Accolgo un invito di Guido, il quale ha immediatamente capito l’origine del mio commento al post “Ad ogni città il suo tempo”. Infatti, molto, molto tempo addietro venni citato per la mia “…patacca sulle isole di calore…”. Anni sono passati e la patacca sulle isole di calore è diventata, via via, qualcosa di sempre più convincente, tanto da diventare articoli scientifici, libri, scuole di formazione gestite da fisici, ingegneri, urbanisti, architetti. Un mondo, insomma, questo della ‘patacca’ che si è evoluto in questi anni fino a diventare una vera e propria disciplina. Bene, se questi sono stati i miei errori di visione scientifica del problema allora posso essere abbastanza contento.
L’articolo proposto da Guido solletica corde di uno strumento che usavo suonare: l’aerodinamica dei sistemi naturali e antropizzati. Lavoravo infatti sui flussi aerodinamici nella vegetazione, con qualche discreto risultato. Poi, la mia pollinosi si è leggermente aggravata e il cemento urbano ha fatto sentire il proprio richiamo, così, seduto comodamente nei bar sorseggiando Campari, ho incominciato ad occuparmi di meteo-climatologia delle città. Il lavoro centrale proposto nel post (Giometto et al., 2016) è un bellissimo esempio di questo tipo di studi, che raccorda la base aerodinamica della conoscenza, la teoria di Monin-Obukhov (gli eminentissimi Monin e Obukhov), planando verso l’ambiente urbano per una più realistica comprensione delle interazioni atmosfera-costruito. Anche se non so quanto ne sia consigliabile la lettura ai non specialisti, bisogna assolutamente sottolineare che mette in evidenza l’estrema importanza di queste relazioni. Perché? Perché, come ci ha insegnato Rudolf Geiger nel suo “The climate near the ground”, il clima generale nasce da una moltitudine di microfattori dove le relazioni dinamiche ed energetiche superficiali sono da considerarsi fondamentali nella comprensione “fisica” del fenomeni. Ho messo “fisica” tra apici per distinguerla dall’approccio “statistico” al clima, ma non voglio farne nascere una discussione epistemologica che mi stremerebbe.
L’essenza del post è sostanzialmente il fatto che la città, per sua tessitura e presenza di materiali, influenza direttamente le masse d’aria, e quindi gli scambi, e quindi direttamente il clima, quantomeno nelle proprie vicinanze. Ci si può chiedere se questa sia solo una esercitazione teorica e domandarsi, inoltre, se poi nei fatti abbia una vera rilevanza anche nella realtà delle cose. Per mia diretta conoscenza la risposta è positiva. Mi capita, guarda un po’, tra le mani la tesi di laurea di Davide Panosetti, promettente dottorando all’ETH, che riporta degli studi condotti nella città di Milano che dimostrano come la struttura della città influenzi incredibilmente i sistemi anemologici in arrivo sull’agglomerato urbano (Tesi di laurea Scuola di Scienze, Corso di laurea FAM, A.A. 2012-13). Oppure riguardo l’esperienza di REBUS (Renovation of public Buildings and Urban Spaces, Regione Emilia-Romagna) e gli studi condotti da questo corso su diverse città dell’Emilia Romagna che, mirati alla mitigazione degli effetti delle isole di calore per incrementare la resilienza delle città, dimostrano inequivocabilmente il ruolo dei materiali e dell’arrangiamento urbanistico-architettonico del costruito nella formazione del microclima del sistema urbano e nella formazione di flussi di drenaggio che possono mitigare anche le problematiche della qualità dell’aria.
Il ‘cutting edge’ di queste ricerche è la costruzione di città più resilienti al cambiamento climatico, per chi è allarmato dai fenomeni di cambiamento, ovvero per la costruzione di città più a misura d’uomo e per il suo benessere, per chi si rifà ai dettami dell’urbanistica tracciata da Le Corbusier negli anni venti. Personalmente, credo che queste due visioni della rigenerazione delle città non siano incompatibili e rappresentino, anzi, un terreno di incontro di comunità scientifiche più vaste di quelle tracciate fino ad oggi che includano parti del sapere solo qualche anno addietro molto lontane. Il tempo, galantuomo, deciderà chi aveva più o meno ragione ma almeno in questo caso la locomotiva vede tutti i vagoni andare nella stessa direzione.
