Appena qualche giorno fa ho avuto occasione di rendere conto, qui su CM, di come il livello medio globale dei mari è previsto in rapida crescita da alcuni scienziati. Oggi girovagando in rete mi è capitato di venire a conoscenza di un recente articolo pubblicato sulla rivista Geology a firma di Matthew J. Winnick e Jeremy K. Kaves:
Oxygen isotope mass-balance constraints on Pliocene sea level and East Antarctic Ice Sheet stability (da ora Winnick et al., 2015).
L’articolo offre un punto di vista sulle prospettive di variazione del livello medio del mare piuttosto controcorrente. Si prende in esame un lungo periodo di riscaldamento verificatosi a metà del Pliocene tra 3,3 e 2,9 milioni di anni a partire da oggi. Si tratta di un lunghissimo periodo caratterizzato da condizioni climatiche particolarmente stabili e molto più calde di quelle odierne: i cammelli prosperavano in Europa e nel Nord America come testimoniano i fossili.
Tale evento è molto importante in quanto caratterizzato da una concentrazione di CO2 atmosferico di 350/450 ppmv, una distribuzione delle masse continentali simile a quella moderna e correnti oceaniche caratterizzate da percorsi e velocità simili a quelle di oggi: condizioni del tutto confrontabili, quindi, con quelle attuali. Possiamo dire, pertanto, che la comprensione dei meccanismi del sistema climatico in atto in quel periodo potrebbe essere molto utile a capire l’evoluzione climatica attuale e del prossimo futuro. Nell’articolo i due autori concentrano la loro attenzione sul modo in cui è variato il livello del mare con particolare riguardo ai flussi di massa dalle calotte glaciali continentali agli oceani.
Studi condotti fino ad oggi hanno consentito di appurare che in quel periodo geologico il livello medio del mare a livello globale, era di 21 ± 10 m al di sopra di quello attuale. Tale valore richiede la perdita totale della calotta glaciale della Groenlandia e di quella dell’Antartico occidentale e una perdita sostanziale della calotta orientale dell’Antartide. Il tutto in presenza di temperature globali di circa 2 -3 ° C maggiori di quelle odierne.
Il contributo delle calotte glaciali al livello medio globale dei mari nel periodo caldo del Pliocene è stato stimato sulla scorta dei rapporti isotopici dell’ossigeno (isotopo 18/isotopo 16, per la precisione) desunti da foraminiferi bentonici rinvenuti in carote prelevate sui fondali oceanici. I foraminiferi oggetto di studio prosperano in acque profonde ed il contenuto di ossigeno 18 cambia in funzione della temperatura delle acque e del grado di fusione delle calotte glaciali. Gli studi compiuti fino ad ora ipotizzano che il rapporto isotopico dell’ossigeno nei ghiacci antartici del Pliocene sia confrontabile con quello odierno. Winnick et al., 2015 hanno ricostruito i rapporti isotopici del ghiaccio pliocenico sulla scorta di un modello matematico che correla la temperatura superficiale oceanica con il rapporto isotopico dell’ossigeno desunti da dati reali misurati negli ultimi anni. Partendo dai valori delle temperature superficiali stimate per il Pliocene, Winnick et al., 2015 ha stimato che la concentrazione dell’isotopo 18 dell’ossigeno nelle calotte polari antartiche era superiore a quella odierna di un valore compreso tra l’1 ‰ ed il 4 ‰. La conseguenza ovvia è che l’apporto di massa dalle calotte glaciali antartiche agli oceani, necessaria ad ottenere il rapporto tra gli isotopi 18 e 16 dell’ossigeno misurati nei foraminiferi, è stato sovrastimato e, quindi, nel Pliocene il contributo di massa al livello del mare doveva essere molto più basso di quello stimato fino ad oggi: 9-13,5 m più alto di quello odierno invece che 21 ± 10 m. La differenza non è di poco conto in quanto il nuovo valore della stima è circa la metà di quello precedente.
Dal punto di vista climatico dobbiamo desumere che la sensibilità al forcing radiativo della calotta glaciale orientale antartica è molto più bassa di quella stimata fino ad oggi.
Fin qui l’abstract che è liberamente accessibile. Come dovrebbe essere buona norma quando si commenta un articolo, l’articolo dovrebbe essere letto integralmente, ma nella fattispecie ciò non mi è stato possibile per cui le mie considerazioni potrebbero essere dettate da un fraintendimento del pensiero dei ricercatori a causa della sintesi dell’abstract stesso. Sulla scorta di quanto ho appena finito di scrivere possiamo tirare un sospiro di sollievo in quanto le calotte glaciali antartiche orientali sono molto più resistenti di quanto avessimo stimato in precedenza. Ciò non toglie, però, che un aumento del livello del mare di 9,50-13 m sarebbe in ogni caso estremamente pericoloso (già tremiamo pensando al metro previsto dall’IPCC, figuriamoci 10 metri e più).
