La terza giornata della COP21 inizia presto e non sotto i migliori auspici.
Lunedì notte si è registrata una spaccatura nel fronte dei Paesi in via di sviluppo: alcuni di essi sostengono che l’obiettivo cui il vertice deve puntare non è quello di mantenere le temperature al 2100 entro i 2°C rispetto all’era pre-industriale, ma entro 1,5°C e, per rafforzare la propria tesi, citano Obama, il Presidente della Banca Mondiale e C. Figueras, cioè le Nazioni Unite. Cina, India, Brasile, Arabia Saudita ed altri non sono d’accordo e stimano sufficiente l’obiettivo dei 2°C. Come andrà a finire? Ovviamente prevarranno gli interessi dei più forti e si chiuderà sui 2°C creando malcontento ed insoddisfazione.
Dall’Australia fanno sapere, intanto, che il loro premier, nonostante i proclami parigini, è legato mani e piedi dai “dinosauri del riscaldamento globale”. Egli è restato isolato in quanto non è riuscito a tenere il passo né con la Nuova Zelanda né con i Paesi insulari. Gli attivisti salvamondo lo accusano di portare avanti, nonostante i proclami contrari, le politiche di T. Abbot che ha completamente annullato tutte le fughe in avanti dei governi laburisti. Della serie predica bene e razzola male. Ce ne eravamo accorti, ma una conferma non fa mai male.
L’India chiede a gran voce ai Paesi sviluppati di fare di più: devono ridurre molto di più le loro emissioni e dare molti più soldi ai Paesi in via di sviluppo per aiutarli a sostenere le proprie economie. Non devono assolutamente chiedere a questi Paesi di fare sacrifici in quanto essi hanno la responsabilità storica di aver causato il cambiamento climatico. Secondo il premier indiano Modi questa è una posizione non negoziabile. Sulla stessa linea dell’India troviamo Paesi come il Perù, il Brasile, la Liberia, ecc., che hanno nelle foreste tropicali una delle loro principali risorse. Per bocca dell’ex primo ministro del Perù essi chiedono ai Paesi ricchi di fare di più in quanto il loro impegno attuale renderebbe impossibile raggiungere gli obiettivi del REDD+ (parte dell’accordo di Parigi che riguarda la conservazione delle foreste tropicali). Mhhh, le acque cominciano a diventare torbide.
Anche OXFAM, nota charity inglese, fa sentire la sua voce e spiega che il 10% della popolazione mondiale emette il 90 % del totale e, pertanto, suo deve essere l’onere di ridurre le emissioni e sovvenzionare lautamente i Paesi in via di sviluppo per farli transitare verso fonti energetiche a basse o nulle emissioni. Questo modo di ragionare non piace, però, a Paesi come gli USA che non vogliono sentir parlare, checché ne pensi Obama, di disparità di trattamenti tra Paesi: chi inquina di più deve ridurre di più e con questo modo di dire ci si riferisce a Cina ed India, cioè i capifila dei Paesi in via di sviluppo. Sono 25 anni che tutte le COP si sono arenate su questo punto e mi sa che questa non farà eccezione.
Greenpeace, per bocca di uno dei suoi principali esponenti K. Naidoo, è addirittura “vulcanica” e chiede di cacciare i Paesi inquinatori (alias Paesi ricchi) dai colloqui sul clima. A Parigi, secondo l’associazione, i Paesi più vulnerabili stanno facendo vergognare quelli ricchi in quanto chiedono a gran voce di mantenere le temperature entro 1,5°C rispetto al periodo pre-industriale. Ciò si può ottenere, secondo Greenpeace, passando ex abrupto al 100% di energie rinnovabili e versando quanto dovuto ai Paesi più poveri per aiutarli a fare altrettanto. Mah! L’utopia non muore mai.
Nel corso della giornata la Cina annuncia che taglierà le emissioni del settore energetico del 60% entro il 2020. Non credo che possa fare di meno viste le terribile cappe di smog che attanagliano le sue principali metropoli. Abbattere lo smog comporta inevitabilmente una forte riduzione delle emissioni in quanto sarà necessario passare a fonti energetiche più pulite come gas, nucleare e rinnovabili in genere: in questo caso si fa di necessità virtù.
