Negli ultimi decenni l’ape (Apis mellifera L.) è sempre più assurta a simbolo di naturalità da contrapporre all’agricoltura intensiva e all’antropizzazione del territorio. In realtà l’ape è un animale domestico e l’apicoltura è una tecnologia in costante evoluzione, il che nulla toglie alla qualità dei prodotti dell’alveare (miele, cera, propoli, ecc.).
L’ape come animale domestico – le origini
L’ape ispira da sempre una “naturale” simpatia come stanno a dimostrare serie televisive fortunate come l’ape maia o, in epoca più antica, il nome femminile ebraico Debora, che sta per ape e che richiamava le doti di laboriosità delle donne o ancora il nome femminile greco Melissa, riferito alla dolcezza del carattere (Forni, 2014).
Tuttavia occorre chiarire che l’ape non è un insetto selvatico ma è viceversa un insetto domestico (come ad esempio lo è il baco da seta), essendo stato domesticato dall’uomo parecchie migliaia di anni or sono.
Volendo cercare alcuni riferimenti storici alle attività apistiche possiamo anzitutto dire che la raccolta spontanea del miele è molto antica e più in particolare che:
- Tracce di cera d’api risalenti a 40mila anni fa sono state di recente reperite in un accampamento paleolitico sudafricano (d’Errico et al., 2012).
- Nel più antico agglomerato urbano oggi noto (Çatalhöyük, nei pressi di Konia in Turchia orientale) sono state rinvenuti disegni di alveari (qui).
- Nel disegno rupestre della grotta di Cueva de Arana, nei pressi di Valencia (Spagna) si vede un raccoglitore di miele che opera arrampicandosi con funi fino a un alveare (qui).
L’interesse dell’uomo per il miele si giustifica con il fatto che questo alimento risponde a uno delle propensioni più profonde degli esseri umani e cioè quella verso i cibi dolci, che deriva forse dal fatto che il liquido amniotico è anch’esso dolciastro, il che forgerebbe il nostro gusto ancor prima della nascita.
Raccolta del miele non significa tuttavia domesticazione delle api. Tale evento è infatti da ritenere successivo ed ha luogo allorché l’uomo inizia ad allevare le api all’intero di apiari ricavati ad esempio da tronchi d’alberi cavi. L’allevamento delle api è documentato in Egitto nella tomba di Pabusa a Luxor (VII sec. a.C.) (qui) ed era altresì praticato in Grecia e a Roma (Forni, 2014). Solo in tempi molto più recenti (gli ultimi 2 secoli) si è assistito alla sostituzione degli alveari realizzati in tronchi d’albero cavi con alveari razionali costituiti da cassette dotate di telaini.
L’ape come animale domestico – il significato
Domesticare un animale significa stabilire una simbiosi mutualistica fra uomo e animale e questo comporta non solo allevamento intenzionale ma anche selezione di individui (in questo caso sciami) meno aggressivi, più produttivi e meglio adattati all’ambiente d’allevamento. Ad esempio in Italia è presente una sottospecie dell’ape domestica (Apis mellifera spp. ligustica) che presenta alcune peculiarità fra cui la docilità e l’ottimo adattamento al nostro clima, ove come sappiamo predominano i tipi climatici di Koeppen Csa (mediterraneo) e Cfa (subtropicale umido), ben diversi ad esempio dal tipo Cfb proprio dell’areale centro-europeo ad influsso oceanico.
Questo ci dice che la simbiosi uomo – ape rende l’ape dipendente dall’uomo e dalle sue scelte, prima fra tutte quella di regine che siano ben adattate al clima in cui le colonie sono chiamate ad operare. Peraltro il problema della selezione può essere oggi affrontato in modo evoluto ponendo a confronto docilità, produttività e adattabilità all’ambiente delle diverse colonie.
Api e cambiamento climatico
Se con google cercate “api e cambiamento climatico” scoprirete che le api sarebbero le sentinelle del cambiamento climatico e che sarebbero già oggi le vittime del clima che cambia e cambia male (un pò come i canarini nelle miniere). Su questi temi confesso di non avere maturato un parere definitivo, non avendo mai condotto ricerche specifiche, e ciò anche perché reperire statistiche per tale settore è tutt’altro che semplice.
E’ noto tuttavia che negli ultimi decenni il declino delle popolazioni di api è stato spesso causato da parassiti che mettono in seria difficoltà la sopravvivenza delle famiglie (Reguzzi, 2014). Ad esempio la varroa che è un acaro parassita che si nutre dell’emolinfa o ancora l’imenottero predatore Vespa velutina o il coleottero degli alveari Aethina tumida.
Inoltre, in analogia con quanto accade con altri animali domestici quali i bovini e gli ovi-caprini, mi pare utile segnalare che è cruciale l’uso di sciami ben adattati all’ambiente e dunque l’importazione di api regine da ambienti troppo diversi da quello italiano (es. ambienti centroeuropei, vari ambienti sudamericani – qui) può rivelarsi foriera di insuccessi che per onestà non dovrebbero essere attribuiti al cambiamento climatico.