Gli autori sono ben coscienti di questo fatto e, sulla scorta del comunicato stampa rilasciato dall’Università di Stanford cui sono affiliati, cercano di chiarire meglio la portata delle conclusioni a cui sono giunti. Essi sostengono, infatti, che non è possibile trasferire i risultati ottenuti per il Pliocene ad oggi in quanto:
“In genere i ghiacciai rispondono nell’arco di secoli se non millenni all’aumento di anidride carbonica, quindi è difficile dire cosa succederà su scale temporali più brevi, ovvero nei prossimi decenni”. La situazione è complicata anche dal fatto che “… i livelli di CO2 nel Pliocene erano relativamente costanti mentre ai giorni nostri essi stanno aumentando rapidamente e ciò mette in risalto l’importanza di capire come il livello del mare risponde alle temperature in aumento. Le stime del livello del mare nel Pliocene potrebbero fornire un potente strumento per testare la capacità dei nostri modelli di simulare il comportamento delle calotte glaciali continentali per prevedere i futuri cambiamenti del livello del mare.” (fonte)
Da quello che ho potuto capire ci troviamo di fronte all’ennesimo modello empirico che correla le concentrazioni di CO2 al livello del mare attraverso la temperatura degli oceani. Già in altre occasioni ho avuto modo di esprimere il mio profondo scetticismo riguardo a questo tipo di modelli. Il loro utilizzo deriva dalla scarsa capacità dei modelli fisici di simulare l’andamento del livello del mare a causa delle incertezze che caratterizzano la quantificazione dei contributi sterici e di massa al livello del mare. Della questione mi occupai tempo addietro qui su CM concludendo che le stime dei contributi sterici e di massa al livello del mare non sembrano coincidere con le previsioni dei modelli in quanto mentre i primi sono rimasti costanti, la velocità di aumento del livello del mare, stando ai modelli, è in crescita.
Allo scopo di superare questa problematica, sono stati elaborati dei modelli empirici che correlano la variazione del livello medio del mare alle temperature globali e, quindi, alla CO2 che, secondo la linea di pensiero principale, la determina. Winnick et al., 2015 segue questa tendenza e cerca di quantificare il contributo della massa alla variazione del livello del mare nel Mid-Pliocenic Warm Period (MPWP). Tale periodo è considerato fondamentale nello studio della climatologia terrestre in quanto, secondo l’IPCC, le condizioni dell’epoca erano le stesse che si teme possano verificarsi oggi. Tale periodo fu caratterizzato da una lunga fase di stabilità come dimostrano i fossili di foraminiferi trovati nei depositi bentonici e potrebbe rappresentare il punto di equilibrio del sistema climatico terrestre qualora venisse rotta la condizione di equilibrio attuale. Detto in altri termini non potendo prevedere verso quale condizione di equilibrio evolverà il sistema dinamico non lineare climatico nel futuro, possiamo presumere che la nuova condizione di equilibrio, stanti le condizioni di partenza più o meno identiche, possa essere simile a quella del MPWP. Tale condizione di arrivo può considerarsi estremamente stabile a causa della sua lunghissima durata.
Qualora tutto ciò fosse vero e qualora riuscissimo a stabilizzare le condizioni climatiche su valori della CO2 compresi tra 350 e 450 ppm e contenere, quindi, l’aumento delle temperature globali entro i 2°C rispetto al periodo pre-industriale il destino del pianeta sarebbe quello del MPWP.
Personalmente ci credo poco in quanto piccole variazioni delle condizioni iniziali possono variare le condizioni finali del sistema climatico, stante la sua non linearità. Della cosa sono perfettamente coscienti gli autori che lo dicono a chiare lettere nella dichiarazione contenuta nel comunicato stampa dell’Università di Stanford: nel Medio Pliocene non vi fu una subitanea variazione della concentrazione di CO2 in atmosfera, ma essa fu costantemente alta per secoli, anzi millenni. L’effetto serra da essa indotto, pertanto, poté svilupparsi per millenni portando alle condizioni climatiche del periodo. Sulla Terra attuale succederà la stessa cosa? Non lo sappiamo. Non sapremo mai pertanto se il livello del mare aumenterà di 9,50-13 m rispetto ad oggi a causa del contributo di massa originato dalla fusione delle calotte glaciali antartiche e groenlandesi. Se dovesse farlo dovranno passare secoli se non millenni con un tasso di CO2 atmosferico costantemente superiore a 350-450 ppm. Ipotesi molto improbabile in quanto i combustibili fossili si esauriranno prima che ciò possa accadere.