I rappresentanti cinesi fanno sapere che ridurranno anche le emissioni di CO2 delle centrali a carbone, ma non dicono né come, né quando. Un altro delegato cinese ai colloqui di Parigi, Su Wei, “ha osservato con preoccupazione” quella che ha definito una mancanza di impegno da parte dei ricchi a fare profondi tagli delle emissioni di gas a effetto serra e aiutare i paesi in via di sviluppo con nuovi finanziamenti per affrontare il riscaldamento globale. E dagli! La litania è sempre la stessa: cambiano gli attori, ma il copione è sempre quello.
Bisogna registrare anche una polemica piuttosto accesa, anche se indiretta, tra alcuni delegati indiani e l’OCSE. Secondo un rapporto dell’OCSE, definito dagli indiani come il “club dei ricchi” in quanto finanziato dai 23 Paesi più ricchi, sembrerebbe che il trasferimento dai Paesi ricchi a quelli poveri di fondi per aiutarli a far fronte al riscaldamento globale, si aggiri intorno ai 57 miliardi di dollari all’anno. Il ministero indiano degli affari economici sostiene che ciò è “profondamente sbagliato” in quanto l’OCSE ha fortemente sopravvalutato tale cifra.
I finanziamenti per il clima sono una questione importante nei negoziati di Parigi, anzi rappresentano lo scoglio contro cui possono infrangersi le speranze di un accordo per cui se già si parte dal presupposto che i due terzi del fondo di 100 miliardi di dollari all’anno di aiuti sono già erogati, è difficile che si possa raggiungere un accordo: parola dei delegati indiani. Qualcuno potrebbe dire che anche su questo ci si può mettere d’accordo, ma io reputo di no: secondo gli indiani il trasferimento attuale, se calcolato correttamente, è di 2,2 miliardi di dollari. Margini di mediazione non mi sembra che si intravedono.
L’OCSE ovviamente non ci sta: ha respinto con forza l’accusa di non essere stato trasparente.
Il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha detto: “Le stime dimostrano che sono stati compiuti notevoli progressi. Dobbiamo mobilitare i nostri sforzi per fornire i rimanenti 40 miliardi di dollari”. Come si vede la distanza è abissale. Nel frattempo molti paesi in via di sviluppo stanno convergendo verso le posizioni indiane.
Nel pomeriggio l’Europa, come se non bastassero i problemi già sul tavolo, ha messo all’ordine del giorno del vertice il problema del riciclaggio con una serie di nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni di scarico, invitando gli altri paesi a seguire l’esempio dell’Unione europea.
Con i nuovi obiettivi, entro il 2030, i paesi europei dovranno riciclare il 65% dei loro rifiuti urbani e il 75% del materiale utilizzato per gli imballaggi del prodotto, oltre a ridurre ad un massimo del 10% della quantità complessiva di rifiuti lo smaltimento in discarica. Tali obiettivi, alcuni dei quali vincolanti, consentirebbero di ridurre le emissioni di gas serra del 2-4% in 15 anni.
Visto come stanno andando le cose si tratta di pie illusioni.
Al tramonto è arrivato, infine, il primo allarme: la progressione dei negoziati è molto lenta, ha detto Laurent Fabius. Egli ha esortato i negoziatori ad accelerare il passo in modo da completare il lavoro entro l’11 dicembre. “Il mio messaggio è chiaro: bisogna accelerare il processo perché c’è ancora molto lavoro da fare”, ha detto ai giornalisti a margine della conferenza delle Nazioni Unite di Parigi, secondo The Guardian. Sembra che se la sia presa con i burocrati, rei di non tenere in debito conto l’apertura di alto profilo dei leader di lunedì e di perdere tempo con inutili discussioni intorno al significato di ogni singola parola e ad un testo eccessivamente corposo.
I negoziatori sembra che si siano dati una data entro cui produrre un progetto di accordo: il mezzogiorno di questo sabato. Su tale progetto si dovrebbero prendere le decisioni politiche necessarie per un accordo. Li Shuo, che ha lo status di osservatore dei colloqui per conto di Greenpeace, ha descritto il processo come “piuttosto confuso”, con i negoziati sfilacciati in “gruppi di contatto”, “gruppi di spin-off”, “gruppi informali” e via cantando.
L’alto rappresentante delle Nazioni Unite Christiana Figueres ha invitato a non disperare:
“Il testo dell’accordo passerà attraverso alti e bassi, ci saranno molte virgole inserite e virgole rimosse perché questa è la natura dei negoziati. Si tratta di un testo giuridicamente vincolante e deve essere rivisto molto, molto attentamente”. “Ad un certo punto, avremo assolutamente bisogno di cambiare marcia“, ha concluso.
Ce la faranno? Vista l’aria che tira, credo di no.
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