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Gli Interglaciali tra 0 e 2.7 milioni di anni fa

Riassunto: Si usano i dati tra 0 e 2.7 milioni di anni (Ma) fa riportati nell’importante articolo di Tzedakis et al. (2017) per vedere se andando indietro nel tempo si osserva la separazione tra i periodi di interglaciali da 41 e 100 ka (transizione del medio Pleistocene), separazione che non era stata osservata nei dati dei due precedenti post della serie. Si mette in evidenza che lo spettro del δ18O tra 1.5 e 2.7 Ma mostra il massimo principale a 41 ka, mentre i massimi a ~100, 72, 51 ka, pur essendo significativi al 99% (rumore bianco) sono di potenza molto bassa, in pratica lasciando a 41 ka il ruolo di periodo dominante. Lo spettro tra 0 e 2.7 Ma mostra invece che il periodi principali sono 41 e 100 ka. Lo spettro intermedio, tra 0.6 e 1.5 Ma evidenzia strutture a metà strada rispetto agli altri due. Si può pensare che il massimo a 100 ka sia frutto di una combinazione di altri massimi e non dell’influenza diretta dell’eccentricità orbitale.
Abstract: Data in the range 0-2.7 million years (Ma) BP, as reported in the Tzedakis et al. (2017) paper, have been used in order to verify if, going back in time, the separation among interglacial periods from 41 to 100 ka (also known as the Mid-Pleistocene Transition) can be put in evidence. Such separation could not be observed with the 0-800 ka data used in the two earlier post of the series. It is observed that the spectrum of the δ18O within the range 1.5-2.7 Ma, shows the main spectral peak at 41 ka, while the ones at ~100, 72, 51 ka have a very low spectral power, also if with a high 99% significance level (white noise). The spectrum computed over the entire range of 0-2.7 Ma shows the main periods are both 41 and 100 ka. The spectrum of the intermediate period 0.6-1.5 Ma outlines a half-way structure. The fact that the 100 ka spectral maximum can be some kind of mix of other peaks and not the direct influence of the orbital eccentricity should be also considered.

Introduzione e analisi
Dopo l’uscita su CM di due post precedenti (qui e qui) ho visto che a fine febbraio 2017 era uscito un lavoro di Tzedakis et al., 2017 (d’ora in poi T2017) sullo stesso argomento ma con l’analisi estesa fino a 2.7 Ma fa.

T2017 è a pagamento, ma ho scoperto una possibilità che descrivo in 02readme.html e che vorrei condividere con i lettori di CM che ancora non la conoscessero.

Il lavoro fatto da Tzedakis e colleghi è davvero notevole: in modo semplice sono in grado di distinguere gli interglaciali (IG) di tutto il Pleistocene dagli interstadiali (IS) e dagli interglaciali continui (CIG, IG che sembrano finire ma che poi riprendono vigore in una specie di continuità con il massimo che li precede. Quasi per definizione si trovano al confine tra IG e IS).

Intanto, in fig.1 (pdf) mostro la serie δ18O tra 0.6 e 2.7 Ma con l’indicazione degli interglaciali.

Fig.1: grafico degli interglaciali tra 0.6 e 2.7 Ma da δ18O bentonico. Questi dati, tratti da T2017, hanno il passo variabile di 2, 2.4, 2.5 ka lungo la serie). Le label in rosso nella parte superiore di ognuno dei grafici sono la codifica MIS degli interglaciali. Questa figura è simile alla figura 2 di T2017 nella quale però non compare l’IG che ho indicato con (105). Notare come l’escursione di δ18O appaia mediamente inferiore prima di (a destra di) 1.5 Ma fa. Questa è anche la data da cui T2017 ha ritenuto di dover calcolare la serie “detrended”.

Mostro solo parzialmente la serie 0-800 ka, già utilizzata nei due post precedenti e noto la presenza di un IG, che ho indicato tra parentesi come (105), a circa 2.63 Ma, che non risulta nella quasi equivalente figura 2 di T2017.
Dalla figura si nota che, da 2.7 a 1.5 Ma l’ampiezza complessiva delle successioni glaciale-interglaciale sembra inferiore rispetto a quella del periodo 0-1.5 Ma. Nello stesso periodo T2017 ha ritenuto di dover applicare un “detrending” dei dati.

Il modello utilizzato dagli autori si basa sull’energia efficace (effective, in inglese), derivata dal picco di insolazione estiva (in GJ/m2), definita come

E(Ipicco, Δt)=Ipicco+bΔt       (1)

con Ipicco picco di insolazione estiva a 65°N, Δt distanza (in ka) dalla deglaciazione precedente e b pendenza della

retta -in GJ/m2• ka- riportata nella loro figura 4.

