La meteorologia europea e araba prima del 1200
Nel periodo antecedente il 1200 la coscienza della centralità della meteorologia nella filosofia della natura che derivava dai classici fece sì che molti autori si cimentassero nell’argomento, fra cui Isidoro di Siviglia (560-636) nella prima enciclopedia del medioevo, le Etymologiae, il Venerabile Beda (673-735) nel De Rerum Natura, Guglielmo di Conches (1080-1145) nel De philosophia mundi e Adelardo di Bath (1080-1152) nelle Naturales questiones e lo pseudo-Beda (XII secolo) nel De mundi celestis terrestrisque constitutione, Tali autori si dedicarono a temi quali i venti, i temporali, i fulmini, le maree, le alluvioni e la suddivisione del mondo in fasce climatiche, utilizzando lo schema secondo già presente nella climatologia antica e secondo cui il mondo sarebbe stato suddiviso in 5 zone climatiche (una intermedia torrida, due zone abitate e sue zone di freddo estremo. Si noi inoltre che questi autori svilupparono il proprio pensiero senza avere diretto accesso ai testi di Aristotele e dunque attingendo ai testi di autori del tardo Impero, alla versione abbreviata del Timeo di Calcidio (IV secolo) o forse a fonti arabe (Glick et al., 2005).
Anche i filosofi islamici legati alla falsafa, corrente filosofica ispirata dalla tradizione greca, scrissero parecchio di meteorologia e come esempi possiamo citare il 5° libro del Kitab al-Shifa di Ibn Sina (Avicenna – 980-1037), i commmentari sulla meteorologia di Ibn Rushd (Averroè – 1126-1198) e il commentario di meteorologia di Ibn Bajja (Avempace – 1095-1138). Gli autori arabi svilupparono interpretazioni basate non solo su Aristotele ma anche sugli scritti di meteorologia di Olimpiodoro (VI secolo d.C.) e di Alessandro di Afrodisia (II – III secolo d.C.). In tal senso se Averroè tentò di riconciliare Aristotele e Alessandro di Afrodisia mentre Avicenna si mostrò più critico introducendo spiegazioni aggiuntive ispirate dall’esperienza e non conformi agli antichi testi. Ambedue i loro lavori furono tradotti in latino e influenzarono gli autori cristiani (Glick et al., 2005).
In tema di adesione più o meno acritica al pensiero degli antichi da parte degli intellettuali arabi dle medioevo giova ricordare quanto emerge traspare dal trattato di agricoltura di Ibn al Awwam, il più vasto compendio del sapere agronomico della scuola arabo – andalusa, pubblicato intorno al 1150. In tale opera infatti si propugna l’adozione di un metodo sperimentale moderno in base al quale la valutazione di quanto indicato dai testi agronomici antichi (Magone cartaginese, Columella, i geoponica, ecc.) è seguito dalla sperimentazione in parcelle in vista del trasferimento in pieno campo. In tal senso è sintomatico che Ibn al Awwam scriva ripetutamente che “nessuna indicazione è data nel mio lavoro che io non l’abbia verificata nella pratica più volte”.
La meteorologia europea dopo il 1200
Dopo il 1200 gli autori europei possono disporre della traduzione il latino dei meteorologica di Aristotele e l’inglese Alfredo di Sareschel (XII – XIII secolo) scrive un primo commento a tale opera, che entra a far parte dei curricula universitari (Glick et al., 2005). Il successo dell’opera di Aristotele è testimoniato dagli oltre 100 commenti fioriti fra 1200 e 1500, fra cui spiccano quelli di Alberto Magno (1206-1280), Tommaso d’Aquino (1225-1274), Pietro d’Alvernia (1240 – circa 1300), Nicola Oresme (1323-1382), Walter Burley (1275 – 1345), Pierre D’Ailly (1350-1420) e Biagio da Parma (1355-1416). Inoltre alla corte cosmopolita dell’imperatore Federico II, centro di cultura scientifica di alto livello, Michele Scoto (1175-1232) compose il suo Liber introductorius, che tratta temi di astrologia, meteorologia, medicina, musica, computo, zoologia e fisiognomonia mentre in lingua francese viene pubblicata L’image du monde di Gossuin de Metz (XIII secolo), la cui prima versione data al 1246 e che è ispirata in parte all’Imago mundi di Onorio di Regensburg. L’opera si presenta come un’enciclopedia versificata in 6600 ottonari e prende in considerazione, in tre parti, i principî della scienza, la geografia e la meteorologia e infine l’astronomia.
Con riferimento al medioevo si deve altresì citare l’opera dell’inglese William Merle, rettore di Driby, autore di un diario meteorologico sistematico riferito a solo sette anni di registrazione di dati meteorologici (1337 – 1344). Il Merle oltre a ciò scrisse un trattato sulla previsione del tempo, rifacendosi a varie fonti esistenti, da Aristotele a Virgilio, da Plinio a Tolomeo (Baroni, 2007).
Limiti e pregi della meteorologia medioevale
In complesso dunque la meteorologia medioevale tende in prevalenza a riproporre gli schemi già in uso nel mondo antico e soprattutto tratti da Aristotele o dai suoi commentatori antichi. Tuttavia qualcosa di nuovo rispetto al mondo antico certamente vi fu e ne è la prova la scoperta dell’America nel 1492 da parte di Cristoforo Colombo (1451-1506), impresa che si fondò sulla conoscenza realistica del regime del vento ai tropici (alisei) ed alle medie latitudini (grandi correnti occidentali) che solo nel medioevo era stata conseguita. Peraltro Colombo nel corso del suo secondo viaggio (1494) fece esperienza di un ciclone tropicale nell’oceano Atlantico e il suo è il primo resoconto scritto di un simile evento in ambito Europeo (Morison, 1942).
Il medioevo, specie dopo l’anno mille, fu anche un periodo storico ricco di invenzioni (si pensi alla bussola, alla carta, all’aratro rivoltatore e al collare per il traino equino). Per quanto attiene alla meteorologia, nel 1450 Leon Battista Alberti (1404-1472) descrive per primo un anemometro munito di una tavoletta mobile la cui inclinazione dava una misura della forza del vento (Museo virtuale Galileo, 2017)[1]. Inoltre Nikolaus Krebs von Kues (Nicolò Cusano – 1401-1464) alla luce delle proprietà igroscopiche della lana propose di costruire un igrometro basato sulla pesatura della lana con una bilancia mentre lo stesso Leon Battista Alberti propose di utilizzare una spugna in luogo della lana, idea questa che sarà poi riproposta da Leonardo da Vinci (Museo virtuale Galileo, 2017, b).
[1] le banderuole erano invece già note nell’antichità, tant’è vero che un altro grande studioso di architettura, Marco Vitruvio Pollione (80-15 a.C.) ne descrive una nel suo de Architectura.
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