…almeno nel Plateau Tibetano a quanto pare. Si tratta di uno studio di recente pubblicazione su Nature Communications:
Resilience of the Asian atmospheric circulation shown by Paleogene dust provenance
Sull’altopiano del Tibet, soffiano venti occidentali piuttosto costanti che ne caratterizzano il clima, rendendolo piuttosto arido. Questi ricercatori hanno pensato di provare a guardare ai venti osservando la provenienza delle polveri depositate nelle rocce più antiche e, con loro grande sorpresa, hanno scoperto che da almeno 42 milioni di anni, il regime dei venti di quell’area non ha subito variazioni importanti. E questo nonostante nel frattempo l’altitudine alla quale si trova l’altopiano sia aumentata, così come sono cresciute le montagne che lo sorreggono, quelle della catena dell’Himalaya.
Quindi, quel tipo di circolazione, nonostante le ere geologiche di cui si parla vedessero una concentrazione di CO2 tre o quattro volte superiore all’attuale e temperature decisamente più alte di ora, con la Terra che era praticamente una specie di bagno turco in cui prosperano i grandi mammiferi.
Quindi, scrivono spiegando i loro studi su Science Daily:
I risultati del nuovo studio mostrano che la forza e la direzione del vento sono piuttosto costanti sull’Asia centrale, quindi la quantità di precipitazioni in queste zone aride dipende per lo più dalla quantità di umidità nell’aria, che varia con i livelli di anidride carbonica e con la temperatura dell’aria. L’autore conclude che i venti rimarranno probabilmente costanti, ma il riscaldamento globale potrebbe avere impatto sulla pioggia attraverso le variazioni nel contenuto di umidità dell’aria.
Sarà, ma a me hanno insegnato che il vento varia in funzione della distribuzione della massa, ovvero della disposizione dei meccanismi della circolazione atmosferica a sua volta innescata dalla necessità di redistribuire il calore sul pianeta e regolata dai fattori astronomici, quindi, se si riscontra una così sorprendente resilienza della ventilazione su di un’area tanto estesa, sorge il dubbio che tanto la temperatura media superficiale, quanto a maggior ragione la CO2, non possano essere all’origine di sconvolgimenti di questi meccanismi. E, con riferimento alla pioggia, sempre dai vecchi libri, mi par di ricordare che le aree in sottovento a grandi catene montuose sono aride per definizione, a meno che non intervengano meccanismi di circolazione locale che alternano condizioni di aridità a condizioni di abbondante piovosità.
Ma, evidentemente, neanche la scoperta di un pattern costante per milioni di anni riesce ad avere il sopravvento sul paradigma del cambiamento prossimo venturo…
Caro Guido,
in effetti sui vecchi libri di geografia fisica sta scritto che l’umidità delle masse d’aria è funzione della distanza dai mari e dell’orografia che “estrae” tale umidità dalla circolazione generale. In base a tali schemi (che, ahimè, non vanno a CO2….) possiamo arguire che in Tibet di umidità ne arrivi pochissima in quanto il regime monsonico estivo da sud (che è attivo da maggio a ottobre) fa stau sul versante sud dell’Himalaya scaricando pioggia su India e Bangladesh e arrivando al Tibet del tutto privo di umidità. Inoltre quel poco di umidità che è portato dal regime di correnti occidentali che arrivano grossomodo dal Caspio si perde sulle catene montuose che stanno fra Afganistan e Kirgizistan, a valle delle quali c’è peraltro il deserto di Taklimakan, il che la dice lunga sull’umidità di tali masse d’aria. Superato tale deserto le correnti debbono di nuovo salire e raggiungono il Tibet del tutto asciutte.
Certo, con un’orografia diversa cambierebbe parecchio nel senso che senza Himalaya arriverebbe umidità dall’oceano indiano. Più difficile è invece che arrivi più umidità ad ovest perché la distanza dai mari è veramente ragguardevole.
Ciao.
Luigi