Salta al contenuto

A proposito di decrescita

Molte volte su questo blog abbiamo avuto modo di parlare di decrescita e di come essa venga individuata da molti commentatori come la panacea per poter risolvere, se non tutti, buona parte dei nostri problemi. E’ cosa risaputa che la stragrande maggioranza dei lettori di CM considera invece  la decrescita un fatto negativo, in quanto comporterebbe la riduzione del livello di benessere della popolazione mondiale. Lo scorso mese di novembre su “Le Scienze” è stato pubblicato un articolo molto interessante:

La minaccia della disuguaglianza

di A. Deaton.

Nell’articolo si analizza la situazione del nostro pianeta da un punto di vista sociale, economico e geopolitico e si delineano i possibili scenari verso cui potrebbero evolvere queste situazioni di fronte ad un tasso di crescita che, per la prima volta in circa 250 anni, sembra volersi arrestare o invertire il proprio segno.

L’autore parte dalla considerazione che due dei pilastri su cui si fonda il nostro benessere sono in uno stato di profonda crisi: i concetti di Europa Unita  e quello di democrazia ben funzionante negli USA. Il sogno di un’Europa unica, prospera e forte si sta disgregando sotto le ondate di migranti che premono alle sue frontiere e che stanno favorendo la rinascita di particolarismi e determinando singulti nazionalistici e populisti che stanno minando alla base l’idea stessa di Europa.

Il mondo occidentale, scrive Deaton, si trova di fronte ad una stagnazione del tenore di vita medio della popolazione e ad un aumento della disuguaglianza tra le varie parti della società. Ciò ha determinato un allontanamento crescente dei cittadini dalla politica e dai suoi riti in quanto gli attori politici non sono riusciti ad evitare il declino economico dell’Occidente. Le cause di tale declino devono essere ricercate, secondo Deaton, nella crescita delle disuguaglianze tra i vari settori della società occidentale. Una delle cause della crescita delle disuguaglianze è costituita dal basso livello della crescita economica mondiale.

Partiamo dai numeri. Un aumento del 3% annuo del reddito, determina un raddoppio della ricchezza globale in 25 anni; un aumento del 2% annuo del reddito, determina un raddoppio della ricchezza globale in 35 anni e, infine, un aumento dell’1% annuo del reddito, determina un raddoppio della ricchezza globale in 70 anni. Se andiamo ad analizzare il tasso di crescita delle economie dei Paesi industrializzati, ci rendiamo conto che oltre la metà dei cittadini  del mondo sviluppato, non riuscirà a migliorare il livello di prosperità e benessere nell’arco di una generazione. Questo fatto si traduce nella frase che tante volte pronunciamo o sentiamo pronunciare: i nostri figli saranno meno benestanti di noi. E’ una frase che mi lascia molto amareggiato in quanto è la mia generazione che passerà il testimone ad una generazione che godrà di un benessere inferiore a quella che l’ha preceduta e, molte volte, mi vergogno di guardare negli occhi i miei figli ed i giovani in genere.

Secondo Deaton utilizzare il PIL (Prodotto Interno Lordo) di una nazione come unico indice del benessere raggiunto da una determinata popolazione è riduttivo. Lo stato di maggiore o minore benessere di una popolazione deve essere valutato considerando oltre al potere di acquisto dei singoli, anche altri fattori come, per esempio, lo stato di salute dei cittadini, il livello della loro istruzione e così via. Oggi come oggi ci troviamo in una situazione di benessere che non ha mai avuto uguali nella storia del genere umano. L’elevato livello d’istruzione medio della società, unito allo stato di salute, consente ad un numero molto alto di cittadini di partecipare attivamente alla vita politica della nazione di appartenenza, di rivendicare libertà di movimento, di evitare arresti e detenzione arbitrari. Tutti questi fattori uniti a molti altri che evito di citare, sono parte di quella prosperità e benessere che caratterizzano le società occidentali e verso cui tendono le società dei Paesi in via di sviluppo o dei Paesi poveri. Non si può non essere d’accordo con quanto scrive Deaton, ma non possiamo nasconderci che senza benessere economico difficilmente l’assistenza medica o l’istruzione possono essere di livello elevato e la libertà e facilità di movimento ce li scordiamo. Mi sembra che la capacità di produrre reddito da parte della popolazione, sia un fatto prioritario, per non dire fondamentale. Il PIL è, in altre parole, uno strumento imperfetto, ma essenziale per valutare lo stato di salute di una nazione o di un gruppo di nazioni o dell’intera umanità.

E veniamo al punto centrale del discorso di Deaton. La crescita della ricchezza globale è fonte di riduzione delle disuguaglianze che rappresentano il vero, grosso problema dell’Occidente. Una crescita elevata, come quella che ha contraddistinto, salvo brevi interruzioni, gli ultimi 250 anni della storia del mondo e che ha coinciso con l’avvento della rivoluzione industriale, ha consentito di ridurre notevolmente le disuguaglianze tra le componenti sociali. Quando la crescita rallenta si verifica un aumento delle disuguaglianze economiche e, successivamente, uno squilibro maggiore di quelli che abbiamo definito elementi essenziali del benessere sociale di una collettività: assistenza sanitaria e sociale, livello di istruzione, facilità di spostamento e rispetto dei diritti umani. Ciò è ovvio in quanto una riduzione della crescita determina una riduzione della ricchezza globalmente disponibile ed una riduzione della quota di reddito globale che può essere ridistribuita. Detto in altri termini, se la coperta è piccola, ci sarà sempre qualcuno che resterà al freddo e questo è ciò che sta accadendo alle società occidentali: il numero di coloro che restano privi di protezione aumenta in modo inverso alla riduzione della crescita.

Il livello di disuguaglianza, utilizzando il metro costituito dalla percentuale di ricchezza mondiale detenuto dall’uno per cento della popolazione di una nazione o di un gruppo di nazioni, vediamo che  esso è in costante aumento. Aumenta, cioè, la percentuale della ricchezza globale detenuta dall’1% della popolazione mondiale. Il livello di questa percentuale oggi è simile a quello che seguì la prima guerra mondiale e che terminò con la grande depressione del  1929 e la seconda guerra mondiale. Dagli anni ottanta del secolo scorso tale percentuale ha ricominciato ad aumentare ed oggi ha valori estremamente elevati.

