Commentando le fasi preparatorie della COP21 di Parigi, i lavori e, per finire, l’accordo raggiunto alla fine della Conferenza delle Parti parigina, ho ripetutamente messo in guardia circa l’impossibilità di raggiungere l’obbiettivo prefisso: contenere l’incremento della temperatura media globale al 2100 entro i 2°C rispetto all’epoca pre-industriale. Addirittura irrealistica la speranza di contenere tale riscaldamento entro 1,5°C rispetto all’era pre-industriale. In questo ripetevo quanto andavano dicendo diversi esperti del settore e molti commentatori. Eppure i giudizi finali, tranne quelli degli scettici, furono trionfalistici: il summit aveva raggiunto pienamente tutti i suoi obiettivi, anzi era andato oltre le aspettative in quanto gli accordi sottoscritti erano “ambiziosi”, per usare una parola che è stata inflazionata nel corso della kermesse climatica parigina. Meglio di quanto si potesse immaginare.
Dopo qualche mese i nodi cominciano a venire al pettine. E’ stato da poco pubblicato su Nature un articolo a firma di J. Rogelj, M. den Elzen, N. Hohne, T. Fransen, H. Fekete, H. Winkler, E. Schaeffer, F. Sha, K. Riahi e M. Meinshausen (da ora Rogelj et al., 2016) in cui viene messo in evidenza, nero su bianco, che anche se venissero raggiunti tutti gli obiettivi che i negoziatori hanno concordato, i cosiddetti INDC (Intended Nationally Determined Contributions), le emissioni sarebbero tali da portare le temperature globali al 2100 ben al di sopra di 2°C rispetto all’epoca preindustriale.
Paris Agreement climate proposals need a boost to keep warming well below 2 °C
Alla fine della COP21 furono individuati degli obiettivi di cui alcuni condizionati. In altre parole non tutti i Paesi si impegnarono a raggiungere gli obiettivi che si erano posti volontariamente (INDC), ma alcuni di essi condizionarono l’impegno all’erogazione di finanziamenti da parte dei paesi più ricchi o, per usare un linguaggio più tecnico, che avevano la responsabilità storica delle emissioni nel corso dell’era industriale. In mancanza di finanziamenti niente riduzione delle emissioni e, quindi, obiettivi globali non raggiungibili.
Rogelj et al., 2016 ha individuato diversi scenari di emissione e, utilizzando il modello semplificato MAGICC, per ognuno di essi, ha determinato la distribuzione di probabilità delle temperature medie globali al 2100. Sulla base della Tab. 1 di Rogelj et al., 2016, ho elaborato questo quadro semplificato in cui in corrispondenza dei vari scenari di emissione ho riportato l’incremento delle temperature al 2100 e la probabilità che esso non venga superato (in parentesi l’intervallo di incertezza).
scenario | temperatura media globale al 2100 (°C) e probabilità che essa non venga superata | ||
50% | 66% | 90% | |
nessuna politica di riduzione delle emissioni | 4,1 (3,5-4,5) | 4,5 (3.9-5,1) | 5,6 (4,8-6,3) |
attuali politiche di riduzione delle emissioni | 3,2 (3,1-3,4) | 3,6 (3.4-3,7) | 4,4 (4,2-4,6) |
INDC incondizionati | 2,9 (2,6-3,1) | 3,2 (2.9-3,4) | 3,9 (3,5-4,2) |
INDC condizionati | 2,7 (2,5-2,9) | 3,0 (2.7-3,1) | 3,7 (3,3-3,9) |
N.B. nella tabella originaria sono indicati anche gli intervalli di incertezza quando si considerano le incertezze negli scenari di emissione che in questo caso sono stati omessi per semplicità.
Forse per deformazione professionale sono convinto che un numero dica più di cento parole e un grafico o una tabella più di mille parole ed in questo caso il quadro numerico è di una disarmante evidenza.
L’aumento delle temperature medie globali al 2100 non potrà mai essere contenuto entro i 2°C rispetto all’era preindustriale. E questo sia che si raggiungano gli obiettivi di emissione fissati dai vari stati, sia che essi non vengano raggiunti.
