La mia formazione musicale è passata, tra le altre cose, attraverso i suggerimenti del titolare del negozio di dischi sulla via che portava dall’ufficio in cui lavorava mia madre, a casa mia. Il meccanismo era abbastanza singolare: io chiedevo a mia mamma di comprare un disco (ebbene sí, c’era il vinile, anche se ancora per poco), lei lo chiedeva al negoziante, e lui ribatteva con una controproposta.
Tra i vari “incidenti” ricordo una volta in cui avevo chiesto un album degli U2, e avevo ricevuto quello dei Simple Minds: Street Fighting Years. OK non era male, obbiettivamente… Ma avrei comunque preferito gli U2. Un’altra volta le chiesi un album di Billy Joel e mia madre, avendo capito male, tornò con l’ultimo di Billy Idol, il mitico Cyberpunk. Ricordo che di fronte alle mie proteste i miei cugini, più grandi e sgamati di me in fatto di musica rock, mi soffiarono l’album da sotto il naso: “preferisci Billy Joel? Allora questo lo prendiamo noi!”… E ricordo anche che ho ascoltato quell’album per almeno i 10 anni successivi, su una musicassetta registrata per gentile concessione dei miei stessi cugini, eleggendolo ad uno dei miei preferiti di sempre.
The Lucky Strike
Ma la combinazione di eventi più felice avvenne nel lontano 1990 quando di fronte alla richiesta di un album di Springsteen, mia madre tornò con un album di John Mellencamp: Big Daddy. Il negoziante aveva sentenziato: “Questo Mellencamp è molto meglio di Springsteen”. Sulle prime, solita scenata isterica, aggravata dal fatto che John, allora un (pur splendido) quarantenne, agli occhi di un ragazzino sembrava un nonnetto, in copertina del disco. Poi questo titolo… Big Daddy… Avevo 15 anni… a chi importava delle riflessioni di un vecchio sulla paternità?!
Gli diedi comunque una chance e… fu amore a prima vista, anzi, a primo ascolto. Musica folk americana, uso di strumenti della tradizione: fisarmonica, violini, chitarra acustica… Una scoperta meravigliosa, come possono esserlo certe scoperte musicali fatte da piccoli, in tempi in cui si poteva ancora godere del privilegio di accedere alla musica d’autore con una certa facilità, senza il fuoco di sbarramento dell’immondizia musicale di MTV o dei reality televisivi.
Dal 1990 ad oggi la musica di John Mellencamp mi ha sempre accompagnato, vera e propria colonna sonora della mia vita. Nonostante la differenza d’età, come in alcune coppie apparentemente improbabili in cui i sentimenti e le affinità prevalgono, sorprendentemente, sulle differenze anagrafiche o geografiche.
Un artista fuori dagli schemi
Di Mellencamp si potrebbero dire tante cose, troppe per un articolo come questo. Si può cominciare con il giudizio del negoziante che è difficile non sottoscrivere, vista la capacità mostrata da John nei decenni di sdoganarsi dal rock & roll tutto urletti e storielle adolescenziali degli esordi per approdare a forme musicali piu mature e piu colte, scavando fino alle radici della tradizione folk americana, sulle orme di Woodie Guthrie, James Brown o dello stesso Dylan, fresco di premio Nobel.
Proprio il recupero della tradizione musicale americana, l’utilizzo di strumenti dimenticati dal rock, la denuncia sociale, l’incupirsi progressivo dei toni, le riflessioni spesso amare sul senso della vita e le sue idee politiche lo hanno separato progressivamente dal suo “gemello” Springsteen, per relegarlo sempre più in un contesto musicale non-mainstream, ragione per cui il buon John è rimasto sostanzialmente sconosciuto in Europa, per quanto comunque molto popolare negli USA.