Tutti i dati di T2017 sono disponibili nel sito di uno degli autori, Michel Crucifix, che si è occupato in modo specifico dell’analisi dati, del software e della graficazione. Ho scaricato tutti i dati e li uso per riprodurre i loro risultati. Il riferimento “dati di Crucifix” usato nel sito di supporto è quindi da intendere come “dati di T2017”. Con questi dati ho ricostruito la figura 5 di T2017 nella fig.2 (pdf), che mostra in modo inequivocabile la capacità del modello (1) di distinguere le successioni glaciale-interglaciale degli ultimi 2.7 milioni di anni, cioè di tutto il Pleistocene. I rari casi (3) “fuori dal coro” sono indicati con il loro codice MIS (Marine Isotope Stage) mentre il MIS 1 eil MIS 5e, l’Olocene e l’Eemiano, sono identificati solo come riferimento.

Fig.2: Riproduzione della fig.5 di T2017. Capacità del modello (1) di separare i vari tipi di “ambiente caldo”. La riga tratteggiata è stata calcolata dalla massima probabilità a posteriori del modello. Il tratto diagonale (rampa) corrisponde alla transizione del medio Pleistocene. I due interglaciali (IG, rosso. 59 e 63) e l’interglaciale continuo (CIG, nero, 7a) sono indicati con le rispettive sigle MIS. Nessun interstadiale (IS, azzurro) si trova al di là della riga di separazione. MIS 1 e 5e (in alto a sinistra) sono l’Olocene e l’Eemiano, indicati solo come riferimento.

La serie completa del δ18O è mostrata in fig.3 (pdf), insieme alla serie detrended da 1.5 a 2.7 Ma.

Fig.3: Andamento del δ18O tra 0 e 2.7 Ma. (nero) Originale, qui indicato come “smoothed” perché campionato su tre passi, da 2 a 2.5 ka rispetto all’1 ka usato nei post precedenti. (rosso) Detrended che inizia da 1.5 Ma fa. Rispetto alla fig.1, qui si nota meglio la diversa ampiezza delle oscillazioni dopo 1.5 Ma fa.

Si nota un lento ma costante declino del rapporto isotopico dall’inizio del Pleistocene a circa 0.6-0.7 Ma, poi una risalita debole -fino ai nostri giorni- o forse una fase quasi costante preceduta da un break-point (un cambiamento rapido) localizzabile sempre a 0.6-0.7 Ma.

Lo spettro di entrambi i dati di fig.3 e dei dati dei due post precedenti è in fig.4 (pdf) dalla quale è del tutto evidente la presenza di due massimi principali a ~100 ka e a ~41 ka.

Fig.4: Lo spettro di δ18O tra 0 e 2.7 Ma, confrontato con quelli (LOMB e MEM) della stessa serie tra 0 e 800 ka. I valori Lomb (linea azzurra) sono divisi per 2. Sapendo che i dati 0-2.7 Ma sono interpolati a passo ≥ 2 ka mentre quelli tra 0 e 800 ka sono a passo 1 ka, non si capisce da dove venga l’apparente maggiore risoluzione dei dati di T2017.

Un paio di considerazioni sui dati della figura:

  1. L’uso dei dati detrended, richiesto dal metodo di Lomb, e dei dati originali non mostra differenze importanti nei due spettri.
  2. I dati 0-2.7 Ma sono a passo 2, 2.4, 2.5 ka mentre quelli 0-800 ka, usati per il confronto, sono a passo 1 ka. Non mi è chiaro perché i dati di T2017 mostrino negli spettri tanti particolari in più rispetto ai dati a maggiore risoluzione, addirittura un doppio picco a cavallo di 100 ka che non compare negli altri spettri.

Visto che anche in questo caso (come nei due post precedenti) lo spettro su tutto l’intervallo non permette di verificare un cambio di regime climatico all’interno del Pleistocene, ho calcolato (fig.5, pdf) lo spettro tra 1.5 e 2.7 Ma.

Fig.5: Spettro di δ18O tra 1.5 e 2.7 Ma. (nero) Dati originali. (rosso) Dati detrended da 1.5 a 2.7 Ma. Appare evidente solo il picco a 41 ka il che conferma l’ipotesi di un cambiamento attorno a 1.5 Ma fa. I massimi a circa 50, 70, 90 ka sono deboli ma significativi al 99% (rumore bianco). Notare come lo spettro dei dati detrended (richiesto dal metodo di Lomb) sia praticamente uguale allo spettro dei dati osservati. Il massimo all’estrema sinistra (periodo di circa 2.5 ka) è forte e presente anche in fig.4. La sua natura non viene discussa in questo post.