Il percorso di riduzione delle emissioni delineato a Parigi, nell’ipotesi migliore, ci dice che nel 2100, con probabilità del 90%, non saranno superati i 3,7 °C di aumento della temperatura media globale rispetto all’epoca preindustriale, ma esiste la probabilità del 66% che tale incremento superi i 2°C.
Questo in buona sostanza il significato di Rogelj et al., 2016. Nell’articolo originale vengono descritti i metodi, sono presenti diversi diagrammi esplicativi piuttosto interessanti e vengono individuate delle possibili vie d’uscita. Gli autori suggeriscono, infatti, di utilizzare i prossimi appuntamenti il cui calendario è già fissato dagli accordi di Parigi, per assumere degli impegni più ambiziosi da raggiungere entro in 2030. In mancanza di impegni più sostanziosi da rispettare a partire da oggi, si arriverà al 2030 in condizioni tali da dover prevedere una riduzione delle emissioni “lacrime e sangue”: circa il 4%-5% annuo.
Per finire qualche considerazione personale. Per professione vivo in un mondo (quello dell’edilizia) che risulta essere uno dei principali bersagli delle politiche di riduzione delle emissioni. A breve l’obiettivo che dovremo raggiungere per legge sarà l’edificio ad emissioni quasi zero, cioè un edificio con un fabbisogno energetico prossimo allo zero. Il costo per raggiungere questo obiettivo è , però, enorme e, con i tempi che corrono, mi sa che gente che costruirà edifici di questo tipo ne troveremo sempre di meno. Il mercato edilizio è prostrato da anni e non si vedono schiarite all’orizzonte, la disponibilità economica delle famiglie è sempre più limitata per cui la vedo veramente brutta. In questo contesto socio-economico fortemente deteriorato si chiedono ulteriori e maggiori misure di contenimento delle emissioni, sulla scorta di elaborazioni modellistiche come quelle utilizzate da Rogelj et al., 2016. Su queste pagine ci si interroga da anni circa l’aderenza alla realtà dei modelli di bilancio energetico della Terra, circa la reale consistenza del concetto di sensibilità climatica, circa l’attendibilità dei modelli di circolazione globale le cui previsioni tendono a discostarsi in modo sensibile dalla realtà dei dati osservativi, circa la bontà dei processi di omogeneizzazione e di rianalisi con cui si cerca di conciliare i dati con in modelli (e non viceversa). La realtà è, però, un’altra cosa. E’ l’implementazione delle politiche basate su questi concetti ballerini e su questi modelli piuttosto improbabili nella vita reale e vi posso assicurare che queste politiche incidono in modo profondo e doloroso nel tessuto socio economico. Quando spiego ad un mio cliente che per costruire un fabbricato deve spendere il 10/20% in più per combattere il riscaldamento globale e senza alcun incentivo fiscale perché per le nuove costruzioni non sono previsti incentivi di sorta, il cliente se la prende con il legislatore e in ultima analisi con chi è a capo di tutto ciò: l’Unione Europea e le sue politiche di contenimento delle emissioni da prima della classe. Poi ci si meraviglia dell’euroscetticismo dilagante (per usare un eufemismo).
Non posso evitare una nota di colore finale. Questo articolo fu inviato per la revisione nel settembre 2015, quindi in tempo utile per essere pubblicato entro dicembre 2015. E’ stato pubblicato a maggio 2016. Sarà un caso?
Caro Franco, tristezza, amarezza, sfiducia questi i miei sentimenti di fronte ad una realtà che supera l’immaginazione. Rassegnato no, altrimenti dedicherei il mio tempo ad altro. Non ti nascondo che questo andazzo fa anche bene al portafogli in quanto per ogni compravendita o contratto di fitto di un immobile, serve un bell’attestato di prestazione energetica e sono soldi. 🙂
Quello che più mi indispettisce è, però, la sensazione che giriamo in tondo senza concludere nulla: carte, carte ed ancora carte. Di concreto nulla. Faccio un esempio. Da me viene Tizio e mi chiede un attestato di prestazione energetica del suo appartamento perché lo deve fittare o vendere a Caio. Il contratto è già fatto, manca la scartoffia da allegare all’atto formale ed io gliela fornisco: né Caio, né Tizio la guarderanno mai, né si cureranno delle raccomandazioni in essa contenute. Una perdita di tempo e di energie da paura.
Il cliente paga l’onorario (malvolentierei, ovviamente) e passa oltre.