Deaton cerca di comprendere le cause di questa crescita della disuguaglianza e prende in considerazione due settori estremamente importanti nelle società occidentali: l’assistenza sanitaria ed il mondo della finanza. Si tratta di settori che, insieme, coinvolgono circa il 40% dell’economia globale e che tendono ad esasperare le disuguaglianze. Il sistema sanitario rappresenta circa il 20% del PIL di una nazione come gli Stati Uniti d’America. Non tutta questa enorme somma di denaro è però destinata direttamente all’assistenza, in quanto una percentuale maggioritaria è assorbita dagli stipendi e dalle spese interne al sistema. Ciò che resta va a coprire le spese direttamente connesse all’assistenza dei cittadini. Quando la crescita diminuisce le spese di auto sostentamento del sistema restano invariate o tendono a crescere a causa di azioni lobbistiche poste in atto dai vari attori che si muovono sul palcoscenico politico, sociale ed economico a scapito della quota destinata all’assistenza diretta. Diminuisce, in altre parole, la tutela dei cittadini, per cui tende ad ingrossarsi il numero di coloro che restano senza assistenza. Ci troviamo di fronte ad un fenomeno che gli economisti conoscono bene e che definiscono rent seeking (ricerca di rendita) che potremmo definire in modo poco corretto, ma efficace, una “rendita di posizione”, nel senso che coloro che usufruiscono dei vantaggi del sistema tendono ad operare in modo tale da accrescere il proprio stato di benessere a scapito di tutti gli altri.

Stesso discorso vale anche per il sistema finanziario. Anche in questo caso i meccanismi del sistema tendono a far aumentare le ricchezze di uno sparuto numero di attori ed a ridurre quella di una larga parte degli altri partecipanti al gioco.

Come si può vedere la riduzione della crescita determina l’innesco di meccanismi che, a lungo andare, creano disuguaglianza, riducono la coesione sociale, accrescono il livello di insoddisfazione del cittadino medio ed alimentano quel senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni e della classe politica, determinando la crescita delle pulsioni populistico-nazionalistiche che possono provocare la crisi del sistema sociale che è riuscito a garantire un aumento delle condizioni di benessere economico e sociale a fette sempre più grandi del genere umano.

Molti degli analisti mondiali sono piuttosto pessimisti circa gli sviluppi futuri della situazione anche se con gradi di pessimismo variabili. La crescita delle disuguaglianze ha avuto inizio, come già accennato, ben prima della grande depressione che stiamo vivendo, per cui sembra avere cause che vanno oltre quelle contingenti, legate agli eventi del 2008. Questo fatto fa credere ad alcuni studiosi che il mondo abbia imboccato una strada che lo porterà inevitabilmente al declino ed alla decrescita, con tutte le nefaste conseguenze del caso e che abbiamo visto nelle righe che precedono. Secondo altri studiosi la situazione non è bella ed i timori per il futuro sono fondati, ma non tutto deve essere considerato perduto.

Deaton si colloca in questa seconda linea di pensiero e lo fa sulla base di due considerazioni che egli definisce due “raggi di speranza”. Nel corso della storia si sono sempre verificati momenti di stasi nella crescita a cui sono seguiti momenti di ripresa anche consistenti. E’ accaduto dopo la grande depressione del 1929, ma anche in altre epoche storiche nel corso degli ultimi 250 anni. Il primo impennarsi della crescita del benessere si verificò nel corso della seconda metà del 18° secolo e deve essere attribuito alla rivoluzione industriale. Essa fu una conseguenza dell’Illuminismo e della convinzione che le maggiori conoscenze scientifiche fossero capaci di determinare ricadute tecnologiche tali da determinare la crescita collettiva del benessere sociale. Le cose andarono veramente così e, tra alti e bassi, ci hanno portato all’attuale elevatissimo e senza precedenti livello di benessere diffuso. Questa voglia di benessere, di felicità, dice Deaton, oggi è la stessa di quella del 18° secolo per cui le forze in gioco sono le stesse che hanno determinato la crescita sostenuta del passato e, quindi, determineranno anche quella del futuro. Il secondo motivo di speranza è costituito dal fatto che, alla fine, i cittadini riusciranno attraverso il processo democratico a individuare dei leader che siano più sensibili alle esigenze della popolazione e che riescano a limitare le disuguaglianze oggi imperanti.

Io mi auguro che Deaton abbia ragione e che il Genio umano riesca a porre un rimedio a questa situazione non proprio rosea e molto preoccupante. Non posso fare a meno di pensare, però, che esistono forze potenti che remano contro, che invocano la decrescita, convinti che la decrescita possa generare felicità. La lucida analisi di Deaton dimostra, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che l’unica speranza dell’umanità non è la decrescita, ma la crescita e la crescita sostenuta. E’ stata la crescita ad aumentare la felicità dell’intero genere umano o di una sua parte considerevole, non la decrescita. Noi abbiamo bisogno di politici che pongano un freno alla rent seeking e che incoraggino le iniziative scientifico-tecnologiche in grado di invertire la tendenza del tasso di crescita: dal segno meno (decrescita) al segno più (crescita). Di politici che la smettano di seguire, come stanno facendo molti politici europei e non, l’utopia di un ritorno ad un passato mitico e mai esistito di benessere e puntino decisamente verso la crescita. Non abbiamo bisogno di economie basate sul baratto, sulla sussistenza, sulla rendita improduttiva, ma di economie basate sulla creazione di valore aggiunto, cioè sulla crescita. L’alternativa è la fine della democrazia e la fine del benessere diffuso che abbiamo raggiunto.

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...Facebooktwitterlinkedinmail
Published inAttualità

25 Comments

  1. Alessandro

    Le scelte giuste le deve fare anche il popolo e non si può pretendere che il popolo abbia una forte interdisciplinarietà fondamentale per cercare di afferrare la complessità di quanto sta avvenenendo.
    Tutti i giorni il popolo fa scelte: dall’aria che preferisce respirare fino ad arrivare alla scelta del cibo di cui si alimenta. Siamo all’ABC della sopravvivenza e oggi a me non pare che il popolo abbia seguito sia per respirare che per alimentarsi scelte ragionate e utili al proprio benessere fisico in rapporto alla propria situazione economica e capacità personali.
    In Italia c’è bisogno di una guida economica e sociale che porti a disciplinare le scelte di tutti per il benessere della comunità. Chiamatela crescita o decrescita, poco importa come la si chiami quando la scelta è disciplinata in modo da tutelare il cittadino.

