Nelle precedenti due puntate (Climatemonitor.it 2016a – 2016b) abbiamo esplorato in modo teorico l’affascinante tema dell’esternalità ambientale e identificato i principali attori nel processo che porta all’identificazione di tali esternalità e alla loro risoluzione. In questa terza tappa del nostro viaggio esamineremo alcuni casi reali di esternalità pelosa, ovvero sottesa a secondi fini molto meno nobili di quelli ufficialmente associati all’esternalità in questione.
La virtuosa Croazia
Il caso del referendum italiano è stato affrontato su questo stesso sito con le tre puntate dello Stupidario Referendario (climatemonitor 2016h), le quali meritano un aggiornamento. Nella seconda puntata dello Stupidario (climatemonitor.it 2016i) si erano citate le dichiarazioni francesi di Segolene Royale in materia di moratoria sulle trivellazioni nel Mediterraneo, dove per altro i francesi non hanno mai trovato un goccio di petrolio. Negli stessi giorni però, i giornali italiani, sempre solerti nel difendere la causa della de-industrializzazione, ergevano a paladini dell’ambiente i croati che, in pieno conflitto di interesse stante la competizione con l’Italia per lo sfruttamento dei giacimenti nell’Adriatico, annunciavano una moratoria sulle trivellazioni offshore, venendo quindi additati da Stampubblica (lastampa.it 2016) come mirabili esempi da imitare.
Ma era davvero così? Ovviamente no. Una recente notizia, inspiegabilmente trascurata dai giornali italiani, riguarda proprio la Croazia e la decisione di costruire un terminal di rigassificazione di LNG (gas naturale liquefatto). Dove? In Adriatico, naturalmente. Nello specifico, sull’isola di Krk. Andando a leggere con più attenzione scopriamo che la delibera è arrivata dopo la ratifica di un accordo all’interno dell’Energy Council USA – Unione Europea, un organismo creato nel 2009 per la “cooperazione energetica” (ec.europa.eu, 2016). E indovinate un po’ quale gas liquefatto arriverà nei porti croati nel nome di questa nobile cooperazione? Ma quello americano, naturalmente. La motivazione è che così si renderà la Croazia, e l’Unione Europea tutta, meno dipendenti dal gas russo: abbondante, economico e a un tiro di schioppo da casa nostra. Ma la Russia da un po’ di tempo non va più di moda, e notizie come questa aiutano anche a capire come mai.
Vale la pena sottolineare che il gas americano in questione viene prodotto utilizzando la tecnologia di estrazione più impattante per l’ambiente: il famigerato shale, che prevede la fratturazione di livelli piuttosto superficiali di accumuli idrocarburici facendo uso di ingenti quantità di acqua, con le accuse associate di causare terremoti, inquinare falde acquifere e sprecare acqua. Al di là della gravità e fondatezza delle accuse in questione si può onestamente sostenere che si tratta della tecnologia di estrazione più invasiva per l’ambiente, al punto da essere vietata in un numero crescente di stati.
Facendo una sintesi, il Giudice Supremo, forte del suo mandato politico, chiede ai paesi di de-carbonizzare. L’Italia, curiosamente, per eliminare l’esternalità in questione mette ai voti un referendum per interrompere la produzione di gas dai suoi stessi giacimenti offshore, senza tuttavia chiarire come rimediare all’ulteriore dipendenza energetica creata in questo modo. Magari con un bel terminale di rigassificazione?
La Croazia invece si spinge fino a vietare le trivellazioni in mare dove, a differenza che in Francia, il gas c’è eccome, ma nel frattempo si decide di investire un capitale nella costruzione di un impianto di rigassificazione che dal punto di vista dell’esternalità ambientale non risolve un bel niente, anzi: tanto valeva che la Croazia continuasse a estrarre il proprio gas, visto che le piattaforme in Adriatico hanno un impatto ambientale insignificante, se paragonate ad uno sviluppo shale.
In realtà è tutto molto chiaro: l’esternalità viene usata come pretesto per fare gli interessi dell’attore politico dominante, quello che con una mano sponsorizza e produce materiale scientifico a giustificazione della guerra all’esternalità, e con l’altra, attraverso un ennesimo attore politico (l’Energy Council già citato) infila sotto banco un bel terminale di rigassificazione che importi gas americano con in più la giustificazione (tutta politica questa volta) di una minore dipendenza dalla Russia.
Così facendo, però, si crea una situazione grottesca: ti impedisco di produrre il tuo gas (per altro in modo sostanzialmente innocuo per l’ambiente) e così facendo, in linea con la teoria economica sulle esternalità, ti punisco costringendoti all’acquisto di una materia prima più cara e arrecando un danno economico alla tua industria estrattiva e filiera produttiva in generale. Ma la punizione in questione, piuttosto che risolvere l’esternalità la ingigantisce: perchè il gas verrà bruciato comunque, producendo la stessa quantità di CO2, ma andando a rovinare la vita del Mr. Jones che fa il contadino in Oklahoma o nel North Dakota, e che tra un terremoto e l’altro si ritrova anche il metano che gli esce dal rubinetto mentre si lava i denti.