La stessa cosa quando si ristruttura un fabbricato: in certi casi bisogna rendere lo stesso conforme alla legge sulla riduzione delle emissioni. Si fanno calcoli, previsioni di interventi che devono “mettere le carte a posto”. Alla fine si tratta solo di carte, di sostanza c’è poco o nulla. La gente con il passare del tempo è disposta ad utilizzare pareti a buona prestazione termica perché risparmia sul riscaldamento o raffrescamento, ma delle emissioni di CO2 non gli importa proprio niente, del clima che cambia e cambia male gli interessa altrettanto. Detto in altri termini una presa per i fondelli di quelle colossali.
Fino a che ci sono gli incentivi qualcuno si attiva per sfruttarli nel miglior modo possibile (anche oltre il lecito, in certi casi 🙂 ), ma appena essi cesseranno si ritornerà di corsa alle vecchie brutte abitudini.
Un mercato drogato che si reggerà fino a che verrà incentivato. Senza incentivi fine di tutto. I campi fotovoltaici hanno cessato di esistere allo spirare delle incentivazioni, i micro impianti sui tetti vanno avanti perché c’è ancora qualche beneficio (l’ENEL è obbligata a comperare l’energia prodotta), ma senza ciò, anche quelli andrebbero subito a finire nel dimenticatoio. Tira ancora un po’ l’eolico, grazie ai certificati verdi ed all’afflusso notevole di capitali dall’Est Europa (capitali di origine “fossile”, però 🙂 ).
Assistere a tutto ciò determina scoraggiamento e sconforto in quanto ci troviamo di fronte al solito vecchio gioco della corsa al contributo dello Stato: cessato quello fine. Abbiamo aperto aziende con il contributo dello Stato che poi hanno chiuso appena dopo aver aperto ( alcuni si sono arricchiti e molti ci hanno rimesso le penne). Allo stesso modo succederà con le energie alternative. Nel frattempo pantalone ha pagato e chi s’è visto s’è visto.
Ciao, Donato.
Ah, dimenticavo, per l’edilizia quando prenderà piede sul serio per la costruzione di nuovi edifici l’uso di prefabbricati? Sicurezza e affidabilità del progetto, moltissimi meno intoppi e imprevisti, costi chiari e fermi, tempi certi e brevi. Prestazioni energetiche sicure ed eccellenti.
Mai. Gli italiani non gradiscono le cose in serie, almeno dal punto di vista edilizio, vogliono l’originalità, hanno a cuore più l’estetica che la sicurezza e la funzionalità. Tutte cose che la produzione industriale non consente di ottenere. La prefabbricazione pesante in edilizia residenziale non ha mai attecchito se non per l’edilizia economica e popolare, ma anche in questi settori ha avuto vita breve e grama.
Ultimamente sto cominciando a vedere fabbricati con struttura portante in legno che vengono prodotti in stabilimento e montati in loco, ma siamo ancora lontani dai grandi numeri ed ho molte perplessità circa la durabilità di tali strutture. Almeno nelle aree caratterizzate da clima mediterraneo.
Ciao, Donato.
”
A breve l’obiettivo che dovremo raggiungere per legge sarà l’edificio ad emissioni quasi zero, cioè un edificio con un fabbisogno energetico prossimo allo zero
”
Sbaglio o per quello che ho capito io la frase di sopra è interpretabile sicuramente in modo sbagliato dal cittadino tipo? Nel senso che non è che il consumo di energia deve diventare prossimo allo zero, basta che l’apporto da fonti rinnovabili copra praticamente tutti i consumi, e mica in modo sincrono alla richiesta dell’edificio ma semplicemente come media annuale. Quindi una casa ben isolata che brucia metano ma che ha un 6kW di fotovoltaico e bei 4 mq di solare termico viene marcata come a fabbisogno nullo sull’anno quando invece è collegata alla rete del metano e a quella elettrica 24/24.
L’edificio a consumo quasi zero è una delle “invenzioni” dell’UE per raggiungere gli obiettivi di emissione nel 2020. In Italia la costruzione di edifici a consumo quasi zero diventerà obbligatoria a partire dal 2020 (dal 2018 l’obbligo scatta per gli edifici pubblici).
