L’argomento di oggi, il costo dei cambiamenti climatici, è uno spin off piuttosto “spinoso” della diatriba sul clima che cambia – dovrebbe cambiare – per cause antropiche. Non capita spesso che un argomento derivato diventi più popolare di ciò che lo ha originato, ma qui si parla di soldi, tanti, tantissimi soldi, più di quanto si possa immaginare e più di quanto il mondo intero si possa permettere, per cui non c’è da stupirsi se la questione scientifica sia stata letteralmente surclassata da quella economica. Non a caso, nelle adunate salva-pianeta che si ripetono ogni due per tre, ormai si parla solo di soldi, di risarcimento, di sostegno all’adattamento e, dulcis in fundo, perché lo scopo finale è quello, di redistribuzione del reddito globale, parola di uno dei capi dell’IPCC.
La questione economica, è ormai noto, ha preso la scena del dibattito ormai da un decennio, con la pubblicazione del Rapporto Stern, commissionato al Lord inglese da qualcuno che con i soldi pensava di saperci fare…la Lehman Brothers, che aveva evidentemente fiutato l’affare del secolo. Di lì a pochi mesi il committente fu protagonista del crack finanziario che ha messo in ginocchio il mondo intero ma, evidentemente, l’intuizione era giusta, perché da allora il “costo sociale del carbonio”, riassumibile nell’ammontare del costo economico dei danni che i cambiamenti climatici dovrebbero causare, è stato indagato in ogni sua forma. Come tutto ciò che viene sottoposto a massicce dosi di steroidi, ovviamente, è cresciuto ben oltre le pur catastrofiche previsioni di Stern, diventando una nuova disciplina scientifica. Naturalmente da fine del mondo.
Ora, la cosa più paradossale, ma dato che la fonte di tutto sarebbe una componente dell’aria forse così paradossale non è, è che a ben vedere si tratta veramente di aria fritta, di infinite discussioni sul nulla che, nella migliore tradizione del mondo moderno, muovono enormi preziosissime risorse senza avere un briciolo di fondamento, ove con questo si dovesse intendere – cosa forse ragionevole – che ci fosse un minimo di riscontro reale nelle proiezioni secolari.
Tra quelli che se ne intendono, questo costo si chiama SCC (Social Cost of Carbon), e fuziona così:
- Prendi un modello che simuli le emissioni per i prossimi 2 o 3 secoli;
- Poi innesta i risultati in un modello climatico di un pianeta che – nel modello – funziona a CO2;
- Poi dai una dimensione materiale ai danni che quel clima cambiato potrà infliggere al sistema tra 2 o 3 secoli;
- Poi attribuisci un costo a quei danni e riporta la somma all’attualità;
- Infine, assumendo che dividere quel costo per la somma delle emissioni sia logico, ovvero che sussista una relazione lineare tra le due grandezze, ecco che si capisce quale costo aggiunge al nostro futuro l’unità di emissioni, cioè la tonnellata di CO2.
Punto 1, il mondo di domani. Simulare le emissioni significa sapere come sarà il mondo tra trecento anni e attraverso quale percorso sarà arrivato a quella condizione. Significa chiedere a un rivoluzionario francese, a un indipendentista americano o, più semplicemente a un qualunque cittadino europeo vissuto prima della rivoluzione industriale, di sapere ad esempio cos’è e come funziona uno smartphone, di guardarsi seduto su un treno che va a 300 kmh le evoluzioni della sonda Rosetta o, magari, di racchiudere tutta la conoscenza del genere umano nello spazio di pochi metri disponendo solo di una carica elettrica accesa o spenta, che allora non si sapeva cosa fosse. Rispetto ad allora ne sappiamo di più? E’ vero, ma questo non ci ha avvicinati di un millimetro alla conoscenza del domani.
Punto 2, simulare il clima. Un sistema complesso, altamente non lineare, composto di tutto quello che c’è su questo pianeta e fuori da esso, terra, acqua, aria, fuoco, biosfera, litosfera e così via. Un sistema ad oggi predicibile in modo approssimativo per distanze temporali di pochi giorni, totalmente ignoto oltre un paio di settimane. Un sistema che senza inventare assunzioni al limite del ragionevole, non riusciamo a riprodurre neanche conoscendo il suo passato.