…E la virtuosa Polonia?
Non sta a guardare neanche lei. Di recente è stato inaugurato in pompa magna un grosso terminale di liquefazione LNG da 5 miliardi di metri cubi l’anno, l’equivalente di circa 80,000 barili di petrolio al giorno. Ovviamente, e dichiaratamente, in chiave anti-russa. In questo caso l’esternalità ambientale viene in secondo piano rispetto all’esigenza politica di confermare, coi fatti, la guerra fredda dichiarata dal governo nazionalista polacco allo scomodo vicino. Ma, come per l’esternalità croata, la scelta ha un costo: il prezzo di break-even per lo shale gas americano si aggira intorno ai 7-8$/MMBTU (globalriskinsight.com, 2015), contro il costo attuale del gas russo letteralmente stracciato da Gazprom a circa 4$/MMBTU (Fig.2). I polacchi saranno giustamente fieri della loro indipendenza dalla Russia (e della neo-acquisita dipendenza dal Qatar), ma pagheranno un prezzo, per questa fierezza.
E l’orgogliosa Francia?
Orgogliosa e indipendente secondo convenienza, come da peggiori cliché. Padroni di casa orgogliosi della COP21, arrivano a licenziare per mano diretta della politica un meteo-man accusato di aver messo in dubbio il Verbo del global warming (climatemonitor.it 2015) . Da una parte vietano gli sviluppi shale per motivi ambientali. Poi vietano le trivellazioni in mare dove comunque non c’è petrolio, per ergersi a paladini dell’ambiente mentre in Italia si vota il referendum. Ma nel frattempo le società energetiche francesi stringono accordi per importare, indovinate cosa?… Ma lo shale gas americano, naturalmente. Quindi vieto lo shale a casa mia, ma importo quello americano perchè, alla fin fine, l’esternalità se la becca il contadino del North Dakota. E se è contento lui…
Ma il capolavoro finale è sempre di Segolene Royale, che nel pieno dello scontro al calor bianco per il trattato di “libero scambio” con gli USA, si gioca la carta vincente. Indovinate cosa? Proprio il bando dello shale gas americano (oilprice.com 2016). Piú che di esternalità nascoste, forse bisognerebbe parlare di esternalità a corrente alternata.
Nella prossima quarta e ultima tappa del nostro viaggio concluderemo la carrellata tra vizi privati e pubbliche virtù di alcuni degli attori più coinvolti nel grande bluff delle esternalità pelose, a corrente alternata o secondo convenienza che le si voglia chiamare. E proveremo a tirare le somme, pur con tutti i limiti dovuti alle semplificazioni fatte e alla (relativa) brevità di questo articolo, se paragonata all’ampiezza dell’argomento trattato.
[…] Parte Terza (anche su AS) […]
[…] Autore: Massimo LupicinoData di pubblicazione: 02 Agosto 2016Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=41913 […]
Concordo assolutamente sulla “delocalizzazione delle esternalità”, tuttavia non posso non notare alcuni piccoli errori, pignoleria mia.
Lo shale, gli scisti, è la formazione geologica in cui sono intrappolati gli idrocarburi (eventualmente anche il petrolio). La tecnica usata è il fracking, la fratturazione idraulica di tali rocce, con tutti gli annessi e connessi. E’ una tecnica sconosciuta in Europa? Non proprio: ma se si tratta di usarla per il “verde” geotermico, pare che nessuno abbia nulla da dire. Sono invece del tutto infondate le voci sul suo uso in Emilia alla base dello sciame sismico del 2012, pura leggenda metropolitana. E’ una tecnica che, inoltre, stanno valutando Regno Unito, Polonia, Ucraina e forse anche i Paesi Baltici, che avrebbero giacimenti di idrocarburi di una certa consistenza intrappolati negli scisti, e che quindi potrebbero sfruttare.
Giocando a carte scoperte, fermiamoci un attimo: gli USA potrebbero avere interesse ad una partecipazione economica in questi giacimenti, e quindi a mantenere uno “stretto rapporto” con questi paesi? Certamente. Potrebbero all’opposto avere interesse ad intralciare lo sviluppo dell’estrazione di idrocarburi in queste zone, per esportare il loro gas? Altrettanto possibile (vedesi global warming ecc.) Qual è il punto? Che gli stessi, identici interessi politici ed economici sono quelli russi. Il “grande gioco” dell’energia (e non solo) europea non avviene tra bianco e nero, buono e cattivo, benefattore e sfruttatore, ma tra due grandi potenze ed altri attori maturi, ognuno con i propri interessi in gioco. E’ stato ad esempio un caso di alcuni mesi fa, la scoperta che dietro ai finanziamenti alle associazioni ambientaliste americane anti-fracking c’erano anche generosi contributi russi.
