A sentire i politici che si alternano nelle varie assemblee generali, negli interventi in conferenza-stampa o dal podio degli eventi collaterali che caratterizzano la kermesse climatica parigina, sembra che la COP21 sia una semplice formalità: tutto bene il mondo lo salviamo noi, non vi preoccupate.
Ciò che conta, però, non è quello che si dice in pubblico, ma ciò che succede nella cosiddetta “zona blu” cioè nell’area affidata al servizio d’ordine dell’ONU e interdetta al pubblico o nelle hall degli alberghi in cui sono ospitati i vari negoziatori. Ieri sera il tanto atteso “comitato di Parigi” è iniziato alle 21,00, ma alle 21,30 già si pensava agli incontri bilaterali programmati per la notte. La trattativa prosegue lontano da occhi ed orecchie indiscrete e possiamo renderci conto di ciò che realmente accade da qualche indiscrezioni e da prese di posizione di qualche Stato o gruppo di Stati.
Oggi, per esempio, è stata la volta di Cina, India, Brasile e Sud Africa che hanno sparato a zero sull’OCSE e sul suo rapporto. Già ho avuto modo di parlare di questo in occasione di uno dei precedenti rendiconti per cui mi limito ad un breve cenno. L’OCSE ha pubblicato uno studio in base al quale, nell’ultimo anno, i Paesi sviluppati avrebbero trasferito a quelli in via di sviluppo quasi 60 miliardi di dollari per far fronte agli impegni che questi Paesi dovrebbero assumere per mantenere l’incremento delle temperature globali entro i 2°C. Ciò significa che mancherebbero all’appello una quarantina di miliardi di dollari. I Paesi in via di sviluppo capeggiati da India e Cina non ci stanno e sostengono che le metodologie utilizzate dall’OCSE sono tali da favorire gli interessi degli occidentali e dei Paesi sviluppati: loro i 60 miliardi di dollari per aiuti “climatici” non li hanno mai visti, si trattava di altri tipi di aiuti. Lo hanno detto a chiare lettere oggi e hanno anche fatto sapere che a queste condizioni non esiste alcun accordo. Ciò fa capire chiaramente che i Paesi sviluppati hanno fatto loro la posizione OCSE e partono da queste cifre per concludere l’accordo. I rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo, ovviamente, non ci stanno ed hanno anche fatto sapere che i negoziati si trovano nella stagnazione più completa: non è stato fatto alcun passo avanti su quelli che sono i punti essenziali e cioè i soldi, la responsabilità storica degli emettitori, il valore legale dell’accordo ed il limite entro cui contenere l’incremento delle temperature globali.
Degli aspetti puramente economici abbiamo detto, ma essi sono indissolubilmente legati alle problematiche connesse alla responsabilità storica del cambiamento climatico. Nel 1992 a Kyoto si stabilì che la responsabilità del cambiamento climatico era dei Paesi sviluppati che, pertanto, avevano l’obbligo di ridurre le emissioni e trasferire immense risorse ai Paesi in via di sviluppo per consentir loro di far fronte ad una costosa transizione energetica verso le fonti rinnovabili. Oggi molti Paesi in via di sviluppo nel 1992 sono quasi riusciti a svilupparsi, per cui molti Paesi sviluppati chiedono che essi vengano esclusi dalle sovvenzioni e contribuiscano alla riduzione delle emissioni. Si parla di Cina, India, Brasile e Sud Africa che rappresentano circa il 25% delle emissioni globali (a livello di UE ed USA). Inutile dire che tali Paesi non ne vogliono proprio sapere di cambiare status e stanno lottando duramente per evitare di essere inseriti tra i Paesi donatori e su cui ricade l’onere della riduzione delle emissioni.
Cina ed India non hanno, infine, alcuna voglia di assoggettarsi a verifiche quinquennali: a loro giudizio potrebbero ostacolare il loro legittimo desiderio di svilupparsi e minare la loro economia. Il vincolo legale dell’accordo dovrebbe, in altri termini, riguardare i Paesi sviluppati e non quelli in via di sviluppo.