Ma questo non è un blog di musica rock e quindi, dopo una lunga e doverosa premessa, veniamo al dunque, ovvero all’attitudine non-mainstream di John che lo ha portato a schierarsi su posizioni vicine a quelle dei perdenti, degli umili, di una classe operaia o contadina vittime di abusi e di soprusi ad opera dei ricchi, dei potenti, dei politici senza scrupoli. Niente di nuovo, si dirà, ma è altrettanto vero che le sue posizioni sono state spesso oggetto di critiche da parte di tutti i partiti, repubblicani in testa, ma anche i “neo-dem” attualmente al potere, tutti Wall Street, New Economy e Goldman Sachs, così ben rappresentati dall’attuale candidata alle elezioni.
Mellencamp e la decrescita (in)felice
Il “populismo di sinistra” di John Mellencamp (Salon.com, 2015) si può ben considerare come precursore del movimento di protesta che oggi traina Donald Trump, fortissimo all’interno della classe media americana stremata da decenni di politiche “illuminate”, ovvero fondate sulla decrescita (in)felice.
Non a caso John è nato e ha sempre vissuto nell’Indiana, stato collocato nel bel mezzo della Rust Belt americana, quell’area molto vasta che va dall’Iowa alla Pennsylvania, passando anche per il Wisconsin, il Michigan e la West Virginia. Area che nel nome della “nuova economia” e delle politiche “verdi” è stata trasformata in un deserto industriale, serbatoio di miseria, disagio sociale, e rabbia. Un serbatoio molto simile a quel nord-est dell’Inghilterra che ha votato in massa, con la stessa rabbia, e per le stesse ragioni, la Brexit.
Un’America che i nostri media tengono ben nascosta, preferendo le copertine patinate dedicate agli unicorni della new economy, aziende high-tech che capitalizzano miliardi di dollari senza (o quasi) produrre il becco di un quattrino di utile. Un’america ben rappresentata dal Jackie Brown dell’dell’omonima, struggente canzone contenuta proprio in quell’album del lucky strike descritto sopra: Big Daddy (1989).
Another Sunny Day – 12/25
Ma è in “Another Sunny Day, 12/25” che Mellencamp affronta l’argomento dei profeti di sventura di professione. La canzone è del 1994 ma è tremendamente attuale. Del resto i salvamondo erano già in azione 20 anni fa, sebbene in modo meno organizzato, capillare e politicizzato di quanto non accada oggi. E il ritornello della canzone, se possibile, è ancora più attuale oggi di allora, nell’esprimere il rifiuto di vivere nella rabbia e nella paura, nella denuncia dell’inutilità di certe profezie di sventura e nella richiesta, piuttosto, di avere un lavoro da fare che permetta di mettere da parte anche solo pochi spiccioli. E quella invocazione finale: “smettetela di seminare disperazione” ha il tono rassegnato di chi sa che, comunque, non verrà ascoltato.
Mi ha sempre incuriosito il titolo di questa canzone… “Un altro giorno di sole, 12/25”… mi sono sempre chiesto se quel 12/25 facesse riferimento al giorno di Natale, magari uno di quei tanti natali in cui i profeti di sventura annunciano la fine del mondo perché splende il sole e non c’è, piuttosto, una soffice e spessa coltre di neve, come previsto del resto dal presepe. Eppure viene difficile pensare che nella Sacra Famiglia qualcuno avrebbe avuto da obbiettare per qualche grado in più, quella notte in cui il calore degli animali accompagnava la nascita del Salvatore. Altri tempi. E altri salvatori, soprattutto.
Di seguito il testo della canzone e la traduzione che ho osato fare, senza alcuna velleità artistica… Qualsiasi commento sul testo è inutile, giacché parla da sé. Per chi fosse interessato anche all’aspetto musicale, c’è Youtube, qui con testo in sovraimpressione. Chi volesse fare un passo in più… può sempre comprare qualche album di John. Peccato che i negozi di dischi siano in via di estinzione, insieme ai loro titolari con ambizioni di critico discografico.
