Ogni attore in gioco al tavolo dei cambiamenti climatici sta disponendo le proprie carte. Abbiamo analizzato le richieste africane (qui), abbiamo esaminato insieme le strategie occidentali (qui), oggi è il turno della Cina che ha deciso di stupire il mondo intero con un cambio di fronte tanto repentino quanto inaspettato.
Lo scontro fin ad oggi ha avuto luogo sul terreno delle responsabilità per le emissioni di gas serra (in particolare anidride carbonica). L’Occidente è propenso ad accollare ogni responsabilità in capo a chi le causa, secondo il ben noto principio del “chi inquina, paga”. Essendo l’industria manifatturiera una fonte enorme di inquinamento, ergo pagherà per le proprie emissioni inquinanti, inoltre registrandosi la maggior concentrazione di attività produttive in Cina ed India, è implicito che sulle spalle di questi paesi ricadrà una cospicua fetta di costi per la riduzione delle emissioni. Fin qui la storia recente. Pochi giorni or sono, tuttavia, la Cina ha fatto irruzione nello scenario tattico pre-Copenhagen portando avanti la sua innovativa proposta1 .
Le aziende cinesi non sono colpevoli dell’inquinamento prodotto, bensì lo è il consumatore finale occidentale che costringe queste aziende a produrre. I consumisti più sfrenati risiedono nei paesi del primo mondo (quindi è una stoccata diretta a USA e UE), ovvero non è un problema di chi produce, ma di chi consuma.
Tre gli economisti cinesi che hanno messo a punto questa nuova strategia: Fan Gang, Su Ming e Cao Jing. Gli studiosi hanno elaborato il testo finale che la Cina presenterà a Copenhagen e che, come già molti analisti hanno sottolineato, rischierà di far affondare i negoziati. Da un lato la filosofia del “chi produce e inquina paga”, dall’altro lato la nuova filosofia del “chi consuma paga”. Posizioni difficilmente riconciliabili a meno di seguire la strada suggerita da Wing Thye Woo2 , ovvero di proporre una carbon tax sulla produzione nazionale e una eco-tassa sui prodotti di importazione: una posizione intermedia che prende entrambe le soluzioni e le fonde insieme. Certo è che questi discorsi a livello teorico sono assolutamente interessanti (pura accademia economica), c’è da dire però che il mondo sta affrontando una serie di crisi che hanno un costo sociale ed economico: come si andrà a raccordare questa politica economica ambientale con i problemi attuali? Ovviamente queste scelte non faranno altro che appesantire ulteriormente le attività produttive e i consumatori.
Le premesse cinesi sono queste e non lasciano presagire nulla di buono per un esito favorevole del summit di Copenhagen3 . Probabilmente sarebbe meglio adottare una linea più pragmatica, a questo punto, piuttosto che avventurarsi nel periglioso oceano delle responsabilità morali per le emissioni. Vero è che la proposta cinese, riferendosi allo stile di vita occidentale, dovesse saldarsi alla posizione indiana e dei movimenti verdi occidentali acquisterebbe un peso specifico superiore. A ciò si aggiunga che molte aziende occidentali hanno acquisito un vantaggio competitivo proprio grazie alla delocalizzazione in Cina, dove la legislazione ambientale (e non solo quella) era ed è sicuramente più blanda di quella occidentale.
La situazione si sta complicando, i grandi del pianeta cercheranno una prima riconciliazione al G20 di Pittsburgh, il tempo però stringe e Copenhagen si avvicina.
[…] resto come potrebbe? L’est del mondo fa sapere che sì, cercherà di impegnarsi nella riduzione delle emissioni ma di sottoscrivere […]
“A ciò si aggiunga che molte aziende occidentali hanno acquisito un vantaggio competitivo proprio grazie alla delocalizzazione in Cina, dove la legislazione ambientale (e non solo quella) era ed è sicuramente più blanda di quella occidentale”
Aggiungo che dal punto di vista zootecnico questo vale sia per il Sudamerica che per Polonia, Romania, Cechia, Slovachia,Ungheria, Slovenia, Croazia, ecc.
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