E per chiudere due considerazioni: la prima seria, la seconda meno.
La conclusione più importante di Winnick et al., 2015 è che la calotta antartica orientale è molto meno sensibile al forcing da CO2 di quanto si prevedeva, quindi il suo contributo di massa all’aumento del livello del mare sarà minore del previsto. La conclusione non è di poco conto e merita di essere tenuta in seria considerazione nel futuro.
La seconda considerazione è, in realtà, una domanda in attesa di risposta. Da dove diavolo veniva tutto il biossido di carbonio presente nell’atmosfera del Medio Pliocene e dove andò a finire visto che subito dopo ebbero inizio le grandi glaciazioni del Quaternario?
Caro Donato,
Questa sera ho seguito un documentario su Focus dedicato agli impatti delle tempeste sula città di New York. Un ingegnere che sta allestendo sistemi di monitoraggio per prevenire allagamenti ha detto testualmente che il problema si è acuito in quanto il livello oceanico a New York dal 1800 ad oggi è aumentato di 45 cm. Che ne pensi di questo dato? A me pare esagerato…
Ciao.
Luigi
Caro Luigi, il collega USA ha ragione. Sallenger et al., 2012 ha calcolato che il livello del mare a New York è aumentato, a partire dal 1950, di circa 20 cm e che la velocità con cui varia è in aumento. Parker, 2012 contesta le conclusioni di Sallenger et al., 2012 relativamente alla variazione di velocità con cui varia il livello del mare ma stima in 40 cm circa l’aumento del livello del mare tra il 1850 ed il 2012. Il dato del documentario mi sembra, pertanto, molto realistico.
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New York è, infatti, un hot spot caratterizzato da un forte aumento del livello del mare rispetto ad altri mareografi di altre parti del mondo e dell’Atlantico. Sallenger et al., 2012 ha studiato il dato di molti mareografi della costa atlantica e di quella pacifica degli USA e del Canada. Sulla base di questo studio la velocità di variazione del livello del mare è costante o in diminuzione in tutti i mareografi della costa pacifica, è costante o negativa in circa il 30% di quelli della costa atlantica. Per la costa atlantica, inoltre, si vede che i mareografi a sud di Capo Hatteras nel 60% dei casi presentano velocità di variazione costante del livello del mare, il resto velocità in aumento. Quelli a nord di Capo Hatteras, invece, hanno velocità di variazione del livello del mare in aumento, molti in forte aumento, e solo qualcuno evidenzia tendenze statisticamente non significative.
Nella loro analisi gli autori hanno tenuto presenti molti fattori tra cui AMO, NAO e via cantando, ma non sono riusciti ad individuare la causa di tali anomali comportamenti del livello del mare.
http://www.nature.com/nclimate/journal/v2/n12/extref/nclimate1597-s1.pdf
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Tutto questo è ancora più strano in quanto sulla scorta di altri studi il livello del mare del settore nord atlantico è in diminuzione (Purkey et al., 2014 stima questa diminuzione in 0,1+/-2.7 mm per anno).
Il fenomeno deve ancora essere capito nei dettagli, ma da un punto di vista ingegneristico è necessario tener conto del dato locale, delle cause deve occuparsi la ricerca scientifica. E, per quanto ne so, non è ancora riuscita a farlo.
Ciao, Donato.
PS:
leggete un po’ qua:
http://www.lescienze.it/news/2015/09/11/news/oceano_meridionale_pozzo_carbonio-2758288/
Dimenticavo: credo che a futura memoria sarebbe utile compilare un elenco delle eccezioni alla teoria dominante (quella sull’età del ghiaccio groenlandese è solo una).