E chissà se ci sono ancora mamme più o meno distratte che portano regali musicali ai loro figli…
John Mellencamp
Another Sunny Day 12/25, Album: Dance Naked (1994)
We see it on TV we get calls on the phone
By the prophets of doom they won’t leave us alone
The planet is dying and there’s no time to spare
They spend all our days sowing seeds of despair
We get enough bad news to harden our hearts
This fear what we feed on is what’s keeping us apart
To say that we doomed is just an obvious remark
And it don’t make you right it just keep you in the dark
I don’t want to live angry
I don’t want to live scared
I don’t need no more prophets crying
“Brother beware”
Just put some work in my hand
And give me a dollar to spare
And don’t let me sow those seeds of despair
Well this earth is a graveyard it will swallow our bones
It was here long before us it will be here when we’re gone
And it’s a vain generation that looks for a sign
Don’t you think we could make better use of our time
Yeah, the air could be cleaner and the water could be too
But what we do to each other are the worst things that we do
And we can treasure our freedoms behind our locked doors
But God speed the day when we’re lonely no more
I don’t want to live angry
I don’t want to live scared
I don’t need no more prophets crying
“Brother beware”
Just put some work in my hand
And give me a dollar to spare
And don’t let me sow those seeds of despair
John Mellencamp
Un’altra giornata di sole, 25/12, Album: Dance Naked (1994)
Lo vediamo in TV, ci chiamano al telefono
I profeti di sventura che non ci lasciano mai soli
Il pianeta sta morendo e non c’è tempo da perdere
Sprecano i nostri giorni seminando disperazione
Riceviamo abbastanza cattive notizie da indurire i nostri cuori
È la paura di cui ci nutrono a tenerci lontani gli uni dagli altri
Dire che siamo destinati alla morte è una ovvietà
Ma non serve ad altro che a tenerci al buio
Non voglio vivere nella rabbia
Non voglio vivere nella paura
Non ho bisogno di altri profeti che urlino
“Attento, fratello”
Datemi solo del lavoro da fare
E datemi un dollaro da mettere da parte
E smettetela di seminare disperazione
Beh questa terra è un cimitero e inghiottirà le nostre ossa
C’era prima di noi e continuerà ad esserci dopo
Ed è una generazione fatua quella che aspetta segnali premonitori
Quando potrebbe fare un uso migliore del suo tempo
Sí, l’aria potrebbe essere piú pulita e anche l’acqua
Ma quello che ci facciamo l’un l’altro è quanto di peggio si possa fare
Possiamo custodire le nostre libertà barricandoci in casa
Ma verrà presto il tempo in cui non saremo più soli
Non voglio vivere nella rabbia
Non voglio vivere nella paura
Non ho bisogno di altri profeti che urlino
“Attento, fratello”
Datemi solo del lavoro da fare
E datemi un dollaro da mettere da parte
E smettetela di seminare disperazione
“And give me a dollar to spare…”, esorta Mellenkamp, ma il mondo non funziona così…
Come funziona in realtà lo riassume passabilmente questa specie di “Mancur Olson for Dummies”:
https://www.youtube.com/watch?v=rStL7niR7gs
E l’implementazione la canta (~1960) Tom Lehrer, professore di matematica (Harvard) e scienze politiche (MIT):
Visto, molto carino, didascalico direi… 🙂
Ricordo ancora, quando negli anni 1998-2003, organizzai un duetto folk con un cantante e io alla chitarra acustica.
