Qualche settimana fa abbiamo parlato delle nuvole e dell’importanza degli aerosol nel processo di nucleazione. Abbiamo visto come a seconda della concentrazione di acido solforico nell’atmosfera cambiano velocità e modalità del processo di nucleazione. Abbiamo visto, inoltre, come la copertura nuvolosa determini variazioni nel bilancio radiativo terrestre e, in ultima analisi, cambiamenti climatici.
In questo post continueremo il discorso sugli aerosol e sul bilancio radiativo concentrandoci su una proprietà del materiale solido sospeso in atmosfera che potrebbe sembrare secondaria: la forma delle particelle che costituiscono l’aerosol.
La polvere dispersa nell’atmosfera ha una funzione estremamente importante nel modulare l’equilibrio radiativo in quanto influenza l’energia in entrata intercettando la radiazione ad onda corta proveniente dal Sole ed anche quella in uscita intercettando la radiazione ad onda lunga emessa dalla Terra. La fisica ci insegna che le proprietà ottiche di un mezzo sono estremamente importanti per studiare la capacità del mezzo stesso di interferire con la radiazione che lo attraversa. Intuitivamente è facilmente comprensibile che la quantità di polvere in sospensione, è in grado di modificare le caratteristiche ottiche dell’atmosfera e, quindi, il modo in cui la radiazione ad onda corta e quella ad onda lunga interagiscono con essa.
Alcuni ricercatori dell’Università di Milano Bicocca e dell’Università Statale di Milano hanno approfondito il problema ed hanno pubblicato su Nature l’articolo a firma di M. A. C. Potenza, S. Albani, B. Delmonte, S. Villa, T. Sanvito, B. Paroli, A. Pullia, G. Baccolo, N. Mahowald e V. Maggi (da ora Potenza et al., 2016) in cui hanno cercato di quantificare ciò che fino ad ora si conosceva solo qualitativamente.
Shape and size constraints on dust optical properties from the Dome C ice core, Antarctica
Nei modelli climatici si suppone, per semplicità, che le polveri atmosferiche abbiano forma sferica. In realtà le caratteristiche ottiche dell’atmosfera dipendono anche dalla forma delle particelle di polvere, per cui l’approssimazione introdotta nei modelli appare piuttosto elevata. La cosa non è una novità e, difatti, IPCC nel suo rapporto del 2013 ha indicato negli aerosol e, principalmente, nella forma delle particelle di polvere, una delle principali fonti di incertezza che caratterizza i vari scenari delineati dai modelli climatici.
Sappiamo dagli studi paleoclimatici condotti sulle carote estratte da Dome C e Vostok che le concentrazioni di polvere in atmosfera sono inversamente correlate con le temperature: nei periodi glaciali il tasso di deposizione di polvere in Antartide è circa 25 volte maggiore che negli interglaciali. Conoscere, pertanto, le caratteristiche ottiche delle polveri nelle atmosfere fossili desumibili dalle carote di ghiaccio, consente di capire meglio il comportamento del sistema climatico nel passato e, conseguentemente, ridurre i margini di incertezza degli scenari futuri.
Potenza et al., 2016 studia la forma delle particelle di polvere contenute nell’atmosfera terrestre fossile utilizzando una carota di ghiaccio estratta poco lontano da Dome C nel corso degli anni settanta del secolo scorso e mai studiata. Lo studio si propone, in buona sostanza, di caratterizzare le proprietà ottiche dell’atmosfera nel corso dell’ultimo massimo glaciale e dell’Olocene (attuale interglaciale). Allo scopo essi hanno utilizzato i campioni di ghiaccio antartici per individuare le tipologie di polveri trasportate dal vento e depositate negli strati di ghiaccio che costituiscono gli spezzoni di carota presi in esame. Lo studio ha fornito risultati che saranno in grado di far luce sull’influenza delle polveri atmosferiche nel condizionare i cicli glaciali durante il Quaternario.
La polvere dispersa in atmosfera influenza l’equilibrio radiativo attraverso due fenomeni fisici: assorbimento della radiazione incidente e dispersione della stessa. Tali fenomeni dipendono dal numero delle particelle contenute nell’atmosfera e dalla loro forma, per cui è assolutamente necessario conoscere sia la concentrazione di particelle che le loro caratteristiche geometriche e quantificarne gli effetti. I metodi di indagine impiegati fino ad oggi, basati sull’analisi delle caratteristiche ottiche ed elettriche della polvere, fornivano risultati piuttosto approssimativi e, in qualche caso, anche contraddittori. Uno dei principali difetti delle metodologie in uso consiste nel fatto che esse generano dei parametri che consentono di individuare la concentrazione di particelle sferiche equivalenti, distribuite per diametri, da inserire nei modelli: nulla sono in grado di dire circa forma, dimensioni ed altre caratteristiche fisiche dei granelli di polvere.