  2. Rinaldo Sorgenti

    Grazie al richiamo di precedenti articoli di interesse sul tema in oggetto, ho riletto l’interessante articolo di Guido Guidi a commento dell’assurdo articolo di Repubblica di un anno fa (CoP21 in corso) e mi è sembrato utile estrapolare la seguente frase scritta da Guido Botteri nel suo commento, che ci aiuta a ritornare con i piedi per terra:

    ” Niente “decrescita” (che NON può essere “felice”, perché la fame e il medioevo portano miseria e morte, non felicità), ma semmai più soldi alla ricerca, quella vera.
    Ed è intorno ai soldi che si gioca la partita della COP21, come si son giocate tutte le altre, inutili, venti conferenze precedenti. “

  3. A. de Orleans-B.

    Hmmm… se la climatologia con i suoi metodi è già un tema audace, la politica economica è una vera Idra epistemologica!

    Però qualche dubbio o riflessione su quanto espresso nell’articolo del Prof. Mariani mi permetto di esprimerlo.

    1. “Decrescita”: cos’è esattamente? Come la misuro? Perché assumo, senza discuterla, la correlazione “Decrescita = perdita di benessere” e magari la promuovo addirittura a causalità?

    2. In virtù di quale osservazione o intuizione posso affermare che “la crescita riduce la disuguaglianza”, ammesso che c’entri in qualche modo?

    3. Mi sembra di leggervi una premessa implicita “più democrazia = più crescita” che, a mio modesto parere, non esiste. La democrazia mi piace molto… ma in dosi giuste — per quanto sia antipatico ricordarlo, un linciaggio è tecnicamente un evento democratico, e un politico che rappresenti una maggioranza dedicata a spogliare una minoranza avrà forse successo, ma certamente non incrementerà il benessere della sua comunità. Circa la “dose ottimale” di democrazia, ogni costituzione offre la sua migliore intenzione, ma con risultati tanto difformi da scoraggiarne uno studio sistematico. Sul tema è forse utile ascoltare questo signore che illustra bene un caso importante a difesa della tesi opposta:

    https://www.ted.com/talks/eric_x_li_a_tale_of_two_political_systems

    4. Magari mi sbaglio molto (ma non credo): ritengo che alcuni dei principali motori della crescita degli ultimi 200 anni siano stati, non in ordine di importanza:

    a. l’emergenza dello stato di diritto, che rende sufficientemente probabile il rispetto dei contratti e permette di “imprendere” con la prospettiva di non vedersi indebitamente sottratto il frutto del rischio corso;

    b. una sempre più disciplinatata allocazione dei surplus (= profitti) delle attività economiche in nuove attività via via selezionate in base alla loro redditività stimata — e la loro accumulazione graduale ma con una crescita di tipo geometrico;

    c. la comprensione e organizzazione del ciclo ricerca – innovazione; in parole semplici, la ricerca usa i soldi per produrre nuova conoscenza — e l’innovazione usa la nuova conoscenza per produrre nuovi soldi; in molti paesi questo ha riunito accademia e impresa in un ciclo virtuoso;

    d. una crescita della mobilità sociale, rimuovendo gli antichi steccati eretti dalle aristocrazie, intese come classi dominanti (“caste”?) con elevato, spesso esclusivo potere decisionale.

    5. Non credo che oggi abbiamo paura di un futuro peggiore — da quando sono nato, la speranza di vita della mia generazione è cresciuta di ben oltre vent’anni, non era mai successo prima nella storia dell’umanità, cosa potrei volere di più? — ma abbiamo invece paura di non realizzare i nostri sogni — e molti giovani non sognano nemmeno e con ragione, arrivando scoraggiati alla fine un processo educativo che non li avrà preparati per un mercato del lavoro che richiede nozioni e agilità del tutto differenti.

    Il futuro che ci aspetta?

    Immagino che sarà come già successo più volte nel passato: continueremo senza cambi sostanziali finché una vera crisi non ci obbligherà a farli — a quel punto i più agili e lungimiranti si daranno da fare e trascineranno gli altri verso un futuro differente.

    Spero che sarà anche migliore, se sapremo cogliere l’occasione.

  4. donato b

    @ Rosa
    .
    Non sono un economista, lo ammetto senza problemi. Ciò che mi premeva mettere in evidenza è la diatriba tra crescita e decrescita di cui, ripeto, questo sito si è occupato molte volte in passato.
    .
    Io sono dell’avviso che la crescita sia importante e rappresenti un fattore imprescindibile per garantire condizioni di benessere al maggior numero di persone possibili. Dopo il suo commento ho cercato di seguire il consiglio, di cui la ringrazio, e ho dato un’occhiata in giro. Non ho potuto leggere i testi consigliati (ci vorrebbero molte ore, anzi giorni), ma mi è capitato sotto gli occhi un articolo del prof. Acocella che si conclude con questa frase:
    “Le politiche di crescita sono ora diventate un elemento imprescindibile, non soltanto per allentare i costi sociali della crisi, ma per evitare che essa si avviti ulteriormente.”
    ( http://www.sinistrainrete.info/politica-economica/2142-nicola-acocella-crisi-equita-sviluppo.html )
    Se non erro si parla di politiche di crescita che sono indispensabili. Estrapolare una frase da un contesto è sempre pericoloso e sbagliato, ma il contesto da cui è stata estratta la citazione non mi sembra che esuli dalla necessità di una crescita economica per garantire un maggior benessere generale, visto che come riconosce lo stesso autore, vie diverse come la redistribuzione su base fiscale e/o politica “… potrebbe avvenire soltanto attraverso scontri violenti e con costi umani inimmaginabili.”
    Probabilmente non ho usato terminologia scientifica appropriata e non ho una cultura economica degna di questo nome, ma il concetto di fondo non mi sembra che sia del tutto avulso dalla realtà o dal pensiero di studiosi che di queste cose sono esperti.
    Ciao, Donato.

  5. rosa

    Sono molto dispiaciuta che in tale sito si parli di fenomeni macroeconomici senza averne conoscenza a partire da un articolo di Deaton sulle Scienze. È lo stesso che parlare del clima e della meteorologia sulla base di proprie sensazioni: “non ci sono più le stagioni di una volta, signora mia!” Per quanto riguarda gli aspetti economici suggerisco di leggersi “Sei lezioni di economia” di Sergio Cesaratto oppure il fondamentale di Macroeconomia di Nicola Acocella.