Ovviamente vanno considerate anche le esternalità sociali ed ambientali, nonché i costi finanziari. Peccato che, a dispetto degli ambientalisti che di tecnologia ed economia non ne capiscono mai gran ché, il settore del fracking sia in continua e rapida evoluzione. Ogni anno che passa, se non ogni mese, le tecnologie estrattive divengono più economiche e meno impattanti (e persino con minori emissioni di CO2), non avendo ancora raggiunto la propria maturità. Inoltre c’è un rapido ricambio degli attori in gioco, con compagnie spesso medie e piccole dedite all’estrazione (parlo degli USA), e pozzi che comunque hanno 2-3 anni di vita. I costi possono variare anche di 2-3 volte da pozzo a pozzo, a seconda delle caratteristiche geologiche e delle tecnologie impiegate.
Infine appunto i costi. Il numero dato non mi risulta in nessun modo: i future sul gas USA oscillano da tempo tra i 2$ ed i 3$ per MMBTU, ed è adeguato al break even delle compagnie che lo estraggono e che lo commerciano. Come per lo shale oil, però, anche lo shale gas può presentare condizioni molto differenti da pozzo a pozzo; tuttavia rimane generalmente più economico estrarre gas che petrolio dagli scisti.
Fossi in Mosca, comunque, non mi preoccuperei troppo. Le esportazioni di gas naturale liquefatto (LNG) richiedono grandi investimenti e lunghi tempi, e difficilmente potranno sostituire da oltre-atlantico i gasdotti già esistenti e funzionali. Certo possono dare un contributo e ridurre la quota di mercato russo, ma potenzialmente il gas arabo è più “pericoloso”. Non vedo inoltre alcuna buona ragione per dipendere da un solo paese energeticamente, amico, nemico o neutrale che sia: la diversificazione del proprio portafoglio energetico è sotto ogni punto di vista una cosa buona (e giusta); poi sarà il mercato ad imporre i prezzi (probabilmente gli americani ci guadagneranno un po’ ed i russi un po’ meno, ma senza grandi sconvolgimenti). La Russia ha per altro giacimenti di gas molto più grandi di quelli americani, ed il fracking può essere una tecnica per sfruttarli appieno ed a basso prezzo: Polonia, Ucraina ecc. continueranno a dover importare una quota di gas russo, a meno di rimanere “a secco”, mentre il possibile raddoppio del gasdotto baltico (osteggiato dagli stati dell’Europa centro-orientale sia filo- che anti-russi, perché li bypasserebbe tutti) garantirebbe comunque una fornitura totale e diretta alla Germania, che è il vero grande mercato del gas russo. Non mi strapperei insomma i capelli per il gas americano o russo, ecco.
Attendo il quarto articolo allora, saluti!
Ciao Filippo, qualche puntualizzazione anche da parte mia se pure in ritardo (causa ferie…)
– Il dato che citi sul prezzo del gas e’ quello che fa riferimento al mercato interno americano, ovvero essenzialmente all’Henry Hub. Questo e’ effettivamente il termometro del costo di produzione del gas sul mercato interno americano, ma allo stesso tempo non riflette in alcun modo il costo di break-even necessario per liquefare quel gas con costosi impianti LNG, ed esportarlo. I valori di break even cui fa riferimento l’articolo citato (7-8$ / MMBTU) sono persino ottimistici. Specie se si pensa che solo 3 anni fa si vedevano prezzi dell’ordine di 12-14$ / MMBTU sul mercato asiatico dell’LNG.
– Per quanto riguarda lo shale, a dispetto delle grandi speranze iniziali (si annunciavano presunte scoperte miliardarie ogni settimana) la realta’ e’ stata molto piu’ avara rispetto alle aspettative. In europa lo shale non e’ mai decollato. Anche i paesi piu’ promettenti come polonia e ucraina si sono ritrovati con un pugno di mosche in mano. Oltre al tema delle riserve, rimane quello dell’uso (spreco) di ingenti quantita’ di acqua e la necessita’ di grandi spazi per distribuire un gran numero di pozzi a bassa produttivita’ (prevalentemente orizzontali). In un ambiente densamente popolato come quello europeo, quand’anche tali riserve ci fossero veramente (!) rimarrebbe il problema ambientale e “spaziale”
– Infine per quanto riguarda le dipendenze, sono d’accordo con te. La diversificazione e’ un valore. Ma tra il diversificare e il rinunciare scientemente a mettere in produzione il PROPRIO gas per importarne uno che costa il doppio ce ne passa. Del resto il tema principale di questi articoli e’ che alla fin fine si puo’ fare quello che si vuole. Ma certe scelte “politiche” comportano comunque uno sperpero di denaro, e questo non si puo’ dimenticare (sebbene i soliti megafoni facciano di tutto per nascondercelo).
Ciao
Max