Punto 3, come cambierà il sistema nelle sue dinamiche. Dove sarà più freddo, caldo, secco, umido, ventoso e come questi cambiamenti influiranno sugli altri fattori?
Punto 4, quanto ci costerà? Consumeremo più energia? Avremo meno cibo? Saremo più organizzati? Saremo più o meno numerosi? Quanto saremo ancora in grado di produrre ciò che è necessario?
Punto 5, risparmiamo da ora. Visto che, notoriamente (ricordate Lehman Brothers?) sappiamo benissimo come funzionerà l’economia globale nei prossimi trecento anni, quel costo finale lo si può intendere direttamente come conseguenza di quello che facciamo ora. Quindi emettere/non emettere una tonnellata di CO2 ora, aggiunge/sottrae una somma al costo futuro ed è oggi un guadagno.
Ha senso tutto questo? No? Beh, sappiate che su questo ragionamento si basano le scelte di oggi. Su questi costi si fanno i conti, per esempio, della madre di tutte le soluzioni, la tassa sulla CO2 (che per molti aspetti già paghiamo sotto forma di aumentato costo dell’energia), le cui stime non a caso sono paragonabili a quelle del costo sociale della tonnellata di carbonio. Decisioni che, neanche a dirlo, sono condizionate dal fatto che il costo sociale del carbonio, in futuro, sarà certamente negativo.
Già perché a questa operazione manca un pezzo. Se volete potete considerarla anche un’innocente omissione. Nessuno pensa, o stima, che il global warming e i suoi derivati possano anche avere dei benefici. Del resto, con tutte le esternalità negative prospettate non c’è competizione… Andate qui se vi interessa una lista.
Ma c’èun altro paradosso: dalla rivoluzione industriale ad oggi, vale a dire da quando si emette CO2 e contemporaneamente è aumentata la temperatura del pianeta, da queste emissioni e da quel riscaldamento abbiamo tratto solo benefici. Il pianeta è più verde e produciamo più cibo, se solo vogliamo stare alla CO2, che di fatto nutre le piante. Ma grazie all’uso dei combustibili fossili, ossia alla disponibilità di grandi quantità di energia a basso costo, abbiamo fatto strade, ponti, ospedali, fabbriche, insomma progresso, ovviamente anche scientifico. Ora, avere tutto questo è o no un beneficio? E perché dovrebbe cessare in un futuro che non conosciamo?
A chi scrive, che ne sa sicuramente molto poco, non è dato capirlo. A qualcuno che calcolava l’impatto del global warming sul PIL globale per conto di una banca quotata tripla A fino al giorno prima di fallire, la questione è molto più chiara. Poi dicono che siamo noi meteorologi a usare la palla di vetro.
Mah… a questo punto ci vorrebbe il DDT.
Dopo questo commento un’altra accusa di tuttologia e di dilettantismo allo sbaraglio non me la toglie nessuno! E vabbè, non fa niente.
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Premesso che le specie viventi (a partire dai cianobatteri e, salendo nella scala della complessità, a finire con gli esseri umani) modificano l’ambiente in cui vivono per renderlo più adatto alle loro esigenze, l’idea che gli esseri umani possano regredire volontariamente all’epoca pre-industriale, è semplicemente ridicola con buona pace dei “decrescisti felici”, dei sostenitori del baratto e via cantando.
Il semplice fatto di dover rinunciare al telefonino, determinerebbe una rivoluzione epocale, figuriamoci dover rinunciare al riscaldamento, alla macchina, all’aereo, al comfort. Detto in altre parole nessuno rinuncerà in modo indolore ad una parte della sua ricchezza ed i problemi sociali che ci troviamo ad affrontare, derivano tutti da una prospettiva di minor benessere futuro.
Dobbiamo rassegnarci, perciò, al rifiuto delle fasce sociali più deboli (tanto nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo) a privarsi delle comodità e del benessere che altre fasce sociali hanno e, in qualche caso, ostentano. Ciò premesso non ho difficoltà ad ammettere che gli esseri umani stanno cambiando l’ambiente in cui vivono e stanno contribuendo anche a cambiare il clima. Ciò su cui non concordo con la linea di pensiero principale, è la magnitudo e la velocità con cui l’Uomo determina il cambiamento ambientale e, in ultima analisi, climatico.