    • Rosa non è così grave se qualche volta si scambiano opinioni off topic, l’importante è che siano ragionate, come appunto quelle che mi sembra di aver letto. Attenzione, ho detto ragionate, non corrette, semplicemente perché non ho la conoscenza per dirlo. Se puoi aiutaci, grazie.
      gg

    • rosa

      La mia delusione nasce dal fatto che in questo sito, a cui sono approdata casualmente spinta dai miei dubbi in fatto di global warming, avevo trovato aria fresca e pulita: nessuno che dispensasse certezze e tutti a coltivare il dubbio parlando di cose di cui si ha contezza. Anche quando si è andati off-topic il tono si è mantenuto lieve. Invece oggi, soprattutto in alcuni commenti, si è andati molto fuori delle righe sia per quanto riguarda gli aspetti economici (sui quali ho fornito alcuni spunti di lettura) sia per l’autorazzismo contro gli italiani ( su questo consiglio il libro Anschluss di Vladimiro Giacchè, un best-seller in Germania, ma non in Italia). Su quest’ultimo punto vorrei aggiungere che l’autorazzismo italiano è stato coltivato da almeno due decenni da certa stampa, che guarda caso è la stessa che spaccia il global warming come causa di ogni ogni cosa e che spinge alla decrescita economica. Dunque uno strumento politico. Sono un’umile pensatrice che, partendo da studi di sostenibilità ambientale applicata alla tecnologia ed all’edilizia, è arrivata alla conclusione che l’unica sostenibilità ammissibile dal sistema globalizzato è quella che si sposa colla sostenibilità finanziaria, ossia una redistribuzione delle ricchezze alterata a favore di elites oligarchiche. Per esprimere più efficacemente il concetto, bisognerebbe usare un’espressione desueta: la “lotta di classe” perseguita a proprio favore dalle elites finanziarie globalizzate. Finora questa si è dispiegata, almeno in Italia, in termini culturali (soft power), ma sta subendo un’accelerazione e temo si stia arrivando anche a forme di hard power. Ho capito inoltre che una forte interdisciplinarietà è fondamentale per cercare di afferrare la complessità di quanto sta avvenenendo e l’ora del dilettante è purtroppo scaduta. con stima, r.

  6. Fausto Cavalli

    L’articolo di Deaton inquadra in parte la questione, o per lo meno si ferma agli aspetti “fenologici” e non alle cause prime della evidente diminuzione, almeno per quello che riguarda l’Italia, del PIL. I dati economici indicano che la crisi nel nostro Paese ha avuto inizio ben prima del 2008, probabilmente dalla fine degli anni ’90 ed è stata causata, al di là dei motivi esogeni, dall’aver accettato le regole di austerità imposte dalla UE. Austerità che non è nemmeno essa la causa iniziale, ma uno strumento economico messo in atto apparentemente per ridurre il debito pubblico, il quale in realtà non si è affatto ridotto. L’austerità, quindi, è da intendersi come riduzione della spese pubblica per il welfare. Con essa si favorisce il diffondersi delle disuguaglianze economiche nella popolazione. Il motivo è abbastanza semplice: lo Stato, che dovrebbe essere il principale soggetto che investe in periodi di crisi, al contrario ha ridotto anche queste spese d’investimento, favorendo così la disoccupazione, la conseguente competizione salariale e la riduzione dei diritti dei lavoratori (Jobs act). Tutto ciò crea di conseguenza una minore propensione di spesa da parte delle famiglie e quindi, in una logica di circolo vizioso, minore investimenti da parte delle aziende private, che a loro volta vanno incontro alla crisi, riducendo la forza lavoro, ecc. La decrescita di per sè quindi non avrebbe molto senso, anche perchè la stiamo toccando con mano già da 20 anni con i risultati negativi che possiamo facilmente osservare. Tuttavia, come progetto economico, non va intesa tale quale, ma come paradigma diverso per valutare, non tanto il PIL di un Paese, ma il suo benessere. Allora a ben guardare si parla di “decrescita felice”, cioè di una programma sociale ed economico, per il quale non interessa tanto la crescita del PIL, che può risultare in alcuni casi per fino negativo, ma che pone l’accento piuttosto sul benessere effettivo della popolazione, favorito da investimenti pubblici sull’istruzione, sanità, ambiente, reddito di cittadinanza o meglio piani di lavoro transitori. Quindi da una parte l’austerità è proposta, anzi imposta dalle strette regole europee, come mezzo effettivo per realizzare un libero mercato (teoria neo liberista) nel quale vince chi guadagna di più e lo stato sta in disparte; dall’altra si propone uno stato garante delle regole che favoriscono la riduzione delle disuguaglianze e che interviene mediante investimenti pubblici, quale valvola di assorbimento della disoccupazione, fino a ridurla ad una percentuale fisiologica (2-3%). A questo proposito ricordo che la nostra Costituzione sarebbe anche ben lungimirante in questa direzione, ponendo addirittura all’art. 1 che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro….quale diritto per ogni cittadino.

    • Fausto, non mi è ben chiaro con una produttività in contrazione, e quindi con minori introiti fiscali, unica fonte di “reddito” per uno Stato, con quali risorse si dovrebbero fare gli investimenti virtuosi cui fai cenno.
      Ma, al di là di questo, se mettere mano alla Costituzione non sollevasse le turbe psichiche che solleva ogni volta, proporrei di spostare l’articolo 4 al numero 1, perché il problema non è il diritto al lavoro, quanto piuttosto il dovere di svolgerlo concorrendo al sostegno dello Stato, direttamente o indirettamente. Perché si ha diritto a qualcosa solo se si concorre a sostenerne l’esistenza, non per diritto di nascita.
      Ma so di dar la stura ad una discussione infinita, che poi è l’essenza di tutti i nostri problemi. Scusatemi.
      gg

    • Alessandro

      per me può chiudersi qui la discussione, visto che è palese che alla fine dei salmi l’Italia è così grazie alla maggioranza del popolo italiano,se poi si vuole emigrare dalla propria nazione per rinunciare a combattere e a confrontarsi, così da togliere il paraocchi dell’ignoranza o della malafede, si emigri pure.