La scelta di 1.5 Ma come inizio della serie non credo possa essere considerata un cherry-picking: è il punto in cui le ampiezze delle oscillazioni cambiano rispetto a quelle più vicine a noi ed è anche il punto di inizio della “rampa” di fig.2, cioè della transizione del medio Pleistocene.
La fig.5 mostra che nella prima parte del Pleistocene l’effetto astronomico dominante è l’obliquità dell’orbita (periodo 41 ka), forse con qualche debole contributo da parte di altri (uno o più) parametri orbitali.

Una conferma è data da
fig.6 (pdf) che mostra lo spettro di δ18O tra 0.6 e 1.5 Ma (la “rampa” di fig.2).

Fig.6: Spettro di δ18O tra 0.6 e 1.5 Ma. Il picco a 41 ka è ancora la principale caratteristica dello spettro, ma si affacciano massimi spettrali (~80 e ~122 ka) che in periodi più vicini a noi potrebbero fondersi per dare origine al picco a 100 ka. In complesso, lo spettro appare meno definito rispetto a quelli dei periodi adiacenti.

Qui lo spettro è meno definito rispetto a quanto si osserva nelle figg. 4 e 5: il massimo a 41 ka è ancora dominante ma meno potente che nel periodo precedente; non c’è ancora il massimo a 100 ka ma sono presenti massimi importanti a 80 e 122 ka che forse “promettono” di trasformarsi nel picco a 100 ka in periodi più recenti.

Conclusioni
Il lavoro di Tzedakis e colleghi non solo mostra come sia possibile distinguere le varie fasi climatiche del Pleistocene ma è anche in grado di ricostruire il posizionamento, con un passo di 41 ka, di tutti gli oltre 100 interglaciali.
Le figg. 5 e 6 mostrano che il massimo dominante è sempre 41 ka (obliquità dell’orbita terrestre) e fanno supporre che il massimo a 100 ka sia solo il risultato della combinazione tra massimi diversi e non un effetto diretto dei cambiamenti dell’eccentricità orbitale.

Tutti i grafici e i dati, iniziali e derivati, relativi a questo post si trovano nel sito di supporto qui, in particolare nell’ultima sezione in basso definita Crucifix’s data

Bibliografia

  • P. C. Tzedakis, M. Crucifix, T. Mitsui & E. W. Wolff: A simple rule to determine which insolation cycles lead to interglacials, Nature, 542, 527-544, 2017. doi:10.1038/nature21364
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Published inAttualitàClimatologia

6 Comments

  1. donato b

    “Il problema è ovviamente la causa in grado di dare inizio a modifiche tanto profonde.”
    .
    Caro Franco, il fascino di Tzedakis è proprio il tipo di risposta che dà a questa domanda: non una, ma molte cause che, però, non sono in grado di dare inizio alle modifiche se non si verificano opportune concordanze di fase tra le varie cause. E’ complesso, ha qualche criticità, ma è intrigante.
    Grazie per la segnalazione del lavoro di Crucifix. Mi sembra molto interessante. Credo che ne riparleremo (non so quando, ma sicuramente ci ritorneremo su!) 🙂
    Ciao, Donato.

  2. donato b

    Caro Franco, non posso fare a meno di congratularmi con te per l’ottimo lavoro che hai fatto con gli ultimi tre post sugli interglaciali. Sulla base dei tuoi calcoli possiamo dire con maggiore sicurezza che il clock degli interglaciali batte un periodo di 41 mila anni. Le oscillazioni tra periodi freddi e caldi sono guidate, insomma, dall’obliquità orbitale. Non è un fatto da poco perché “riduce” il ruolo del ciclo di 100 mila anni che poi è quello di Milankovitch.
    .
    Questa conclusione non è nuova per Tzedakis e colleghi: già emerge in uno studio dello stesso autore del 2012 in cui si indagarono le cause che determinano l’innesco degli interglaciali. Tali fasi climatiche iniziano e finiscono quando si verificano particolari concordanze di fase tra obliquità, insolazione, precessione, AMOC e concentrazione di CO2 atmosferica.
    .
    Nello studio del 2012 il periodo indagato era quello degli ultimi 800 mila anni ed utilizzava dati di una carota di ghiaccio. Nello studio del 2017 il periodo indagato è enormemente più lungo, ma anche su questi intervalli temporali così lunghi, si vede che l’obliquità è fattore dominante per l’innesco e la fine degli interglaciali.
    Non ho ancora letto e digerito completamente T2017, ma mi sembra che il meccanismo individuato in T2012 vale anche nell’intervallo 0-2.7 milioni di anni e ciò dimostra che si tratta di un meccanismo molto robusto ed il tuo lavoro è illuminante in proposito.
    .
    Resta da capire meglio il periodo di 2,5 mila anni che compare su tutto l’intervallo di dati ed è presente anche nei sottoinsiemi in cui è stato diviso l’intero intervallo. Potrebbe trattarsi di quel periodo millenario che molti autori hanno individuato nelle serie di dati climatologici, ma di cui tutti hanno parlato in modo enigmatico e sempre in via ipotetica. Bene, molto bene.
    Ciao, Donato.