Negli ultimi anni è stato molto enfatizzato anche il ruolo degli insetticidi ed in particolare dei neonicotinoidi usati ad esempio nella concia delle sementi di mais nel determinare mortalità delle colonie di api. Su questo aspetto rinvio all’analisi di Alberto Guidorzi apparsa di recente su Salmone.org. Rinvio inoltre alle figure 1 e 2 tratte da Chauzat et al. (2013) da cui si evince che stando alle cause di mortalità indicate dagli apicoltori l’avvelenamento sarebbe responsabile nel 7% dei casi, percentuale che scende al 2% se si analizzano le osservazioni in campo.
Concludo segnalando che negli USA, ove negli anni passati si era verificata una significativa contrazione nel numero di famiglie che fu a suo tempo attribuita al cambiamento climatico, si sta oggi registrando una nuova fase espansiva che potrebbe essere interpretata come sintomo del fatto che il cambiamento climatico non presenta impatti significativi sul settore apistico di quel paese (figura 3). Un’interpretazione plausibile è altresì quella per cui il fenomeno sarebbe sintomo dell’adattamento degli apicoltori al clima che cambia, pratica tutt’altro che originale perché vecchia quanto il mondo e che anche le nostre generazioni sono chiamate oggi a porre in pratica. Circa lo stato di salute delle colonie di api statunitensi si veda l’articolo uscito sul Washington Post e ripreso da WUWT.
Bibliografia
- Chauzat M.P., Cauquil L., Roy L., Franco S., Hendrikx P., Ribiere-Chavert M., 2013. Demographics of the European Apicultural Industry, Plos one, November 2013, Volume 8, Issue 11.
- D’Errico et al., 2012. Early evidence of San material culture represented by organic artifacts from Border Cave, South Africa, proceedings of the National Academy of Sciences, vol. 109, no. 33, 13214–13219.
- Forni G., 2014. Origini dell’apicoltura – un caso di rapporto mutualistico uomo-insetto, in Atti del seminario sugli Insetti Utili, editi dal Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura disponibili all’indirizzo https://sites.google.com/site/storiagricoltura/download-area/atti_seminari_mulsa
- Reguzzi M.C., 2014. Evoluzione dell’allevamento dell’ape e problematiche attuali , in Atti del seminario sugli Insetti Utili, editi dal Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura disponibili all’indirizzo https://sites.google.com/site/storiagricoltura/download-area/atti_seminari_mulsa
Caro Luigi. Leggo sempre con molto interesse e condivido.
Ti segnalo anche la mia rassegna sull’argomento che t’interesserà
http://www.operaresearch.eu/en/documents/show/&tid=142
Caro Ettore,
ti ringrazio molto per la segnalazione. Ad una prima scorsa le pubblicazioni mi paiono molto ricche di dati. Chissà che non consentano di riprendere un lavoro di indagine sui rapporti clima – api avviato tempo fa con gli amici Gabriele Cola e Daniele Cavicchioli e che si arenò miseramente di fronte alla scarsità di dati.
Grazie per il bell’articolo Luigi.
Mio padre per hobby fa apicoltura, e per esperienza diretta posso riportare che tutte le arnie che ci son morte nel tempo avevano contratto varroa o erano state invase dalla tarma della cera.
Fortunatamente non siamo vicini a coltivazioni intensive, quindi l’effetto dei pesticidi sulla salute delle nostre poche arnie è relativamente remoto.
Nelle riviste specializzate viene riportato un altro fattore che potrebbe influenzare la salute delle arnie, ossia “l’inquinamento” elettromagnetico. A tal proposito sarà interessante capire cosa accadrà all’orientamento degli animali che sfruttano i campi magnetici per l’orientamento quando avverrà l’inversione del campo terrestre.
Sicuramente la natura ha le capacità per reagire ai cambiamenti in maniera tardiva o precoce, sebbene la scala del tempo sia sempre relativa. Quindi la ripresa della crescita delle popolazioni di api in America potrebbe essere da imputare anche ad un adeguamento degli insetti alle nuove condizioni? O solo alla selezione umana delle arnie più forti?
Gianluca
Caro Gianluca,
circa l’inquinamento elettromagnetico non me la sento di azzardare ipotesi su un argomento che non conosco a dovere. Unica cosa che so è che le api si orientano con il Sole (http://www.physics.ohio-state.edu/~wilkins/writing/Samples/shortmed/fiskemedium/). Circa poi la resilienza dell’apicoltura americana credo che molto conti l’adeguamento delle tecniche di allevamento e della stessa base genetica. Inoltre se la mortalità delle colonie è dovuta soprattutto a cause parassitarie, un ruolo non indifferente può averlo avuto la migliore capacità di difesa.
Grazie Luigi.
Riguardo all’orientamento delle api, è verissimo che sfruttano anche il sole…ma questo non esclude il campo magnetico terrestre.
A tal riguardo, giusto per avvalorare scientificamente quanto detto:
http://web.gps.caltech.edu/~jkirschvink/pdfs/Bees.pdf
https://en.wikipedia.org/wiki/Magnetoreception
http://link.springer.com/chapter/10.1007/978-1-4613-0313-8_18