Feci ascoltare a Paolo (il cantante) l’album “dance naked”, del coguaro appunto (J. Mellencamp). Inserimmo così nella scaletta del duo, che ai tempi ci conoscevano nella zona come “Tin Tin in the Space”, quattro brani di John. Oltre a Mellencamp in repertorio avevamo anche brani di Kravitz (Let love rule), i motorpsyco , band norvegese straordinaria, ecc.. ma ricordo quando Paolo desiderava cantare Another Sunny Day e subito dopo When Margareth comes to town….bellissimo…un brano,il primo, di una profondità tale da far accapponare la pelle, dico sul serio! E io la suonavo con la mia acustica ( ero bravino ) dal vivo, insieme a Paolo. Ora quel duo non esiste più, io suono ancora, il mio strumento principale, il piano, sostanzialmente blues e jazz standard e suonerò sempre. Ogni tanto andando al lavoro riascolto quell’album capolavoro di John Cougar Mellencamp..mi ci perdo…la sua voce sembra un suono prodotto dalla natura, per questo cattura la sensibilità musicale di taluni, probabilmente anche la tua Massimo. Mi complimento con il tuo articolo che rende omaggio a un gran artista che ha capito come si suona e canta per davvero il rock!! E allo stesso tempo ha già capito quanto sia importante, utilizzando il proprio linguaggio musicale, far capire a chi lo ascoltasse, com’è facile dire di sì a qualsiasi propaganda scuotendo la testa da nord a sud.. negandoci il diritto, noi tutti, di riflettere su ciò che ci viene proposto da poteri sconosciuti che si mostrano solo ostentando una buona dose di buonismo. Adoro Mellencamp, adoro il negazionismo climatico che non ha mai negato nulla di ciò che il pianeta pianifica col proprio atteggiamento “naturale”, adoro questo articolo, Grazie Massimo. Davvero! Alessandro.
Grazie mille Alessandro, e’ sempre molto bello incontrare qualcuno che condivide le tue passioni, specie se si tratta di passioni di nicchia vero? 🙂 Dance Naked tra l’altro e’ un album davvero particolare, avendo seguito nell’ordine l’acustico Big Daddy, il rockettante Whenever We Wanted e lo Human Wheels che gli diede il picco (relativo ;)) di notorieta’ europea.
Dance Naked e’ un piccolo momento di riflessione prima della nuova svolta di Mr. Happy Go Lucky, altro capolavoro, a suo modo… Ma Dance Naked rimane una gemma, veramente. Ricordo che al tempo ero rimasto deluso per la poca durata dell’album, solo 29 minuti mi pare. E ricordo una recensione su Rolling Stones in cui lo definiva “l’essenza stessa del rock: breve, conciso, dritto al punto”. E in effetti, in quei 29 minuti…quanta roba! When Margareth Comes To Town, inutile dirlo… la mia favorita dell’album! 😀
Ma di John Mellencamp si puo’ discutere all’infinito, tanti sono gli album e tante sono le sfumature musicali e umane nel percorso di questo artista straordinario.
Sono contento che la musica continui ad essere un elemento centrale nella tua vita. Non puo’ che essere cosi’, certe passioni nascono dall’infanzia e non ci abbandonano mai piu’. Come la meteo del resto 😉
Bell’articolo davvero. Per fortuna che c’è questo posto dove tirare un sospiro di sollievo. L’ultima chicca ambientalista su un sito che dovrebbe essere di informatica ma che ogni tanto va off topic.
Per chi vuol farsi 2 risate e farsi aprire gli occhi https://www.tomshw.it/before-the-flood-gratis-online-vuole-farci-aprire-gli-occhi-81199#comment-2984735920
Per correttezza Vi dico subito che non ho visto il film nè mai lo guarderò. Così come a suo tempo mi sono rifiutato di vedere “Una scomoda verità”.
Grazie Alberto! Ti confermo che non lo guardero’ neanche io :):)
“Un’America che i nostri media tengono ben nascosta”
Non sempre. Qualche rara la fanno vedere, però dipingendola come la patria dei cafoni ignoranti. D’altronde i liberal metropolitani delle coste est ed ovest chiamano quelle belt “Dumbfuckistan”, vista la tendenza a non eleggere gente come Clinton o Obama.