PS: una nota per Guido. Si Guido lo so, mi odierai perché i riferimenti te li ho messi tutti nel testo. Perdonami ma l’ho fatto un poco per abitudine (PincoPallo et al., AnnoDomini), e molto perché quei qui, qui, qui e qui io proprio non sono mai riuscito a digerirli.
Hai ragione caro Franco, siamo vecchi. I “qui, qui e qui” sono ormai molto in uso. Credo che Cm li abbia adottati da poco tempo rispetto ad altri che ne hanno fatto da lungo tempo un uso quasi inquisitorio. Capisco che favoriscano la ricerca, ma io resto legato alla vecchia e sana bibliografia alla fine. Ma mi rendo conto di far parte di una razza in estinzione, qui-> https://www.youtube.com/watch?v=o3VEaTN6mF0
Luigi, purtroppo sono finiti i tempi dei progetti, punto!
Le cose dette son scivolate sulla pelle di quasi tutti, anche perche’ le dicevamo noi, negazionisti venduti alle big-oil. Pero’, oggi vedo rinascere un interesse per questi temi della mitigazione urbana da parte anche delle pubbliche amministrazioni. Gente che, pur credendo che il famoso ‘paradigma centrale’ sia l’AGW, trova nella mitigazione passiva (verde pubblico e privato) una strada per migliorare il vivere nelle citta’. Questo puo’ diventare il punto di incontro, la ‘zona agnostica’ (la tua terza via), dove gli interessi degli allarmati e quello degli scettici vanno a coincidere almeno nell’immanente del ‘maronna che caldo che c’e’!’, una realta’ che tu la voglia cosi’ o cola’ tanto quella resta.
Le lezioni del Koeppen e del Geiger sulla climatologia fisica nella climatologia urbana restano: resta la fisica.
Carissimo Teo,
anzitutto voglio dire che è sempre un piacere leggerti, anche perché essendo ormai finiti da tempo i progetti di ricerca che avevamo in comune, siamo costretti a dialogare da remoto.
Venendo al tema, da parte mia sono più che mai convinto che il punto d’equilibrio del variegato sentire circa le aree urbane stia nel “pecunia non olet”, nel senso che sì, Rudolf Geiger (allievo del grande Wladimir Koeppen con cui firmò anche una classificazione climatica globale evergreen, la Koeppen Geiger), ha iniziato ad ammaestrarci nel remoto 1928 sul tema dei bilanci energetici urbani e dei fattori che su di essi influiscono modificando ad esempio il termine di calore sensibile cui i legano le temperature in aria e in superficie.
Tuttavia le poche volte che ho provato a fare di questi discorsi coram populo, ho colto con evidenza che le masse sentono molto più feeling per l’AGW, nemico assoluto cui si tende per comodità ad attribuire anche guasti che da AGW non sono. In soldoni tutti in marcia contro l’AGW ma non toccatemi il sopralzo da due piani sul mio palazzo in centro a Milano perché su quello ci facciamo i danè, pardon soldi.
Ciao.
Luigi
… quei qui, qui, qui e qui io proprio non sono mai riuscito a digerirli.
Teo, anche io non ho mai sopportato l’uso di “qui” nei link, uso che ho iniziato solo da quando scrivo su CM e che mai avevo utilizzato nei 10-15 anni precedenti di pagine html.
Continuerò ad usarlo con il significato di obolo (tassa) da pagare ad un uso “ignorante” di internet; ignorante ma anche “originale”, se ricordi i primi manuali di html in cui si raccomandava di non usare “qui” et similia nei link.
Non mi abituerò, invece, all’uso di “la mail” al posto di “il mail”, sapendo che una parola di genere neutro (in una lingua che ammette il neutro, ovviamente) deve essere resa in italiano al maschile.
Qual’è il succo? Abbiamo ragione, ma ormai siamo vecchi (io molto più di te) e dinosauri del mondo attuale, per cui in realtà abbiamo torto. Consoliamoci a vicenda …
Ciao. Franco