Il JRC, Joint Research Center, è l’advisor scientifico della Commissione Europea, una di quelle realtà poco note ma di grande valore, che l’unione di intenti e di risorse del nostro continente ha potuto rendere possibili. Pur con tutte le obiettive perplessità cui l’attualità ci obbliga a confrontarci, l’Unione Europea, ci mancherebbe, non è solo un insieme sconfinato di norme sulla dimensione delle banane, come troppo spesso si sente dire banalmente, e l’attività del JRC ne è testimone.
Mi sembra giusto quindi darvi conto di questa iniziativa, così come riportata dalle pagine web di Science Daily, ovvero il rilascio di un database di dati satellitari innovativo e unico nel suo genere, che mette a disposizione al contempo una figura d’insieme di facile comprensione e dei dettagli molto esplicativi di aspetti della nostra presunta ‘occupazione’ del pianeta che difficilmente potrebbero essere così facilmente fruibili.
Qualcosa che, a mio parere, si collega strettamente ai concetti di impatto sull’ambiente, di impronta del genere umano, troppo spesso generalizzati, esagerati e, soprattutto, affrontati senza la benché minima idea di quali siano le proporzioni tra i fattori cui ci si riferisce.
Alcuni esempi, ma sulle stesse pagine del JRC c’è la possibilità di approfondire molto di più, giusto per capire. Quanti ad esempio sanno che l’intera popolazione mondiale, ormai giunta ad una consistenza di 7,3 miliardi di individui, vive e lavora appena sul 7,6% della superficie delle terre emerse? Oppure che nove su dieci delle aree urbane a più elevata densità di popolazione sono in Asia? Oppure ancora che cinque su dieci delle aree urbanizzate più grandi sono negli StatiUniti? Aree urbane, tra l’altro, che sono cresciute negli ultimi 40 anni con un rateo quasi doppio di quello della popolazione globale.
Così, a caldo, non saprei come interpretare questi numeri, se non quello della differenza tra terra disponibile e terra occupata, una differenza davvero significativa. Certo però, che se come questa analisi dimostra inconfutabilmente, l’aumento della densità della popolazione nelle aree urbane e il loro svilupparsi in zone a rischio di disastro naturale, il collegamento con l’aumento dell’esposizione al rischio è inevitabile, e la confusione, laddove questi disastri accadono o dovessero accadere, con l’immagine di un clima esacerbato, sarà inevitabile.
Sembrerà che salti di palo in frasca, come si suol dire, ma in questo contesto può tornare utile dar conto di un’altra visione altrettanto esaustiva e globale delle cose. Non più numeri, almeno non solo, ma anche e soprattutto molto di quel che ci contraddistingue come esseri senzienti, il ragionamento.
È un intervento ad ampio spettro di Matt Ridley, giornalista scientifico di valore ma, mal glie ne incolga, giunto nel tempo alla convinzione che, no, non andremo tutti arrosto. Lo trovate sulle pagine della Global Warming Policy Foundation, think talk di chiara matrice scettica (uno contro mille altri che invece battono la grancassa sul disastro imminente). Mi ha colpito, oltre che la completezza degli argomenti, il disarmante elenco di catastrofi annunciate e mai avvenute, che con l’isteria climatica dei nostri giorni hanno in comune metodo, scopi e…naturalmente, inconsistenza. Come l’incubo della mia generazione, la desertificazione tanto per dirne una.
Si intitola, in modo molto esplicativo, Global Warming versus Global Greening. Buona lettura.
Sii il primo a commentare