Questa tipologia di edifici è nata negli USA negli anni ’70 del secolo scorso e lo scopo era quello di ridurre in modo drastico il consumo di combustibili fossili: non che all’epoca ci si ponesse il problema delle emissioni, ma dopo la crisi energetica del 1973 si cercò di prendere le adeguate contromisure in quanto non andava a genio a nessuno di restare senza riscaldamento in pieno inverno qualora i paesi fornitori avessero deciso di tagliare la produzione di petrolio. Erano altri tempi e le problematiche erano diverse: lo scopo dell’edificio a consumo quasi zero era quello di non consumare combustibili di qualsiasi tipo e natura. Poiché zero consumo equivale a zero emissioni, l’edificio a consumo quasi zero è diventato il must dell’edilizia eco-sostenibile o a emissioni quasi zero. Che poi per costruirlo bisogna emettere CO2 è un altro paio di maniche, per cui sono nate le tecnologie note come bio-edilizia, ma entriamo in un altro campo.
.
Questa filosofia del costruire prende in considerazione, pertanto, quasi esclusivamente l’involucro esterno del fabbricato che è il punto debole del riscaldamento residenziale e non residenziale. Sulla scorta della mia esperienza professionale ciò che influisce in misura maggiore sulle prestazioni energetiche di un edificio è il modo in cui viene costruito il fabbricato. Un edificio a consumo quasi zero deve avere pareti caratterizzate da grande inerzia termica e fortemente isolate. Gli infissi devono essere studiati in modo da ridurre al minimo gli scambi d’aria tra l’ambiente interno riscaldato e l’esterno. Bisogna evitare il cassonetto dell’avvolgibile e l’installazione dei radiatori lungo le pareti esterne.
E’ necessario curare, inoltre, la distribuzione dell’aria all’interno dell’edificio per trasferire il calore dagli ambienti più caldi a quelli più freddi e creare nel fabbricato delle “riserve” di energia termica a cui attingere nei momenti di bisogno.
Oltre all’involucro esterno del fabbricato bisogna prestare molta attenzione all’esposizione dello stesso in modo da massimizzare gli apporti termici dall’esterno. L’ideale sarebbe quello di realizzare un edificio che si scaldasse solo ed esclusivamente con gli apporti termici del sole durante la giornata, con il calore emesso nelle normali attività di chi occupa l’unità immobiliare, con quello prodotto dall’illuminazione artificiale e che conservasse questo calore così a lungo ed in maniera così efficace da rendere inutile l’uso di fonti di calore artificiali (caldaie, caminetti, stufe e così via).
Come si può intuire, l’edificio a consumo quasi zero fu concepito per le zone fredde ed è lì che questa tecnologia si è sviluppata in modo più significativo (in Italia è la provincia di Bolzano che è all’avanguardia in questo campo).
Tutto ciò che abbiamo detto non vale per le aree a clima più mite: in questo caso il problema del riscaldamento diviene confrontabile con quello del raffrescamento. Se durante l’inverno la luce del sole è una risorsa in quanto riscalda gli ambienti che poi non si raffreddano a causa dell’isolamento delle pareti, in estate la cosa non funziona più: gli apporti termici solari sono da evitare come la peste altrimenti gli ambienti si surriscalderebbero e quindi si rende necessario prevedere una serie di accorgimenti per ridurre gli apporti termici dall’esterno e smaltire in qualche modo quelli prodotti all’interno degli ambienti.
Potrei continuare per pagine intere, ma non credo che quella dei commenti sia la sede adatta per discutere di edifici a consumo quasi zero. 🙂
Ciao, Donato.
Caro Donato, non poso non notare la tristezza che aleggia in tutto il tuo bel post, anche e soprattutto nella parte che riguarda il tuo lavoro. Mi verrebbe da dire anche rassegnazione ma non credo che questo sentimento aleggi troppo frequentemente qui su CM, per cui bisogna continuare a mostrare cosa non funziona nei modelli e nelle politiche associate al riscaldamento osservato.
Per il peer-review, da settembre a dicembre forse i tempi erano troppo stretti per una pubblicazione entro la fine di COP21, però qualche cattivo pensiero viene ugualmente, anche dopo aver letto questo post su WUWT
https://wattsupwiththat.com/2016/07/03/another-peer-reviewed-science-failure/
Ciao. Franco