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Si sostiene, però, che chi invoca un mondo migliore di quello di oggi non vuole rinunciare a nessuna delle comodità odierne, ma vuole soltanto che si mantengano in modo “ecocompatibile”, limitando, quindi, il nostro impatto sull’ambiente.
Secondo me equivale al voler fare le nozze con i classici fichi secchi, ma chi sa di economia dice che non è vero e che decrescita non significa ridurre lo standard della nostra vita. Accetto questa visione idilliaca del mondo, ma spero che, oltre ad enunciarla, qualcuno me la dimostri.
Nell’attesa non posso fare a meno, però, di notare che le politiche attuali che tentano di ridurre le emissioni di CO2 per contrastare il cambiamento climatico, stanno deprimendo l’economia. Anche in questo caso mi si risponderà che non è vero, che, al contrario, le politiche di riduzione delle emissioni favoriscono l’economia e determinano ricchezza e prosperità nel mondo. Lo hanno detto e ridetto a Marrakech in occasione dell’ultima COP, per esorcizzare le paure connesse all’elezione di Trump e lo ripetono a destra ed a manca su tutti i media, ma a me non sembra.
Sono dell’idea, infatti, che le politiche di contrasto al cambiamento climatico che si traducono, fondamentalmente, in politiche di contenimento delle emissioni di diossido di carbonio, non sono uno stimolo per l’economia, ma rappresentano un costo che a lungo andare non ci potremo permettere di sopportare.
La cosa buffa in tutto ciò è che, continuando di questo passo, si penalizzerà fortemente la ricerca in quanto sarà il primo settore in cui si comincerà a tagliare quando le cose andranno veramente male. L’esperienza italiana la dice lunga in proposito. Mi si dirà che sono provinciale, che all’estero si fa diversamente, ma all’estero hanno potuto indebitarsi per incrementare gli investimenti in quanto gravati da un minor debito pubblico. Io resto della mia opinione e, credo, che ciò rallenterà di molto il progresso di quelle tecnologie che potrebbero realmente porre un freno alle emissioni ed al cambiamento climatico. Ammesso, infatti, che tale legame esista, mi meraviglio del fatto che non ci si danni l’anima per convogliare sulla ricerca di soluzioni al problema tutte le risorse disponibili. Si tenta, invece, di limitare le emissioni con balzelli tra i più vari, senza tentare di attaccare la questione alla radice.
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Virgilio ha accennato all’energia da fusione che ci consentirebbe di risolvere tutti i nostri problemi: limitatissime emissioni, costi non esorbitanti, durata illimitata delle fonti di approvvigionamento, continuità e via cantando.
Siamo, però, molto lontani dalla meta in quanto le due principali linee di ricerca (NIF ed ITER) mi sembra che siano in una fase di stallo. Servono soldi per esplorare altre vie (e ce ne sono), ma se questi mancano, come faremo?
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Io non vedo soluzioni diverse da quelle che comportino un PIL mondiale in aumento, cioè una crescita maggiore ed una riduzione dei costi e delle rendite di posizione. E’ necessario, secondo il mio modesto parere, ridurre i costi per creare ricchezza e convogliare questa maggiore ricchezza verso quelle ricerche che potrebbero risolvere definitivamente ed alla radice i nostri problemi di approvvigionamento energetico. Le politiche attuali invece mirano tutte ad aumentare i costi per ridurre le emissioni e ciò, secondo me, non va bene.
Altri la pensano diversamente: rispetto le loro opinioni, ma resto un convinto sostenitore delle mie.
Ciao, Donato.
immagino che possa darvi la nausea ma vi consiglierei di dedicarvi all’opera di Thomas Piketty. Forse lì troverete qualche soluzione ai problemi che tanto vi tormentano.
La soluzione di Piketty non mi convince più di tanto. Si accettano altri suggerimenti.
Ciao, Donato.
capperi! Già letto tutto? O solamente quello che riporta certa stampa riguardo la sua opera?
