Gli ultimi due milioni di anni (pleistocene o quaternario) hanno visto una quindicina di ere glaciali alternarsi a periodi interglaciali spesso molto più caldi del nostro. Prevedere l’insorgere di un’era glaciale è una sfida tuttora aperta per la climatologia, anche perché di fronte ad un tale evento la civiltà umana rischierebbe un vero e proprio tracollo (e una pallida idea di ciò ci viene offerta in questi giorni dalle tempeste di neve che bloccano la costa orientale degli Usa).
Al cento del dibattito scientifico è ancor oggi la teoria di Milancovich secondo la quale il fattore chiave per l’insorgere di un’era glaciale è la quantità di radiazione solare che raggiunge l’emisfero Nord. Tale teoria tuttavia non definisce i fattori d’innesco delle ere glaciali e su quest’ultimo tema, in un articolo di recente apparso su Climatemonitor, Guido Guidi ha commentato una letter di Nature (Ganoposky et al 2016) in cui si ragiona sul legame fra CO2 e innesco delle ere glaciali sostenendo che i livelli di CO2 dell’Olocene sarebbero incompatibili con l’innesco delle ere glaciali stesse. Nella lettura di tale letter mi ha lasciato perplesso il diagramma che riporto in figura 1, da cui si nota che, se eliminiamo i punti d’innesco delle fasi glaciali MIS5 e MIS19, la nuvola degli altri punti d’innesco evidenzia una forte correlazione positiva fra CO2 e Radiazione a 65°N. Cosa può voler dire questo effetto, che peraltro gli autori si guardano bene dall’evidenziare?
La prima idea che mi è venuta in mente è che la transizione interglaciale – glaciale sia favorita da alti livelli di CO2. D’altronde se si guarda lo stato dell’olocene in epoca pre-industriale (MIS1), esso si colloca giusto sulla retta di regressione fra insolazione e CO2 e questo configurerebbe un rischio concreto di glaciazione nel pre-industriale olocenico (giusto l’opposto di quel che dicono gli autori).
Una possibilità alternativa è che la CO2 sia più alta quando c’è più insolazione a 65°N e dunque sia l’insolazione a guidare CO2. Effetto antropico a parte, l’insolazione più elevata alle alte latitudini dovrebbe infatti rendere più attivi gli ecosistemi che quindi da un lato dovrebbero assorbire più CO2 e dall’altro ne dovrebbero emettere di più. In tal caso la relazione fra CO2 e radiazione a 65°N non c’entrerebbe per nulla nell’innesco dell’era glaciale ma sarebbe solo un effetto collaterale.
Un ulteriore fattore d’innesco essenziale per le ere glaciali è certamente costituito dall’innevamento delle terre emerse ed in particolare dell’emisfero boreale. L’innevamento infatti non solo perché influenza in modo sensibile il ciclo idrologico ma regola altresì l’albedo e cioè quantità di radiazione solare riflessa verso lo spazio. Infatti se l’albedo della vegetazione è intorno al 30% lo stesso sale al 90% per la neve fresca per scendere al 40% per la neve in via di fusione.
Al riguardo un’ipotesi plausibile potrebbe essere quella secondo cui una nuova era glaciale potrebbe avere inizio anche in una fase climatica calda come la nostra per il solo effetto di alcuni inverni con forte innevamento dell’emisfero boreale che attivino un forte feed-back negativo da albedo, “raffreddando” il pianeta nel suo complesso. In proposito giova ricordare la teoria di Ewing e Donn proposta in un articolo apparso su Science nel 1956 e secondo la quale un Oceano Artico libero da ghiacci per lunghi periodi dell’anno (che è un pò quello che si sta verificando in questi anni) porterebbe all’aumento delle precipitazioni nevose alle alte latitudini grazie a una cessione di vapore all’atmosfera sensibilmente più elevata di quella a cui si assiste nelle fasi a copertura glaciale estesa. Con una maggiore precipitazione, parte di questa neve potrebbe non fondersi a primavera e persistere in estate, riducendo le temperature globali a seguito dell’accresciuto albedo.
E veniamo allora all’attualità per vedere se vi siano per caso evidenze circa l’inverarsi della teoria di Ewing e Donn. Al riguardo le serie storiche della Rutgers University relative al periodo 1967-2015 indicano che la superficie innevata è in aumento in autunno e inverno, il che appare coerente con la teoria di Ewing e Donn. Tuttavia osserviamo anche una sensibile contrazione dell’innevamento primaverile, il che ci porta invece ad escludere che una nuova glaciazione coerente con lo schema di Ewing e Donn possa manifestarsi nei prossimi anni.
Segnalo infine che sempre nel sito della Rutgers University è visibile il diagramma di anomalia dell’innevamento medio mensile per l’emisfero boreale per il periodo 1967-2015, allisciato applicando una media mobile a 12 anni. Tale diagramma indica che si è registrato un brusco calo dell’innevamento intorno alla fine degli anni ’80 del XX secolo con valori minimi toccati intorno al 1990. In seguito si è assistito ad una ripresa e dal 1995 l’innevamento appare stazionario su valori di circa 0,5 milioni di km2 al di sotto di quelli tipici degli anni ’70.
Bibliografia
Ganopolski A., Winkelmann R., Schellnhuber, H. J., 2016. Critical insolation – CO2 relation for diagnosing past and future glacial inception, Nature, vil. 529, 14 Jan 2016.
Buon articolo
Tranne l.europa occidentale l.inverno sta funzionando benone
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