    • Alessandro, altra modifica che proporrei: non è mai colpa di qualcun altro, se le cose vanno male è colpa di tutti, nessuno escluso.
      gg

    • Alessandro

      Si, certo Guido, siamo tutti noi che ogni volta quando siamo di fronte ad una scelta, come in ogni democrazia, stabiliamo la scelta della decisione della maggioranza.

    • Guido Botteri

      Fausto cavalli, hai scritto
      // pone l’accento piuttosto sul benessere effettivo della popolazione, favorito da investimenti pubblici sull’istruzione, sanità, ambiente, reddito di cittadinanza o meglio piani di lavoro transitori. //
      ma io sinceramente non vedo questo aumentato benessere effettivo della popolazione, e del resto tu stesso hai scritto
      // L’austerità, quindi, è da intendersi come riduzione della spese pubblica per il welfare. Con essa si favorisce il diffondersi delle disuguaglianze economiche nella popolazione //
      che io leggo, perdonami, come una contraddizione rispetto al punto precedente.
      In effetti le spese a carico del malato sono aumentate enormemente, e c’è gente che rinuncia a curarsi perché non ne ha la possibilità economica.
      Non capisco dunque dove sarebbero questi investimenti pubblici sulla sanità, per esempio, se ammalarsi sta diventando un lusso, e se per trovare cure alle malattie bisogna inviare soldi alle varie raccolte che continuamente ci ricordano che c’è gente malata. Sì, d’accordo, ma non dovrebbe essere compito della sanità pubblica occuparsene?

      Quanto al reddito di cittadinanza, se fosse quello che la parola dice, e cioè che uno riceve un reddito per il solo fatto di essere cittadino (cambiategli nome, perché mi dicono che si tratta di altro) sarebbe qualcosa di altamente negativo.
      Immagina uno che che si sveglia la mattina presto per andare al lavoro, invece di starsene beato nel lettuccio caldo, esce e spende tempo e denaro per raggiungere il posto di lavoro (sono stato un pendolare e in un certo periodo impiegavo più di tre ore, tra andata e ritorno; ma anche con tempi meno disumani il disagio può essere notevole) e poi tornare a casa. Fuori casa deve spendere denaro per il pranzo. Deve lavorare invece di essere libero e dedicarsi alla famiglia.
      Tutto questo per cosa? Per “guadagnare” uno stipendio un po’ maggiore del reddito di cittadinanza, che, tolte le spese, finisce per essere addirittura di meno, in molti casi?
      Ma credi che questo invoglierebbe la gente a lavorare?
      O non credi che chi già lavora o smetterebbe di lavorare (tanto c’è il reddito di cittadinanza) o si sentirebbe una persona onesta che è presa in giro dal sistema ?
      Questo se il reddito di cittadinanza fosse quello che dice la parola. Se è altra cosa, come si dice, gli cambiassero il nome, perché la gente fraintende, e non è onesto.
      Secondo me.

  7. Alessandro

    A parer mio è un problema culturale della popolazione che poco ha a che fare con chi ci governa.
    Vedo gente accanirsi su chi vuole risolvere dei problemi senza proporre soluzioni alternative appoggiando la crescita e l’aumento di valore aggiunto in economia.
    Vedo continuamente un popolo che vive e ha vissuto tramite raccomandazioni e favoreggiamenti.
    Perché in Italia è così: sei incapace? La colpa è di chi non ti lascia lavorare.
    Una popolazione mediamente assai credula, oltre che sprovvista (sempre in media) dei più elementari strumenti di valutazione economica delle politiche pubbliche, ed al contempo ancora pesantemente contaminata dall’oppressione del pensiero delle “due chiese”, quella cattolica e quella comunista, sul disvalore sociale del denaro, è da sempre fertile terreno di scorribanda di demagoghi ed incantatori di serpenti.
    Secondo voi (in media) la decrescita è conseguenza dell’ignoranza o della malafede?

    • donato b

      Metà e metà, secondo il mio modesto parere.
      Ciao, Donato.

  8. Rinaldo Sorgenti

    Molto bello ed importante questo spunto di Donato Barone, che merita certo un approfondimento ed un possibile seguito di proposte ed iniziative.
    Condivido quanto detto nei commenti precedenti da persone che ammiro ed apprezzo nei tanti commenti che ci offrono su questo blog.
    Per cercare di dare un piccolo e modesto contributo, limitandomi ad un contesto – quello dell’energia – che mi appassiona da tempo, vorrei condividere una proposta, forse utopistica, che condividevo con un amico nei giorni scorsi, stimolato da una sua brillante articolo: Ambiente – Cambiamento climatico, la sfida si gioca nel “nuovo sud”, che potrete leggere cliccando su questo sito: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3745

    Sintetizzo qui di seguito il mio pensiero:

    Q U O T E

    Circa 20 anni fa immaginai di dare un piccolo contributo sul tema del mancato accesso all’energia che riguarda ancora circa un terzo della popolazione mondiale e dal quale discendono poi molti dei problemi che infine coinvolgono noi tutti e presi l’iniziativa di formulare una proposta che cercai invano di portare all’attenzione dell’allora Presidente del Consiglio, in particolare in occasione del G8 di Gleanagles (U.K.).

    In sintesi:

    a – E’ indubbia l’esigenza di creare le condizioni per affrontare il gravoso problema delle miserevoli condizioni in cui vivono circa un terzo degli esseri umani nei troppi Paesi sottosviluppati del mondo.

    b – Sono altrettanto evidenti le pesanti ripercussioni negative che tale condizione esercita su tutti noi ed i Paesi avanzati in generale (le cronache di tutti i giorni lo certificano, purtroppo).

    c – Anche se il mondo “avanzato” continuasse a far finta, colpevolmente, di non vedere addirittura l’ovvio, è indubbio che tali Paesi dovranno velocemente accedere all’energia – volano indiscutibile di benessere e di sviluppo – e se non aiutati a farlo in maniera intelligente e razionale, non potranno che drasticamente peggiorare le stesse condizioni per le quali i “ricchi e furbi” del mondo sperperano immani risorse economiche (leggi: incentivi vari) a beneficio solo di solerti speculatori.

    d – Occorre un meccanismo volontaristico ma efficace che affronti i problemi succitati e renda disponibili tali risorse per un impiego più razionale e che, incredibilmente, produrrebbe dei risultati concreti e probabilmente ben superiori anche sul tema dell’utopico obiettivo sopra menzionato: influire sul cambiamento climatico e ridurre le emissioni di CO2eq in atmosfera.

    e – I benefici di tale azione sarebbero concreti, misurabili ed efficaci per molti (compresi i ricchi Paesi avanzati dell’Europa), contribuendo al rilancio dell’economia e quindi alla difesa del benessere di coloro i quali, comunque, quelle ingenti risorse economiche si trovano loro malgrado a dover mettere a disposizione, ma con il risultato attuale di ingrassare gli ingordi speculatori e non contribuire in alcun modo a risolvere i veri grandi problemi dell’umanità.