Abbiamo capito, quindi, che sul problema dei finanziamenti, sul problema delle responsabilità storiche e sul valore legale dell’accordo la questione è ancora in alto mare. Vediamo ciò che succede sull’altro punto di discordia, ovvero il limite da porre all’incremento delle temperature globali. I Paesi in via di sviluppo si sono spaccati: alcuni Paesi africani e gli stati insulari (in tutto 78 Paesi, oltre la metà di quelli sin via di sviluppo) si sono allineati con l’UE per sostenere un limite all’incremento di temperature di 1,5°C; India e Cina insieme ad un altro gruppo di Paesi in via di sviluppo e molti Paesi arabi (produttori di petrolio e gas, per intenderci), sostengono che il limite di 2°C è ampiamente sufficiente a salvaguardare le sorti del pianeta. Anche qui mi sembra che si navighi in alto mare.
La presidenza della COP si trova di fronte ad un altro grosso problema: la sua strategia non piace a tutti e molti preferirebbero tornare alle vecchie modalità di trattativa. L. Fabius sta cercando di tener duro in quanto spera di poter ottenere entro domani sera una bozza di accordo molto semplificata e dirimere le ultime questioni in sospeso con i leader mondiali in colloqui telefonici. Egli spera di poter sfruttare gli impegni che essi si sono assunti pubblicamente nei primi giorni della COP21.
La strategia mi sembra ottima, ma non credo che i negoziatori stiano facendo tutta questa caciara senza che i rispettivi leader ne siano informati: ancora una pia illusione di Fabius e soci. Di ciò i negoziatori francesi credo, però, se ne siano resi conto: The Guardian sostiene che sono furiosi. Si ostenta comunque ottimismo: l’ambasciatrice francese Tubiana comunica che si sta progredendo su tutto, non vi è stallo su alcuna questione. Vabbè, vedremo domani sera.
Oxfam ha già cominciato a sentire puzza di bruciato e uno dei suoi esponenti, C. Charveriat, ha detto che l’accordo non può essere un “guscio vuoto”. Ha, quindi, chiosato: “La cosa peggiore sarebbe quella di dare ai poveri agricoltori di tutto il mondo la falsa speranza che i leader hanno ascoltato la scienza … ma alla fine scoprire che dietro l’accordo non c’è nulla.”
Da questo breve riepilogo si può capire che oggi 8 dicembre i negoziati sono in corso, i negoziatori lavorano alacremente, ma fatti concreti non se ne vedono. Se la matematica non è un’opinione mancano ancora tre giorni e poi ….. Si, poi che succederà?
Qualche politico già comincia a mettere le mani avanti. Il primo ministro irlandese (è donna, forse avrei dovuto scrivere la prima ministra, ma non mi piace, per cui uso il maschile) ha detto ai giornalisti che se l’accordo non verrà centrato la storia andrà avanti lo stesso: ogni Paese lavorerà per conto proprio, facendo del suo meglio. Dopo di che ha detto che la colpa dello stallo nei negoziati è che i negoziatori sono quasi tutti maschi che, notoriamente, hanno poco a cuore il benessere delle persone: se ci fossero state più donne l’accordo sarebbe stato molto più facile. Mah!
Insomma, gira rigira, ancora una volta è evidente che tutta la questione verte sui soldi.
Cherchez l’argent.
C’è ancora qualcuno che si illude che si tratti di una questione scientifica ?
Errata corrige: per un deprecabile errore di traduzione ho travisato il senso di una notizia relativa allo stato d’animo dei negoziatori francesi.
Ho scritto “Di ciò i negoziatori francesi credo, però, se ne siano resi conto: The Guardian sostiene che sono furiosi.”
In realtà l’aggettivo “furioso” era riferito a “lavoro” per cui il senso della frase del Guardian era “furiosamente al lavoro” che è ben diverso da quanto io ho scritto.
La frase incriminata, pertanto, deve essere modificata nel modo seguente.
“Di ciò i negoziatori francesi credo, però, se ne siano resi conto: The Guardian sostiene che sono impegnati in un lavoro alacre (furiously work).”
Mi scuso con i lettori di CM.
Donato Barone