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Il clima è vivo e lotta insieme a noi

Lo so, lo so, questo titolo è come un rigore a porta vuota, troppo facile. E pure inflazionato. Ma ci sta tutto, a meno che non preferiate che passi a qualcosa di ancora più inflazionato, la teoria del “gomblotto”.

Veniamo al dunque. Teoria e allarmi quotidiani vogliono che vada tutto a rotoli, ovvero che l’aumento indiscusso nel segno, ma abbondantemente discutibile nel valore assoluto, delle temperature medie globali porti ad una serie di conseguenze di per se già terribili, ma con il difetto ulteriore di poter amplificare le cause e quindi rendere ancor più terribili gli effetti del clima impazzito.

Ma, stranamente, a dispetto della teoria e degli allarmi il clima non collabora. Alcuni giorni fa, per esempio, uno dei nostri lettori – credo capitato qui per caso – ci metteva in guardia dal rovinoso effetto dello scioglimento del permafrost, da cui potrebbe derivare un rilascio di metano dalle riserve intrappolate nei suoli delle alte latitudini.

Ecco che su Nature Communications, quindi su vari media di divulgazione scientifica, esce un paper che frena e non poco sulle dinamiche di variazione del clima alle alte latitudini.

Glacial legacies on interglacial vegetation at the Pliocene-Pleistocene transition in NE Asia

Pare infatti che, nonostante il rapido riscaldamento cui sono soggette le alte latitudini, la vegetazione tardi a trarne vantaggio, per effetto di un lag temporale tra le variazioni climatiche e quelle ambientali ben più lungo di quanto si ritenesse sin qui. A dettare i tempi della ripresa della vegetazione nelle fasi interglaciali – quale quella che stiamo vivendo da diverse migliaia di anni – sarebbe l’intensità della fase glaciale precedente. E, siccome l’ultima glaciazione è stata molto intensa, le foreste delle alte latitudini non riescono a recuperare.

Dal momento che la copertura dei suoli, la presenza di vegetazione o di suolo gelato, entrano di diritto nel computo delle dinamiche dell’albedo, la risposta del sistema alla radiazione incidente, questo lag temporale deve essere preso in considerazione ai fini del calcolo della sensibilità climatica, cioè di quello che potrebbe accadere per effetto del riscaldamento. Se tutto questo non bastasse, a complicare ulteriormente le cose si legge nell’abstract di questo studio che l’intensità del riscaldamento delle fasi interglaciali non sembra avere effetti tangibili sulle dinamiche della vegetazione nella successiva fase glaciale. In sostanza non importa quanto caldo farà in questo interglaciale, quanto è piuttosto importante quanto freddo ha fatto nella scorsa glaciazione.

La notizia, che trovate esplicitata anche in questo articolo su Geology, entra di diritto tra quelle del “Dipartimento la scienza del clima è acquisita”, magari insieme a quest’altra, che vi suggerirei di approfondire, secondo cui le acque di scioglimento dei ghiacci groenlandesi potrebbero avere un effetto sulla Corrente del Golfo dirompente, ma di questo effetto non c’è ancora traccia, perché neanche la circolazione oceanica sembra voler collaborare.

Emerging impact of Greenland meltwater on deepwater formation in the North Atlantic Ocean

Insomma, il disastro da caldo può attendere, ammesso che non arrivi prima un’altra glaciazione.

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Published inAmbienteAttualitàClimatologia

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