    Di che si tratta? Sostanzialmente di un: “Piano Marshall dell’energia”, che i Paesi avanzati OCSE avvierebbero per affrontare e contribuire a risolvere i gravi problemi dell’umanità e soprattutto del “Nuovo Sud” del mondo.

    Ci è ben noto che i Paesi avanzati, Ue in primis, siano all’avanguardia in termini di “efficienza tecnologica ed energetica” e tali loro conoscenze e capacità dovrebbero essere valorizzate e messe prontamente a disposizione per perseguire il grande obiettivo di ridurre le sempre più gravose ed inaccettabili disuguaglianze nelle condizioni di vita di quella parte enorme di umanità, che si ripercuotono poi drammaticamente anche a danno di noi stessi.

    Quante sono le centinaia di miliardi di dollari spesi (io dico sperperati) per inseguire il succitato utopico obiettivo climatico? Molte ogni anno e se ne vorrebbero impegnare ancora di più.
    Ebbene, definire un semplice meccanismo che preveda una contribuzione basata su un parametro relativamente semplice da riscontrare: “il PIL dei Paesi OCSE” e determinare un contributo percentuale su tale GDP per mettere a disposizione le risorse necessarie ad avviare il suddetto “Piano”, sarebbe il modo per avviare tale meccanismo.
    Tali importanti risorse potrebbero essere gestite da Istituzioni Internazionali tipo la Banca Mondiale e sarebbero utilizzati per finanziare la costruzione di importanti infrastrutture energetiche (od il differenziale di costo tra impianti convenzionali – per esempio finanziati dai cinesi – e quelli più avanzati), con l’impiego delle più avanzate tecnologie disponibili, nei Paesi sottosviluppati ed in via di sviluppo, al fine di celermente portare il beneficio della disponibilità di abbondante energia ed elettricità in tali Paesi.
    E’ evidente che tali capitali sarebbero impiegati per commissionare la fornitura di tali impianti ed infrastrutture alle grandi imprese operanti nei suddetti Paesi OCSE (ed in Europa abbiamo le maggiori capacità in questo contesto), ritornando quindi nelle mani di coloro che in primis hanno contribuito a metterle a disposizione, ma con l’ulteriore enorme vantaggio di rilanciare l’economia in tali Paesi, l’occupazione ed il conseguente benessere e sviluppo.

    Parallelamente, si determinerebbe anche un concreto e consistente beneficio ambientale, quello vero, della drastica riduzione delle emissioni davvero nocive: “Ossidi di Zolfo, di Azoto e Particolato Fine” che documentatamente incidono sulla salute di tutti ed in modo drastico e particolare dei poveri che vivono in tali Paesi sottosviluppati, dove circa 2,7 miliardi di esseri umani sono costretti a cucinare e riscaldare le loro miserevoli abitazioni con biomassa vegetale ed animale e con danni per la loro salute davvero enormi.
    Ma la sorpresa non finirebbe qui. Infatti, con l’uso delle moderne ed avanzate tecnologie, è evidente che l’efficienza di combustione e conversione energetica sarebbe a livelli molto maggiori di quanto avvenga oggi con i vecchi ed obsoleti impianti (peraltro, da dismettere) o con l’improprio uso delle risorse attuali, riducendo drasticamente (con tassi percentuali ben superiori agli utopici obiettivi Ue) anche le emissioni tanto demonizzate di “Anidride Carbonica” e parallelamente riducendo drasticamente anche i consumi di combustibili fossili.
    Probabilmente, un sostanziale aumento della domanda di tale moderne tecnologie per soddisfare le esigenze sopracitate, potrebbe generare un vantaggio anche per gli stessi Paesi avanzati, stimolando l’ammodernamento degli impianti anche in questi Paesi.

    Chi risulterebbe svantaggiato da tale iniziativa? Indubbiamente i diversi speculatori che cavalcano le utopiche politiche ambientali che hanno portato alle inefficaci politiche finora varate, a partire dal “Protocollo di Kyoto” per arrivare alla “CoP21 di Parigi” ed annunciato perverso seguito, ma non credo che di questo l’umanità se ne debba più di tanto preoccupare. Anzi.

    U N Q U O T E

    • donato b

      L’idea del “Piano Marshall dell’energia” mi trova perfettamente d’accordo come il resto dell’analisi, ma il problema credo sia nei Paesi che dovrebbero usufruirne.
      Un piccolo esempio riuscirà a chiarire meglio il mio pensiero. Nelle ultime due COP, ma anche in quelle precedenti, uno degli scogli maggiori cui si sono trovati di fronte i negoziatori, è stato il netto rifiuto delle delegazioni dei Paesi in via di sviluppo di ogni forma di controllo e/o di indirizzo nell’uso dei fondi da trasferire dai Paesi sviluppati a quelli del Sud del Mondo. Questi ultimi vogliono disporre a proprio piacimento delle ingenti risorse finanziarie che i Paesi sviluppati dovrebbero metter a loro a disposizione. D’altro canto i Paesi sviluppati vorrebbero utilizzare questi fondi nel modo indicato nel commento: a vantaggio delle proprie asfittiche economie. Lo stridente contrasto tra le due linee di pensiero, spiega perché non si riesca a rendere produttive le COP. Le colpe non stanno mai da una parte sola! 🙂
      In questa situazione, potrebbe funzionare il “Piano Marshall dell’energia”?
      Ciao, Donato.