Hai ragione Fabrizio, ma e’ proprio una rappresentazione grottesca, macchiettistica e insultante, ben rappresentata dal “bifolco” nel cartoon dei Simpson. Cartone rivoluzionario solo in apparenza visto che, ad esempio, i suoi creatori stanno facendo campagna elettorale pro-clinton anche con puntate in cui irridono trump o presentano putin come il grande fratello che e’ dietro ai brogli elettorali. E’ il “basket of deplorables”, “irredeemable”, come li ha splendidamente definiti clinton. Splendidamente, perche’ dietro quel disprezzo per chi non ce la fa c’e’ tutta l’essenza dell’attuale classe politica liberal americana, impegnata per le minoranze solo a parole, e molto piu’ a suo agio con i ceo delle grandi banche, quelli che pagano 250,000$ a “discorso”…
Fossero solo i Simpson. È un tormentone ricorrente in gran parte della produzione di Hollywood, siano film che telefilm; direi soprattutto questi ultimi, in particolare quelli di tipo poliziesco, dove se c’è un posto omertoso, o uno dove c’è un funzionario incapace (lo sceriffo è un classico), eccetera, è un posto di campagna. Sui film, almeno, ci sono anche storie di carattere opposto.
Non è una cosa solo americana. Pure certe produzioni della BBC tendono a mettere alla berlina il comportamento dei “campagnoli”, in modo direi quasi ossessivo, ovviamente in questo caso con peculiarità tutte britanniche.
Il contrasto tra realtà urbana e campagna mi pare è una tipica faglia della politica tra destra e sinistra americana. Tempo fa avevo anche letto un saggio architetturale a proposito delle diverse idee politiche e prospettive sull’urbanizzazione.
Grazie Luigi. E’ un tema a me caro, quello dell’America “vera”, quella profonda, del midwest, degli stati del sud, di gente che ha sempre avuto la cultura del lavoro, del riscatto, che ha sempre creduto in qualcosa, che si tratti di religione o anche solo di valori morali, patriottismo. Mi ha sempre attratto in contrapposizione all’america che invece entra a casa nostra attraverso le serie TV o i giornaloni del mainstream, quella di wall street, dei grattacieli, delle bagnine di baywatch (quelle le salviamo 😉 )
L’america “profonda” in realta’ e’ quella che ci e’ piu’ vicina, che sta soffrendo come l’europa per le conseguenze di politiche che hanno beneficiato pochi, a vantaggio di molti.
Riguardo ai giornali italiani, guarda, e’ come sparare sulla croce rossa. Lascia basiti in particolare il cambio di paradigma di giornali che per lustri hanno imprecato contro i politici indagati in italia, schierandosi dalla parte dei giudici contro la “politica corrotta”, e adesso abbaiano sdegnati all’FBI per il peccato mortale di non volere far cadere una inchiesta che Loretta Lynch, la “ministra della giustizia” americana, ha tentato in tutti i modi di insabbiare, fino all’incredibile incontro con Bill Clinton (suo padrino politico da 25 anni) in un aereo parcheggiato in un hangar di un aeroporto, al termine del quale l’inchiesta contro Hillary venne frettolosamente archiviata. Prima di essere riaperta una settimana fa, con grande scorno dei paladini della giustizia nostrani.
Giustizia a corrente alternata e secondo convenienza, come al solito. Poi si lamentano che non li legge piu’ nessuno…
Articolo bellissimo, molto suggestivo e pieno di cose per me nuove ed interessanti, specie per gli aspetti legati alla sociologia degli States, di cui i nostri media si guardano bene dall’informarci e che probabilmente sta dietro al successo di Trump, più che mai “scandaloso” (proprio ieri pare che Obama abbia paventato minacce per la democrazia se lui vincesse, il che secondo i canoni di democrazia europea è tutto fuorché decoroso per un presidente in carica, per cui mi aspetterei che venisse stigmatizzato dai nostri media così come fu stigmatizzata la minaccia di non riconoscimento dell’esito elettorale paventata da Trump).
Per capire le atmosfere del Rust belt (termine per me del tutto nuovo: come agronomo limito di norma le mie esplorazioni al Corn belt..) possono essere forse emblematiche le immagini di Mellin, cittadina del Wisconsin e che per assonanza rimanda al protagonista del post.