Alcuni anni fa, in una eccentrica ma assolutamente efficace iniziativa mediatica, i rappresentanti del governo di un gruppo di isole del Pacifico, mimarono una riunione sott’acqua. Pinne, maschera e respiratori per mettere in evidenza il pericolo corso dalle loro esigue terre emerse nei futuribili scenari climatici di cui si tornerà senz’altro a parlare nella conferenza di Parigi attesa per l’inizio di dicembre.
Un argomento controverso quello dei minuscoli lembi di terra del Pacifico, alcuni dei quali si alzano davvero di pochissimo sul livello del mare. C’è chi dice che la minaccia sia reale e vede in quelle popolazioni i potenziali profughi climatici dell’era dei cambiamenti climatici. Ma c’è anche chi, molto più pragmaticamente, fa notare che i problemi cui gli atolli corallini vanno incontro sono essenzialmente auto-prodotti, sfruttamento delle risorse e sovrappopolazione innanzi tutto, e non un portato delle emissioni di gas serra in atmosfera dei paesi più sviluppati. C’è poi chi, ne abbiamo parlato già parecchio tempo fa, si è anche preso la briga di andare a misurare molti di quegli atolli, scoprendo che la maggior parte di essi è cresciuto di dimensioni invece di essere stato eroso dal mare, alcuni hanno cambiato forma, altri – pochi – stanno invece subendo più che altro gli effetti delle occasionali tempeste che battono i tropici e che da sempre ne scandiscono la vita. Il tutto a testimoniare
Il problema, scrive Alan Longhurst nel suo libro “Doubt and Certainty in Climate Science” (scaricabile in pdf), è quasi interamente di natura ambientale e non climatica, essendo legato alla sostenibilità di ecosistemi complessi come quelli delle barriere coralline. Questi, da un lato con la loro esistenza proteggono gli atolli, dall’altro, crescendo e ritirandosi al ritmo scandito dalle variazioni del livello dei mari, forniscono la materia prima di cui gli stessi atolli sono formati. La pesca, che altera l’ecosistema delle barriere, il prelievo a fini urbanistici e industriali del carbonato di roccia, hanno fatto nei tempi recenti molti più danni ai paradisi tropicali di quanti non ne potrà fare l’innalzamento del livello del mare. A testimoniare la resilienza di quegli habitat, infatti, c’è il fatto non trascurabile che la maggior parte di essi è passata attraverso la velocissima salita del livello del mare sopraggiunta all’inizio di questo interglaciale: 40 mm/anno, ovvero più di dieci volte la stima del rateo di crescita attuale e previsto di qui a fine secolo.
Poniamo dunque il caso che a Parigi si raggiunga effettivamente un accordo per la riduzione delle emissioni e che questo sia accompagnato dall’accessorio che più sta a cuore ai paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, ovvero che a farsi carico del processo di decarbonizzazione siano solo i paesi che hanno effettivamente giovato delle emissioni e che si dia realmente vita al fondo di 100mld di dollari l’anno da destinare come indennizzo ai paesi poveri. Non essendo sugli atolli (come da misure reali) visibili gli effetti del clima che cambia, ma essendolo inconfutabilmente gli effetti dello sfruttamento delle risorse ambientali, una così abbondante disponibilità di risorse economiche esogene pensate che porrà rimedio o accentuerà il problema?
Ma, è effettivamente un problema che, oltre ai sub di cui all’inizio di questo post, sta effettivamente a cuore a qualcuno?
NB: per saperne di più, qui sul blog di Judith Curry, con un riassunto delle idee di Alan Longhurst sull’argomento.
Il problema degli atolli è molto complesso e travalica gli aspetti prettamente climatici investendo quelli economici e sociali. Oggi l’attenzione è puntata sugli aspetti climatici e con essi i governi locali cercano di risolvere anche quelli economici e sociali.
Nella quasi totalità dei casi gli stati insulari dell’Oceano Indiano si sviluppano su isole che si trovano sul livello del mare. I punti più “alti” di queste terre si trovano a quote inferiori al metro al di sopra del livello del mare. E’ normale che esse vengano allagate quando il mare si agita o in occasione di tempeste tropicali o uragani. E’ sempre stato così anche quando di cambiamento climatico non si aveva la più pallida idea. A volte basta che si verifichino due o tre fenomeni naturali particolari per sommergere un’isola: è quanto accadde a Tarawa (Kiribati) nel 2005. In quell’occasione un evento El Nino, una profonda depressione atmosferica e un’alta marea concomitanti, determinarono l’allagamento di tutta l’isola: il cambiamento climatico non ebbe alcun ruolo, solo cause naturali.
Con l’affermarsi della teoria del cambiamento climatico di origine antropica, il mondo sviluppato o, per essere più precisi, alcuni settori fortemente ideologizzati del mondo sviluppato, hanno visto in questi Paesi il riflesso dei peccati commessi da quella parte del mondo che si è sviluppata rispetto alla parte ad essa complementare. E’ sorto, pertanto, l’imperativo di dover fare qualcosa prima che la situazione divenisse irrecuperabile. Aiuti economici e materiali non sono mancati e questo ha innescato un processo perverso che si è auto-alimentato: servono più aiuti e, più passa il tempo, più occorre aumentare gli aiuti. Il passaggio successivo è stato l’aumento esponenziale della corruzione della classe dirigente di questi Paesi: il fiume di risorse economiche che le organizzazioni sovranazionali e quelle caritatevoli (meglio note come ONG) hanno riversato sugli Stati insulari ha fatto nascere appetiti che sono difficilmente saziabili.
Da un punto di vista sociale l’impatto è stato devastante in quanto tra i cittadini di quelle isole si è diffusa la certezza che ad ognuno di essi dovesse essere dato qualcosa che qualcuno gli aveva tolto in modo ingiusto e violento. Torpore ed indolenza si sono diffusi là ove prima albergavano laboriosità ed intraprendenza.
In altre parole gli aiuti ed i sussidi hanno fiaccato le virtù civiche degli abitanti degli atolli e degli Stati insulari.
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Questi Stati sono destinati, per la loro peculiare natura, a finire sott’acqua ed i loro abitanti a doversi trasferire su altre isole fino a che anche queste faranno la stessa fine di quelle abbandonate in precedenza. Si tratta di un processo naturale che difficilmente può essere evitato: è come se si volesse impedire che le montagne venissero spianate dagli agenti atmosferici per far posto alle pianure: equivale a sfidare le principali leggi della fisica. Il processo può essere rallentato, ma non arrestato.
Nel frattempo la guerra climato-ideologica in atto utilizza gli atolli ed i loro abitanti come efficaci zimbelli per tirare l’acqua al proprio mulino svilendoli, umiliandoli ed illudendoli di poter risolvere tutto con una manciata di milioni di dollari ed opere di adattamento destinati ad una miserevole fine.
n.b.: opinioni personali desunte da quelle di chi di queste cose le fa per lavoro. 🙂 http://www.lescienze.it/archivio/articoli/2015/05/04/news/l_isola_che_non_c_e_-2583775/
Ciao, Donato.