    • Rinaldo Sorgenti

      Già!
      Ma è appunto per uscire dalla retorica speculativa che non è pensabile di giusto trasferire delle ingenti risorse perché poi siano disperse in mille rivoli ed opportunismi, che occorre programmare un intervento concreto e ragionato che affronti il grave problema del mancato accesso all’energia (indubitabile volano di sviluppo e benessere) da parte di quel terzo dell’umanità che ancora non ne può disporre.
      Infatti, non si tratterebbe di continuare ad alimentare le teorie climatiche (di cui alle retoriche CoP) con tutte le evidenti speculazioni che si sono finora prodotte, ma di affrontare un assoluto enorme concreto problema, che penalizza una grande parte dell’umanità E con ripercussioni che ricadono inevitabilmente anche sui Paesi avanzati.
      E’ un enorme problema che è difficile non riconoscere e condividere, così come lo è quello della FAME, dove la percentuale è certo sces rispetto a 20-30 anni fa, ma 800 milioni di esseri umani ancora in sofferenza non può essere banalmente accantonato, mentre si sperperano un’infinità di risorse economiche per alimentare incredibili teorie climatiche.

      Facendolo in modo da creare anche delle ragionevoli condizioni perché i finanziatori (i Paesi OCSE) ne possano a loro volta trarre beneficio (sia diretto che indiretto), potrebbe creare le condizioni per uscire appunto dalla penosa e fasulla retorica speculativa che ben conosciamo, ma facendo qualcosa di assolutamente utile e necessario.

      Vorrei proprio vedere chi si potrebbe opporre ad interventi che consentano di affrontare situazioni concrete come quelle indicate.

  9. Guido Botteri

    Vorrei aggiungere un’altra considerazione, che reputo importante.
    nel medioevo, diciamo nell’anno mille, giusto per avere un punto di riferimento, c’erano circa trecento milioni di persone, su questo pianeta. Eppure c’era gente che moriva di fame. Segno che il pianeta produceva a stento cibo per trecento milioni di persone.
    Ora siamo sette miliardi e mezzo di persone, circa, e la percentuale di affamati è diminuita, mentre è aumentata la percentuale di obesi. Ci dicono che molte persone fuggirebbero dal loro Paese per fame, ma non vedo le persone deperite dell’epoca della fame in Biafra (per chi se la ricorda). Quelli, sì, che avevano fame e ci morivano.
    Noto che il personaggio morto di fame, che era così popolare nella letteratura di una volta, compare sempre meno spesso.
    L’affamato di oggi butta la pasta perché non gli piace. Quelli di una volta non avrebbero buttato nulla, e conosco persone di buona famiglia (marchesi) che in tempo di guerra hanno mangiato le bucce dei piselli. Non c’era altro, la fame è fame, e se hai fame mangi qualsiasi cosa.
    Ecco, voglio dire che la decrescita non è quella bella cosa sostenibile che vi propone qualcuno che ha in mente la stizza del ricco e potente nel convivere con il popolino numeroso e ingombrante.
    I sapori di una volta? Se li volete li trovate, basta pagare.
    Una volta li provava solo il ricco. Il condimento che rendeva buone le pietanze del povero era la fame.

    Ma la cosa più importante è che decrescita vuol dire produrre meno (cibo, per esempio), e con meno cibo si cibano meno persone, e se meno persone si cibano, che ne è di quelle che non troveranno abbastanza cibo per nutrirsi?
    Oh, certo, per il ricco che rimpiange quando i ricchi avevano tutto, e i poveri niente, questo non è un problema.
    La decrescita [in]felice vuol portare alla diminuzione della popolazione, e quindi alla scomparsa di milioni, magari miliardi, di persone.
    Scomparsa che qualcuno dice di volere “dolce” (“dolce rientro”), ma che dolce non può essere. Le persone non possono scomparire da questo pianeta “dolcemente”.
    Secondo me.

    • donato b

      Caro Guido, ogni tanto il genere umano si intruppa dietro il pifferaio magico di turno. Nel 1964 I. Asimov scrisse un articolo
      ( http://www.nytimes.com/books/97/03/23/lifetimes/asi-v-fair.html )
      in cui descriveva la vita nel 2014. Alcune delle cose che scrisse si sono rivelate azzeccate, altre no, com’era ovvio che fosse. Egli aveva individuato, coerentemente con le tesi allora dominanti, nella sovrappopolazione il principale problema del mondo nel 2014. Oggi l’incremento della popolazione mondiale è considerato un problema, ma secondario rispetto a quello principale ovvero il cambiamento climatico. Allora l’idea dominante era quella del Club di Roma e della bomba demografica, oggi è quella delle COPxx, Se oggi fosse ancora in vita, Asimov dedicherebbe ampio spazio al cambiamento climatico che era del tutto assente nel suo lavoro del 1964 ed avrebbe idee un po’ diverse circa il problema della sovrappopolazione del pianeta. Nel 1964 la rivoluzione verde era di là da venire e lo spettro della fame, quella vera di cui parli tu, era estremamente reale.
      .
      Guido, il problema della decrescita si, decrescita no, credo sia legato al timore che la crescita determini danni irreparabili all’ambiente (la teoria dell’impronta antropica che ci fa consumare in meno di sei mesi la nostra quota di risorse mondiali, la conosciamo benissimo) e che alla lunga sia del tutto insostenibile. Questi timori non credo che siano del tutto privi di fondamento, ma sono dell’avviso che i problemi paventati, non siano risolvibili senza aver a disposizione energia in abbondanza ed a basso costo. La fusione nucleare su cui sperava molto Asimov, è ancora di là da venire e le altre fonti di energia “pulita e rinnovabile” da lui immaginate, si sono rivelate costose e possibili solo a costo di enormi sacrifici che facciamo in molti, ma a vantaggio di pochi. E con questo chiudiamo il cerchio in quanto ci rendiamo conto che non è con la decrescita che possiamo risolvere i nostri problemi, ma con la crescita che sarà in grado di fornire quei mezzi economici necessari a consentire la messa in atto di progetti capaci di permettere a una popolazione sempre più numerosa, di vivere attingendo a meno risorse di quelle a cui attingevano le generazioni precedenti. Senza rivoluzione verde moriremmo letteralmente di fame, come aveva previsto Asimov, ma la rivoluzione verde ha rappresentato un’evoluzione tecnologica che ha risolto buona parte del problema. Secondo alcuni essa ha prodotto anche conseguenze negative, ma mentre queste si possono correggere, l’alternativa avrebbe messo a rischio le sorti dell’intera umanità.
      Ciao, Donato.