In tutte le nazioni quando si cominciano a usare massicciamente e in modo diffuso, da tutti o quasi i cittadini, combustibili per produrre energia, compresa la tanto deprecabile energia per il trasporto privato (automobili) aumenta non solo la ricchezza personale di detti cittadini in termini di beni e servizi, ma anche l’aspettativa di vita individuale, la salute con diminuzione di epidemie fatali, tasso di scolarità e produzione di cultura a vari livelli (musica, cinema, letteratura…) e per le Società in cui non è praticata in modo costante e capillare la contraccezione anche il tasso di natalità o comunque la crescita demografica. Si confrontino questi parametri nella Cina Maoista e in quella a industrializzazione spinta di questi ultimi 2 decenni, così come per l’India. D’altronde un modo per ridurre emissioni fossili c’è: adottare energia nucleare, ma gli stessi ecologisti che più paventano lo AGW sono i primi a rifiutarla. Fra l’altro è ragionevole attendersi, sempre che non si freni, in nome dell’ambiente, pure la ricerca tecno-scientifica, che entro questo secolo si riesca a produrre energia nucleare a fusione. Ma chi è che vuole veramente vivere nel 1600?
Anch’io nel passato recente (ultimi 150 anni) vedo molti più benefici che costi dal clima che cambia.
Visto poi che al cuore del problema sta il tema dell’energia, penso anche che se volessimo realmente adottare una politica “senza rimpianti” dovremmo impegnarci seriamente per un transizione verso sistemi energetici credibili (es. nucleare) e non verso costosissimi palliativi come il fotovoltaico e l’eolico, che non solo stiamo infliggendo a noi stessi ma stiamo anche cercando di esportare anche verso i PVS condannandoli d fatto all’arretratezza.
Finché l’idea di ridurre i livelli di CO2 sarà abbinata a politiche energetiche inefficaci (e dell’inefficacia ci parlano in modo incontrovertibile i trend nei livelli di CO2 atmosferica) permarrà l’impressione che l’argomento “catastrofe da Global warming antropogenico” sia in realtà usato per fini strumentali finendo per fare da mosca cocchiera ad interessi che con il salvataggio del pianeta c’entrano poco o nulla e che magari mirano semplicemente a deprimere le nostre economie a vantaggio di grandi emettitori come ad esempio la Cina.
Ad inizio secolo concentrazione in atmosfera CO2 280 ppm ora concentrazione 400 ppm. Potrà far bene potrà fare male ma più che un’ “impressione” a me sembra un fatto. Auguri per il blog.
e quindi? qualcuno lo ha mai negato?
qualcuno ha mai negato che questa impennata di concentrazione di CO2 in atmosfera sia diretta conseguenza dell’industrializzazione?
sorpresa, la risposta è: NO
ma quindi?
lei è in grado di dimostrare una correlazione diretta tra aumento CO2 e imminente distruzione del pianeta arrostito?
no, perché basterebbe confrontare le due curve di aumento CO2 e aumento T° media del pianeta per verificare, grafico alla mano, che le variabili che influiscono sulla seconda devono essere migliaia, molte delle quali poco o nulla conosciute, dato che l’andamento delle due curve differisce di molto: la prima è quasi perfetta, regolare, la seconda presenta continui mutamenti di trend, inversioni, riprese, etc etc etc…
forse basterebbe ricordare a tutti che stiamo vivendo in pieno quella che geologicamente si chiama INTERGLACIALE, e relativizzare tutto il contesto a periodi cronologici di ben più ampio respiro, per rendersi conto del nulla di cui si parla….
http://www.geocraft.com/WVFossils/PageMill_Images/image277.gif
a questo link c’è la ricostruzione ufficiale basata su dati geologici, paleoclimatici, e via dicendo della concentrazione di CO2 e T° media della storia del pianeta….
forse che vista così la questione Anthropic Global Warming fa tutto un altro effetto? (tipo fa ridere… )
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Fa più ridere commentare questi dati, come se la terra di allora fosse uguale a quella di oggi. Peraltro nel grafico il trend di temperatura è stato tracciato schematicamente a mano dallo stesso autore…
questo è più carino? 🙂
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