…”il livello medio del mare a livello globale, era di 21 ± 10 m al di sopra di quello attuale. Tale valore richiede la perdita totale della calotta glaciale della Groenlandia… ”
Questo nesso mi sfugge, cercherò di trovare l’articolo per intero e approfondire la questione…
chiedo venia, mi sbagliavo, ricordavo genericamente una durata della “vita” della calotta glaciale groenlandese di almeno 17 milioni di anni, e degli indizi geologici di coperture glaciali nell’oceano artico ben più antiche, almeno risalenti a 40 milioni di anni fa;
effettivamente invece alcuni lavori ipotizzano uno scioglimento totale o quasi della calotta groenlandese in questione intorno ai 2,4 milioni di anni fa
– http://www.geo.umass.edu/faculty/jbg/Pubs/AlleyetalQSR2010Greenl.pdf –
– http://www.dgp-ev.de/pdf-2012/Thiede2011_web.pdf –
a quanto sembra la causa è stata una diminuzione del gradiente di temperatura oceanica tra equatore e poli, a determinare alterazioni della circolazione termoalina…
😀
Donato, a questo link puoi trovare il lavoro completo di cui parli:
http://www.researchgate.net/publication/281147170_Oxygen_isotope_mass-balance_constraints_on_Pliocene_sea_level_and_East_Antarctic_Ice_Sheet_stability
😀
Max, grazie per il link che mi ha consentito di leggere integralmente Winnick et al., 2015.
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Dopo aver letto l’articolo confermo, anzi rafforzo, tutte le mie perplessità in merito a questo tipo di modellazione (modelli empirici): i parametri in gioco ed il loro “tuning” mi sembrano eccessivi.
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Partiamo dalla relazione tra temperatura e rapporto isotopico dell’ossigeno. Le temperature plioceniche globali per il periodo considerato sono stimate in 2-3°C maggiori di quelle preindustriali. Sulla base di modelli di circolazione globale applicati al Pliocene medio, a queste temperature globali dovrebbero corrispondere valori delle temperature antartiche maggiori di un valore compreso tra 2 e 12,5°C rispetto a quelle attuali. Queste temperature dovrebbero provocare la fusione di determinate percentuali delle calotte glaciali antartiche e, in ultima analisi, un ben determinato rapporto isotopico nell’acqua degli oceani e, quindi, nei foraminiferi fossili.
Procedendo a ritroso, noto il rapporto isotopico nei foraminiferi, si determina la perdita di massa delle calotte glaciali e, conseguentemente, le temperature ed il livello dei mari corrispondente: si è creato il modello empirico.
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Estrapolando ad oggi ciò che è successo nel Pliocene, possiamo determinare il livello del mare nel 2100 in funzione della temperatura. Onestamente mi sembra un’esagerazione.
La cosa curiosa in tutto questo discorso è che, contrariamente a quanto stimato dai modelli, oggi come oggi le temperature in Antartide non stanno aumentando mentre quelle globali si.
Nonostante tutto i ghiacciai antartici perdono massa (senza che le temperature antartiche aumentino): logica vorrebbe che tra temperature atmosferiche antartiche e perdita di massa dei ghiacciai non vi fosse relazione. Tutti i modelli empirici prevedono, però, aumenti della perdita di massa in funzione della temperatura e, in ultima analisi, della concentrazione di CO2. Anche Winnick et al., 2015. Mah!
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Altro aspetto che mi lascia oltremodo perplesso riguarda la correlazione tra il tasso di scioglimento delle calotte glaciali groenlandesi odierne e quelle plioceniche e tra il tasso di scioglimento delle calotte antartiche moderne e quelle plioceniche. Già abbiamo grossi problemi a quantificare esattamente tali parametri oggi con l’uso dei satelliti (GRACE, per esempio), figuriamoci ciò che ne viene fuori per il Pliocene medio!
La stima di questi parametri è basata sul diverso rapporto isotopico dell’ossigeno dei ghiacci costituenti le calotte glaciali. Nel caso delle calotte dell’Antartide, in quelle orientali temperature più calde determinano accumuli maggiori di neve mentre in quelle occidentali minori accumuli e, quindi, perdita di massa differenziata per le due calotte, ovvero diverso rapporto isotopico nel ghiaccio che le costituisce.
Chi ci garantisce che anche nel Pliocene le cose funzionavano in questo stesso identico modo e che i rapporti isotopici odierni dell’acqua di mare coincidano con quelli pliocenici? Nessuno e difatti Winnick et al., 2015 lo dimostra: assume rapporti isotopici del ghiaccio antartico diversi altrimenti i conti non tornano
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E arriviamo, così, alla questione del tuning dei dati. Winnick et al., 2015 nasce dalla necessità di conciliare gli output dei modelli empirici con quelli dei modelli fisici forzati con le condizioni al contorno del Pliocenico medio. Ebbene, questi ultimi danno valori di incremento del livello del mare compresi tra 1 (uno) e 29 metri. Alcuni modelli empirici portano a prevedere aumenti del livello del mare di ben 70 metri anche se i valori più comuni oscillano tra 21 e 39 metri. Come si può vedere il massimo dei modelli fisici, è quasi uguale al minimo di quelli empirici. Winnick et al., 2015 con tutta una serie di ipotesi (ad hoc, mi viene da dire) e giocando con le percentuali di fusione delle diverse calotte glaciali continentali e con i rapporti isotopici dei ghiacci antartici pliocenici, ottengono dei valori di aumento del livello del mare, determinati in base alla temperatura globale ed alla concentrazione di CO2 atmosferica, che rientrano nell’intervallo individuato dai modelli fisici di variazione del livello del mare forzati con le condizioni al contorno del Pliocene medio.