  10. Guido Botteri

    L’argomento è spinoso e delicato perché rischia di sfociare nella politica. Da tecnico quale sono, cercherò di restare nell’ambito della scienza tenendomi quanto più distante possibile dalla politica.
    Sono d’accordo con quanto detto da Donato e Mariani, due persone che stimo moltissimo e con le quali mi trovo quasi sempre d’accordo.
    Vorrei aggiungere che secondo me molta gente non ha capito cosa siano i diritti e cosa siano i doveri.
    Cosa c’entrano i diritti con quanto stiamo dicendo? C’entrano il 100%, secondo me.
    Cosa sono i diritti? Come sono legati ai doveri?
    Facciamo il caso di un disabile che necessiti di fisioterapia. Ha diritto a delle cure. Ed egli riceve le cure necessarie, se siamo all’inizio dell’anno.
    Arrivato alla fine dell’anno, si vede rifiutare le cure, perché “non ci sono soldi”.
    Ecco il legame tra diritti, doveri e prestazioni. I soldi. Se ci sono, esistono i diritti, se non ci sono, dei tuoi diritti puoi farne carta straccia.
    Addirittura quest’anno, a Napoli, alcuni disabili dovranno pagare la metà del costo di queste prestazioni, tanto che varie persone hanno rinunciato a questi “diritti”, visto che gli costa meno procurarsi le prestazioni direttamente senza passare per l’ASL.
    Ricordo quando ci dettero i buoni libro per la scuola, e il libraio ci disse che erano carta straccia perché il Comune non pagava. Altri “diritti” che sono tali quando ci sono i soldi, ma finiscono quando soldi non ce ne sono più.

    Voglio dire, e penso che molti se ne saranno accorti, che in tempo di vacche grasse (quando l’economia fila) i diritti aumentano, vengono onorati, sono veri. In tempo di vacche magre i diritti tendono a sparire, che è quello che sta accadendo in quest’epoca di follia decrescista.

    Volere la decrescita quindi implica la perdita o comunque lo scadimento dei diritti, inevitabilmente.
    Secondo me.

  11. Luca Rocca

    Una decrescita dell’ 2% del mio reddito non influirebbe particolarmente sul mio stile di vita: cambierei la durata delle mie ferie o non cambierei l’automobile, Il problema e’ che questo si rifletterebbe sulle persone che dalle mie spese ricavano il loro reddito fino in fondo alla catena produttiva.
    In fondo alla catena produttiva vivono persone ai limiti della sopravvivenza e , per loro, la mia virtuosa decrescita significherebbe non avere cibo per il 2% dei 365 giorni dell’ anno, quindi non mangiare per 7 giorni e mezzo.
    Si dovrebbe fare una decrescita proporzionale ma ci hanno già provato col comunismo e non ha funzionato.

  12. Luigi Mariani

    Caro Donato,
    l’analisi mi pare molto interessante e sono in particolare d’accordo con te sul fatto che occorra promuovere la crescita economica, non la decrescita.
    Aggiungo che a mio avviso il nodo della questione sta nel fatto che gli Stati (Italia inclusa) sottraggono ai cittadini quote rilevantissime del reddito (in Italia il prelievo fiscale è oltre il 50% del reddito complessivo) con criteri di redistribuzione che privilegiano le oligarchie dominanti (se sei nel sistema hai tutto, se sei fuori non hai nulla -> in chiave simbolica pensa agli stipendi di Marra…) e non restituiscono i servizi che invece ci si attenderebbe (e per servizi non penso solo alla sanità e alla pubblica assistenza ma anche alle infrastrutture che sono all base delle crescita economica -> sempre in chiave simbolica pensa al ponte caduto a Lecco alcuni mesi orsono..).
    In sostanza se a mio avviso non approdiamo ad uno stato leggero che si occupi delle vere emergenze sociali e non degli interessi di oligarchie saldamente ancorate al cuore del sistema, la coperta sarà sempre più corta facendo scendere quote sempre maggiori della popolazione al di sotto della soglia di povertà e disincentivando al contempo ogni iniziativa imprenditoriale seria.
    Quella che sto tracciando è una prospettiva liberale su cui alle elezioni in Italia potrebbe convergere grossomodo l’1% dei voti, immagino. Oggi infatti gran parte di quelli che si lamentano della ineguale distribuzione della ricchezza pensano ad uno stato che aumenti ulteriormente la pressione fiscale, dando così il colpo finale ad un cavallo già da tempo stramazzato.
    Luigi

    • donato b

      Caro Luigi, condivido completamente le tue considerazioni e anche l’amara conclusione circa la posizione estremamente minoritaria di proposte come quella che tu hai fatto e che io condivido.
      .
      Sulla base di quanto è a mia conoscenza, la buona imprenditorialità, quella che funziona e dovrebbe generare valore aggiunto, è fortemente svantaggiata in un Paese che privilegia altre forme di imprenditorialità: quelle degli “amici degli amici”, tanto per intenderci. Un imprenditore che fa il suo mestiere e lo fa bene poco o nulla può in una realtà in cui i committenti (pubblici e non) badano a cose diverse dalla qualità.
      Tu hai fatto l’esempio del ponte crollato a Lecco ed io potrei farti centinaia di esempi, ma sarebbe inutile ai fini del nostro discorso. Il problema sta nel modo in cui si “selezionano” tecnici ed esecutori. Se la professionalità e la capacità fossero l’unico metro di giudizio, avremmo delle ricadute, in termini di efficacia della spesa e di soddisfazione dell’utenza, estremamente gratificanti. La realtà è, invece, completamente diversa.
      La ragione è molto semplice: la ricerca della rendita può avvenire in modo legale o illegale e ciò è scritto nero su bianco in ogni lavoro di economia che si interessa della questione, anche su Wikipedia. Nel campo di cui stiamo parlando, però, essa avviene quasi esclusivamente nel secondo modo. E qui mi zittisco altrimenti G. Guidi ci richiama all’ordine per aver travalicato gli scopi del blog e io rischierei di scrivere cose di cui potrei pentirmi! 🙂
      Ciao, Donato.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Categorie

Termini di utilizzo

Licenza Creative Commons
Climatemonitor di Guido Guidi è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale 4.0 Internazionale.
Permessi ulteriori rispetto alle finalità della presente licenza possono essere disponibili presso info@climatemonitor.it.
scrivi a info@climatemonitor.it
Translate »