Critica ai filosofi della natura
Aristofane (450-385 a.C.), nella sua commedia Le nuvole, sviluppa una critica severa nei confronti dei filosofi della Natura, il che suggerisce che la speculazione sui fenomeni naturali atmosferici occupasse una posizione di rilievo nelle attività di Socrate e dei sofisti. Peraltro lo scritto di Aristofane attesta l’esistenza di un vero e proprio pregiudizio popolare contro i meteorologi, di cui ci riferiscono anche il frammento di un’opera del tragico ateniese Euripide in cui un personaggio parla delle “ingarbugliate menzogne dei meteorologi” e un brano del poeta comico Eupoli (446-411 a.C.) che, deride i meteorologi definendo “mangiatore di polvere” un personaggio, vano declamatore degli oggetti celesti. Anche qui dunque nulla di nuovo sotto il sole, se si rammenta ad esempio l’ironia che suscitavano le non sempre precise previsioni meteorologiche dei primi meteorologi televisivi.
Il sofista Gorgia (485-375 a.C.) riassume con chiarezza il nodo centrale del problema nel seguente frammento tratto dall’Encomio di Elena, in cui pone l’accento sul ruolo centrale svolto dalla retorica e dal potere di persuasione nelle spiegazioni di ciò che in definitiva è inverificabile: “E poiché la persuasione, congiunta con l’argomentazione (lógos), riesce a dare all’anima l’impronta che vuole, bisogna apprendere anzitutto i ragionamenti dei meteorologi, i quali sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un’altra, fanno apparire agli occhi della mente l’incredibile e l’inconcepibile; in secondo luogo, i dibattiti oratori di pubblica necessità, nei quali un solo discorso non ispirato a verità, ma scritto con arte, suole dilettare e persuadere la folla; in terzo luogo, le schermaglie filosofiche nelle quali si rivela anche con quale rapidità l’intelligenza facilita il mutar di convinzioni dell’opinione” (Vallance, 2011).
La visione pratica di marinai, agricoltori e medici
All’indagine sulle cause che caratterizza i filosofi della natura fa certamente da contraltare un sapere meteorologico pratico, trasmesso per lo più in forma orale e in grado di orientare positivamente le azoni di categorie che “con il tempo atmosferico lavorano da sempre” come i marinai, gli agricoltori e i medici.
Un’interessante traccia di tale corpus di conoscenze è reperibile ad esempio nel vangelo di San Luca (12, 54-55): Quando vedete una nube che sale da ponente, voi dite subito: presto pioverà, e così accade. Quando invece sentite lo scirocco, dite: farà caldo, e così accade. Ipocriti! siete capaci di capire l’aspetto del cielo e della terra, e allora come mai non sapete capire quel che accade in questo tempo? Al riguardo giova rammentare che, secondo quanto afferma San Paolo nella lettera ai Colossesi (Ravasi, 2014), San Luca era un medico, una professione fondata sulle studio delle cause naturali e dei loro effetti sulla salute umana. E qui occorre ricordare che dagli scritti ippocratici traspare l’interesse di molti medici per la meteorologia come nel caso del trattato ippocratico De aëre, aquis, locis in cui si esamina nei dettagli l’influenza esercitata sulla salute dal clima, dall’ambiente e dalle configurazioni atmosferiche (Vallance, 2001).
Circa poi il sapere pratico degli agricoltori ne resta traccia negli scritti dei georgici latini. Ad esempio Virgilio nel libro I delle Georgiche sottolinea che affinché si potessero riconoscere da indubbi segni queste cose — il caldo, le piogge e i venti portatori di freddo — Giove stabilì ciò che consiglia la luna mensilmente, sotto quale segno zodiacale sono calmi gli Austri e le osservazioni in a base a cui gli agricoltori tenessero gli armenti in vicinanza delle stalle.
I limiti della meteorologia degli antichi
Per comprendere comunque i limiti dell’approccio al tempo atmosferico da parte degli antichi basti riflettere sul fatto che gli antichi romani disponevano già in epoca imperiale di un sistema di comunicazioni rapido ed assai efficace, attraverso il quale i dispacci fluivano da un capo all’altro dell’impero in tempi assai brevi. E’ anche noto che la loro visione dei fenomeni atmosferici era assai più pragmatica rispetto a quella di altri popoli, se lo stesso Seneca sente il bisogno di contrapporre la visione più meccanicistica dei romani rispetto a quella oltremodo finalistica degli etruschi, secondo i quali le nubi si incontrano in cielo perché hanno piacere a produrre i fulmini (Seneca, Questioni naturali, libro II, 32, 2). Tuttavia, nonostante ciò e nonostante il fatto che l’economia dell’impero dipendesse in larga misura dai trasporti marittimi, sui quali i fattori meteorologici (primo fra tutti il vento) avevano larga influenza, i romani non furono, a quanto pare, mai stati sfiorati dall’idea di raccogliere informazioni meteorologiche sullo sterminato territorio su cui estendevano il loro dominio.
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