambiamenti climatici e della morfologia del territorio”.
Cosa dedurre da tutto ciò? Forse che i cambiamenti climatici diventano un’ulteriore ragione per posticipare lavori necessari per rendere il territorio compatibile quantomeno con la climatologia attuale delle precipitazioni, alla luce del fatto che i dati di Cati si riferiscono credo alla climatologia del cinquantennio 1921-70?
“Cosa dedurre da tutto ciò? Forse che i cambiamenti climatici diventano un’ulteriore ragione per posticipare lavori necessari per rendere il territorio…”
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A pensar male si fa peccato, ma….! 🙂
Forse a giustificare una variante dei lavori che è proibita per legge, ma può essere giustificata da cause imprevedibili al momento della redazione del progetto. Cosa di più imprevedibile del cambiamento climatico e delle bombe d’acqua? Chi oserebbe indagare ulteriormente di fronte al fatto che la variante viene giustificata invocando il perfido cambiamento climatico di origine antropica e, quindi, imprevedibile?
Meditate gente, meditate (e non dimenticate di seguire il flusso del denaro e che la mia è solo una remota ipotesi)! 🙂
Ciao, Donato.
E i progetti dovrebbero essere riformulati con persone che conoscono la storia del luogo e abbiano un’esperienza diretta con questo tipo di “lavori verdi”.
Ormai si è talmente rivolti verso una politica urbana che nemmeno si è capaci a dirigere o a fare “lavori verdi”, è la realtà e qualcuno ci vorrebbe far credere che sono dei capaci…
Per rendersi conto a che livello sono coloro ai quali è consentito operare sui fiumi per pulire i corsi d’acqua:
mentre si pulisce il fiume si trova un foro sull’argine praticato da volpe,istrice,tasso o nutria,cosa si fa? Incredibilmente si va a guastare l’alveo per distruggere la tana e intanto si dissoda l’argine e il giorno dopo l’animaletto trovando il terreno dissodato ne fa una più lunga e profonda. Spesso chi opera non ha proprio nemmeno il minimo di esperienza e bisognerebbe iniziare a far capire che i lavori verdi sono lavori per chi è in grado di farli.
L’effetto degli ecologisti sulla gestione dei fiumi è secondario,il primo problema’ la burocrazia
Se prendo un secchio di ghiaia da un fiume e me lo carico in macchina per farmi un vialetto divento ladro di beni demaniali se lo compro diventa un prodotto normalissimo ma se lo tolgo dal mio vialetto e lo ributto nel fiume diventa inquinamento di falde acquifere.
Bella questa del secchio di ghiaia!!
Hai centrato il problema.
Esiste, però, e dobbiamo riconoscerlo, anche il rovescio della medaglia. Quando il prelievo degli inerti dai corsi d’acqua naturale è stato indiscriminato, ha prodotto danni ambientali immensi.
Il problema è che noi non siamo capaci di mezze misure: dallo sfruttamento indiscriminato e criminale, siamo passati all’intoccabilità totale degli alvei dei fiumi. Possibile che non riusciamo a trovare il giusto mezzo?
Ciao, Donato.
Gli animalisti stanno facendo molti danni.
Salvamondisti anche loro col prosciutto sugli occhi.
Pur senza essere un tecnico nè un conoscitore, sono sempre rimasto molto affascinato dalla larghezza degli alvei dei fiumi appenninici, soprattutto rispetto ai magri rivoli.
Mi ricordo di quando a Fornovo Taro , durante i tre mesi di militare passatì colà, guardavo curioso questo fiume così largo in alcuni punti e così scarso di acqua, nonostante in quel periodo il tempo non fosse certo siccitoso o si fosse in piena stagione estiva di secca (era marzo, aprile e maggio).
Ora, credo che se un alveo è così largo e per così tanta parte privo di ogni tipo di vegetazione, da ignorante ne deduco che, evidentemente, spesso e volentieri il fiume si espande in quei settori che ora paiono così lontani; e che, oltretutto, lo faccia con forza dirompente, non con acqua cheta, al punto da impedire alle piante di mettere radici stabili.
Certo gran parte dei danni causati dalle piene derivano dalla immensa idiozia, normata spesso come divieto!!, di non pulire i fiumi dai rami e tronchi (magari per non disturbare il pesciolino autoctono delle pozze…).
Ricordo benissimo che l’alluvione del Tanaro ad Asti del 1994 fu favorita dall’essere il fiume (e gli affluenti, va da sè) pieno zeppo di detriti e carcasse, che divennero come degli arieti, danneggiando soprattutto i pilastri dei ponti e gli argini.
Per non parlare dei fenomeni (e chi diede loro il permesso, beninteso) che costruirono le case nelle aree golenali del Po e del Ticino, salvo poi lamentarsi e piangere che il fiume in piena le aveva riempite (chissà come mai…). Ovvio che sia più semplice dare la colpa a Trump che non firma le COP……