Si dice, si sa, che la temperatura del mare, intesa non solo in superficie ma anche nei primi metri di profondità, sia uno degli ingredienti principali dei cicloni tropicali. Regola vuole, pur con eccezioni per difetto, che il mare debba arrivare a e sostenere almeno 26-27°C nello strato superficiale perché salgano considerevolmente le probabilità che si formi un ciclone tropicale, ovviamente ferme restando tutte le altre precondizioni.
Il calore superficiale è dunque il carburante dei cicloni tropicali. Ora, le dinamiche di intensa rotazione depressionaria interna ad un ciclone tropicale fanno sì che quel calore venga ceduto con molta efficienza all’atmosfera, generando quindi una risalita di acqua più fredda. Questo processo, se non intervengono fattori di modifica lungo il percorso dell’ciclone, è destinato a indebolirne l’intensità, specie se si tratta di tempeste forti e lente nello spostamento, perché altrettanto forte e veloce sarà il rimescolamento delle acque di superficie che, perdendo calore, perdono capacità di sostenere il sistema.
Se non intervengono fattori di modifica. Di questo parla il paper di cui parliamo oggi, uscito sul Journal of Physical Oceanography:
Si torna a parlare della Loop Current, il gioco di correnti marine del Golfo del Messico salito alla ribalta nei giorni dell’incidente alla piattaforma Deep Water Horizon. Caratteristica principale della LC è quella di rilasciare periodicamente nel Golfo del Messico dei vortici anticiclonici di acqua calda; se questi entrano in fase con un ciclone tropicale, ovvero se la tempesta atmosferica vi passa sopra, questi vortici con il loro moto anticiclonico (che propaga l’energia dall’alto verso il basso – downwelling) e con la riserva di calore che possiedono, possono fornire ulteriore energia al ciclone rallentandone il processo di indebolimento descritto poche righe fa, ovvero invece rafforzandolo.
Nel caso di studio di questo paper, al passaggio del Ciclone Isaac nel Golfo del Messico, è accaduto proprio questo, una dinamica che è stato possibile accertare grazie al dispiegamento di centinaia di sensori lanciati dalle missioni aeree di osservazione dell’uragano che la NOAA compie in questi casi.
Il risultato, quindi, è che i fattori di circolazione marina a mesoscala, cioè alle dimensioni di un uragano, devono necessariamente essere noti e se ne deve tener conto nei modelli di previsione per valutare come evolverà quel sistema. Un paio di anni fa abbiamo pubblicato il commento ad una ricerca che metteva in relazione proprio i vortici a mesoscala della circolazione oceanica con i campi della nuvolosità e delle precipitazioni, a significare che questi aspetti di interazione a piccola scala spaziale tra oceano e atmosfera non sono esclusivi della Loop Current e dei cicloni tropicali.
L’argomento è interessante, se avete voglia di farvi venire un gran mal di testa, dato che il paper è a pagamento, qui c’è una esauriente presentazione in power point del primo autore dello studio ;-). Mentre qui, con molto minore necessità di analgesici, ne parlano su Science Daily.
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