    • Caro Donato,
      l’argomento degli interglaciali è molto interessante e pieno di sorprese: ad esempio non mi sarei mai aspettato di mettere in discussione i 100 mila anni della teoria di Milankovich (il ruolo dell’eccentricità orbitale) ma i conti che ho fatto per questo terzo post mi hanno fatto immaginare che i 100 ka
      osservati (e che ho osservato anche negli spettri di altre serie
      -essenzialmente SST e rapporto titanio/alluminio che misura la quantità di detriti terrestri trovati nelle carote marine, cioè l’azione dilavante del ghiaccio che si scioglie e trasporta in mare i detriti) possono essere la combinazione di altri massimi (di altre cause) non direttamente legati alla
      meccanica celeste, di cui però non sono in grado di capire la natura. Adesso sto cercando di avere e analizzare paleo serie diverse in modo da farmi qualche idea in proposito.

      Il lavoro di Tzedakis & C. (T2017) è molto ben fatto ed è importante; poi ha il vantaggio della semplicità. Anche se io vedo con qualche sospetto l’importanza che attribuiscono alla CO2, la bontà del lavoro, per quanto ne capisco, non si può sminuire.

      Facendo qualche ricerca ho rivalutato l’importanza di M. Crucifix che mi sembra, oltre che un analizzatore di dati, un teorico quotato. Ho trovato un suo lavoro di review (accesso libero) sui sistemi complessi usati per analizzare la successione glaciale-interglaciale che forse ti può interessare:
      http://rsta.royalsocietypublishing.org/search/Crucifix%20jcode%3Aroypta

      Il titolo è: Oscillators and relaxation phenomena in Pleistocene climate theory e il riferimento è: Phil. Trans. R. Soc. A 2012 370 1140-1165; DOI:10.1098/rsta.2011.0315.
      Anche qui viene data molta importanza alla CO2.
      I concetti vengono anche ripresi in un lavoro più applicativo del 2013 (doi:10.5194/cp-9-2253-2013) su Clim.Past. che non sono sicuro sia libero.

      A mio parere un altro aspetto importante del loro lavoro è la linea di separazione tra i vari tipi di fasi calde che mostro in fig.2: la “rampa” in particolare mi interessa perché i suoi estremi corrispondono a due momenti di passaggio (se preferisci, di interruzione) della “tranquilla” evoluzione
      del Pleistocene tra 1.5 Ma, quando si passa da oscillazioni (di d18O) di piccola ampiezza ad oscillazioni di grande ampiezza, e 0.6-0.7 Ma quando la lenta discesa (diciamo verso temperature basse, o alti valori di d18O) del Pleistocene -dal suo inizio- subisce una brusca interruzione e un innalzamento delle temperature. Il problema è ovviamente la causa in grado di dare inizio a modifiche tanto profonde.
      Ciao
      Franco

  3. Luigi Mariani

    Caro Franco,
    davvero interessantissimo. A me colpisce soprattutto il diagramma di figura 3 che mostra in modo sinottico tutto il Pleistocene e da cui si coglie che l’epoca non è omogenea, almeno in base al proxy O18. Il cambiamento di comportamento a 0.6-0.7 milioni di anni orsono è davvero curioso anche perché segue un trend graduale che era proseguito per quasi 2 milioni di anni. Chissà cos’è successo.
    Grazie.
    Luigi

    • Caro Luigi,
      se trascuriamo il cambiamento di ampiezza a 1.5 Ma, praticamente tutto il Pleistocene, fino a 0.6-0.7 Ma, era stato una tranquilla discesa del rapporto isotopico medio (diciamo delle temperature), con un momento (lungo 800 mila anni!)
      di “pausa” o discesa meno accentuata, tra 1.2 e 2 Ma. A 0.6-0.7 Ma, cioè tra gli interglaciali MIS 15e e MIS 17c, si vede un break-point, con le temperature medie, da lì verso i tempi più recenti, nettamente più alte di quelle precedenti. A guardare la fig.1 del primo post sugli interglaciali non si vede nulla di particolarmente notevole: la temperatura del glaciale successivo a MIS 17c è particolarmente bassa, ma non diversa da quella che segue MIS 13a.
      Mi chiedo e chiedo ai geologi che numerosi frequentano queste pagine se è possibile un evento geologico in quel periodo, tale da far modificare il d18O a livello planetario (la serie LR04 è la combinazione di 57 record sparsi per il mondo).

      Ciao
      Franco

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