Mah e ancora mah! 🙂
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Ultimissima considerazione: gli output dei modelli empirici non coincidono neanche con le misure del livello del mare dedotte da studi di antiche linee di costa e carote di sedimenti. Essi si adattano meglio agli output dei modelli fisici, ma questi ultimi hanno il pessimo difetto di non essere abbastanza spaventosi: chi si spaventa di 1 metro di aumento del livello del mare a un secolo da oggi?
Ciao, Donato.
Max, i dati che citi sono in palese contraddizione con quelli ricavati dai più recenti sondaggi con sensori da remoto eseguiti dalla NASA sulla calotta groenalndese.
Da tali sondaggi risulta infatti che la calotta stessa è quali tutta costituita da ghiaccio sviluppatosi durante la glaciazione di Wurm o nell’Olocene (rispettivamente masse glaciali in azzurro e in verde nel bellissimo filmato presente qui: https://www.nasa.gov/content/goddard/nasa-data-peers-into-greenlands-ice-sheet), mentre solo una piccolissima parte della massa glaciale groenlandese (quella più profonda, in rosso nel filmato suddetto, lì indicata come massa glaciale ermiana) proverrebbe dalla glaciazione di Riss.
Peraltro questo ci dimostra che gli interglaciali precedenti al nostro sono stati termicamente assai più estremi del nostro, per motivi che tutt’ora ignoriamo.
Nonostante infatti tutte le responsabilità umane non siamo infatti ancora riusciti a far sciogliere la calotta groenlandese come riuscì invece a fare l’interglaciale Riss – Wurm, ove l’uomo non aveva responsabilità alcuna.
Sono dati, quelli sopra riportati, su cui sarebbe opportuno meditare più a fondo di quanto non si stia facendo oggi.
ciao Luigi, si hai ragione, ma mi sono espresso male io;
in realtà volevo dire che le testimonianze fossili nei depositi sedimentari testimoniano che le prime fasi di raffreddamento dell’oceano artico risalgono all’Eocene, e che le prime avvisaglie di copertura glaciale groenlandese sembrerebbero risalire a 17 Ma, in base alla stratigrafia dei depositi costieri analizzati;
ovviamente, come tu dici, il ghiaccio oggi presente è poco più vecchio di poche migliaia di anni (si, me lo ricordo quel filmato, ne abbiamo parlato qui mesi fa )
“Da dove diavolo veniva tutto il biossido di carbonio presente nell’atmosfera del Medio Pliocene e dove andò a finire visto che subito dopo ebbero inizio le grandi glaciazioni del Quaternario?” … a me verrebbe da pensare che la CO2 del medio Pliocene possa in buona parte venire dagli ecosistemi.
Infatti, emissioni antropiche a parte, per ogni temperatura media del pianeta deve per forza esistere un valore di equilibrio per CO2 in atmosfera imposto dall’attività degli ecosistemi che determina l’entità dei flussi atmosfera – superficie (in primis dovuti alla fotosintesi) e superficie-atmosfera (in primis dovuti alla respirazione).
Con tale ipotesi tuttavia non si spiega il fatto che 125mila anni orsono, nel picco dell’interglaciale Wurm – Ryss le temperature erano più alte di alcuni °C rispetto ad oggi e il mare era più alto di 8 metri (come ci indica il battente di scogliera di Orosei) ma la CO2 dai diagrammi antartici appare di 280 ppm come nell’attuale interglaciale -> come mai CO2 in quel caso restò bassa? Gli oceani hanno fatto da serbatoio? Chissà!
Luigi, la tua spiegazione mi sembra perfettamente logica e condivisibile.
Per quel che riguarda il paradosso dell’interglaciale Wurm – Ryss, penso che possa derivare dalle interazioni tra i tanti fattori che caratterizzano il sistema climatico e che determinano degli stati di equilibrio caratterizzati da qualche valore un po’ “strano”: il caos è un po’ così.
Comunque, parafrasando il Bardo “Ci sono più cose in cielo e in terra…. di quante ne sogni la climatologia” 🙂
Ciao, Donato.