Potenza et al., 2016 ha utilizzato una tecnica di indagine innovativa detta SPES (Single Particle Extinction and Scattering). Tale metodica di indagine prevede l’utilizzo di un raggio laser che incidendo su una particella di polvere, subisce una variazione delle sue caratteristiche: una parte viene assorbita (extinction) ed un’altra viene diffusa (scattering). I risultati dell’analisi sono costituiti da due parametri: coefficiente di estinzione (Cext) e spessore ottico (ρ). Questi due valori vengono rappresentati su un sistema di assi cartesiani: il primo in ascissa ed il secondo in ordinata, ottenendo una nuvola di punti che possono essere opportunamente interpolati in modo da generare delle curve di estinzione-dispersione. La tecnica è, inoltre, estremamente rapida e consente di analizzare moltissime particelle quasi contemporaneamente e per ognuna di esse è in grado di fornire i due parametri (coefficiente di estinzione e spessore ottico).
I dati così ottenuti sono poco significativi, ma confrontati con modelli di miscele di polveri di cui sono perfettamente noti dimensioni, tipologia, forma, composizioni mineralogiche e via cantando, consentono di individuare la composizione significativa dal punto di vista ottico delle polveri fossili intrappolate negli strati di ghiaccio delle carote. I risultati ottenuti hanno consentito di accertare una distribuzione dimensionale compatibile con quella delle altre metodiche di indagine, ma delle caratteristiche ottiche delle particelle del tutto diverse. Nell’articolo che è liberamente accessibile, gli autori riportano gli algoritmi utilizzati per calcolare il coefficiente di estinzione e lo spessore ottico oltre a una minuziosa descrizione delle metodiche di indagine, istogrammi e diagrammi esemplificativi e giustificativi delle conclusioni, ma per i fini che mi propongo credo che gli elementi forniti siano sufficienti.
Vediamo adesso le ricadute climatiche dei risultati ottenuti da Potenza et al., 2016. In via preliminare lo studio ha evidenziato che, pur in presenza di una variabilità ad alta frequenza le cui cause non sono state indagate, mediamente, la distribuzione dimensionale e di forma delle polveri depositatesi durante le fasi glaciali è diversa da quelle depositatesi durante gli interglaciali. In buona sostanza questo significa che le caratteristiche ottiche dell’atmosfera durante le fasi glaciali sono diverse da quelle durante gli interglaciali e ciò comporta che l’equilibrio radiativo durante i periodi glaciali è caratterizzato da parametri diversi rispetto a quelli dei periodi interglaciali.
Questo dal punto di vista qualitativo. Vediamo ora che cosa succede dal punto di vista quantitativo. I modelli climatici e paleoclimatici tengono conto della presenza delle polveri atmosferiche attraverso dei parametri che quantificano l’estinzione e la diffusione della radiazione. L’estinzione è legata alla massa delle particelle, quindi alla quantità ed all’assortimento granulometrico. La diffusione è legata, invece, alla profondità ottica della polvere (AOD). Gli autori hanno fatto girare un modello climatico con diversi valori dei parametri anzidetti. In un primo momento hanno utilizzato i parametri di estinzione e di diffusione calcolati considerando particelle di forma sferica il cui assortimento granulometrico è stato desunto dalle analisi effettuate. In un secondo momento hanno fatto girare lo stesso modello inserendo le proprietà ottiche dell’atmosfera desunte dai dati che tenevano conto della forma effettiva delle particelle di pulviscolo atmosferico. I risultati sono stati molto diversi tra il primo ed il secondo caso. In particolare si è potuto verificare che introducendo la profondità ottica desunta dalle analisi SPES che tengono conto della forma reale delle particelle, si ottengono risultati che differiscono anche del 30% rispetto a quelli ottenuti considerando le particelle di polvere come se fossero delle sfere. Introducendo, inoltre, delle varianti circa la forma effettiva delle particelle di polvere (diversi rapporti tra le dimensioni caratteristiche dei modelli di particelle), si ottenevano differenze dell’ordine del 10%.
La conclusione logica di tutto il discorso è una sola. I modelli climatici attuali che quantificano l’equilibrio radiativo considerando le polveri atmosferiche di forma sferica, generano risultati che presentano differenze di circa il 30% rispetto a quelli ottenuti considerando la forma effettiva delle particelle di pulviscolo atmosferico. Mi sembra che la cosa non sia di poco conto e che i ricercatori debbano adoperarsi allo scopo di correggere i loro modelli.
Una conclusione collaterale riguarda il fatto che la scienza del clima è definita e restano da definire solo i dettagli. A me non sembra che differenze del 30% negli output dei modelli climatici, siano un dettaglio, ma rappresentino un fatto di rilievo dovuto ad una scarsa capacità di modellare la realtà. La scienza del clima non è definita, ma come ogni altra branca della scienza è in continua evoluzione. E questo è un bene perché se ciò non fosse non si potrebbe neanche parlare di scienza.
[…] Autore: Guido GuidiData di pubblicazione: 21 Giugno 2016Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=41624 […]