Sul numero di maggio di “Le Scienze” è stato pubblicato un interessante articolo a firma di Simon D. Donner “L’isola che non c’e” che riprende le tematiche trattate ultimamente da G. Guidi qui su CM.
L’articolo è da leggere in quanto descrive in modo estremamente efficace la “sindrome-del-salvatore-del-pianeta” cioè quello stato d’animo di cui tante volte abbiamo parlato qui su CM in modo ironico, attirandoci gli strali di molti soggetti afflitti dalla “sindrome”. Questa volta però la predica viene da un pulpito molto autorevole che non può essere accusato di scetticismo, negazionismo ecc,. ecc..
L’autore dell’articolo è un professore della Britush Columbia University, Canada, che da oltre dieci anni si occupa dell’impatto del cambiamento climatico sulle barriere coralline: ha la patente per parlare e scrivere.
Il dr. Donner si occupa della situazione di Kiribati, lo stato insulare assurto a simbolo del disastro che l’innalzamento del livello del mare può provocare. Si tratta di uno stato insulare che si estende su una vastissima area dell’Oceano Pacifico ed è formato da 33 isole ed atolli, in gran parte disabitate, per una superficie complessiva di 811 chilometri quadrati di terre emerse su 3,5 milioni di chilometri quadrati di oceano. Su dodici di queste isole vivono circa 200.000 persone di cui 103.000 sull’atollo di Tarawa. Gli atolli sono delle particolari strutture geologiche di origine biologica: i coralli sono degli organismi animali che vivono ad una ben determinata profondità per restare vicini alla luce e, contemporaneamente, immersi in acqua. Quando il supporto di questi organismi viventi è un vulcano marino spento che tende a sprofondare con delle velocità ben precise, si creano le condizioni per la nascita e lo sviluppo delle più imponenti costruzioni realizzate da un essere vivente, le barriere coralline. Man mano che il supporto di base dei coralli si abbassa, essi muoiono ed il loro esoscheletro costituisce il supporto per altri coralli e così via anno dopo anno, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio fino a creare intorno al vulcano e sul vulcano delle sovrastrutture simil-circolari che costituiscono la struttura portante dell’atollo. Le correnti marine, l’erosione delle onde, i venti, plasmano e danno forma, alla fine, a quello che chiamiamo atollo: una laguna circondata più o meno completamente da isole lunghe e strette. Il meccanismo di formazione dell’atollo è tale che se la velocità di subsidenza del supporto roccioso o di innalzamento del livello del mare supera certi valori, il processo di rigenerazione della barriera corallina si arresta a causa della morte dei coralli.
Da quanto scritto si capisce chiaramente che ai fini della comprensione del destino di questi ambienti particolari è necessario conoscere il rateo di innalzamento del livello dei mari di cui tante volte mi sono occupato qui su CM. Il dr. Donner sulla scorta dei modelli di variazione del livello del mare elaborati dall’IPCC, reputa del tutto plausibile che le isole della Repubblica di Kiribati alla fine del secolo in corso potrebbero non essere più abitabili, ma scrive testualmente:
“Il mondo ha l’impressione che Kiribati stia affondando a causa di una cattiva comunicazione della situazione”
Detto da uno che studia le isole di Kiribati da oltre dieci anni è qualcosa che suscita sensazione. Cerchiamo, però, di seguire il ragionamento di Donner. Kiribati si trova ad un’altezza media sul livello del mare di meno di un metro: 0,45 m è l’altezza di una tipica altura di Kiribati. Il livello del mare non è mai costante in quanto risente di una serie di fattori: maree, El Niño e La Niña (Kiribati si trova proprio al centro della zona dell’Oceano teatro delle oscillazioni dell’ENSO), variazioni della pressione atmosferica molto forti, correnti marine e venti determinano quella che è la variabilità annuale ed interannuale (ad alta frequenza) del livello dei mari. Su questa base si innestano le variazioni a bassa frequenza o i trend lineari (dipende dai punti di vista) che chiamiamo innalzamento del livello dei mari: fusione delle calotte glaciali terrestri, variazione del regime delle acque sotterranee e superficiali, dilatazione termica dell’oceano. Secondo Donner fino ad oggi i problemi di Kiribati sono legati alle variazioni annuali ed interannuali del livello del mare. In futuro, probabilmente, l’innalzamento del livello del mare e l’aumento degli eventi estremi diventeranno preponderanti, ma oggi non è così.
Il problema attuale di Kiribati sono gli attivisti climatici. Il meme del cambiamento climatico e dei profughi climatici si materializza a Kiribati e i governanti locali speculano su queste cose per acquisire visibilità sulla scena geopolitica e fondi elargiti dalle istituzioni internazionali (statali e non). Kiribati è vittima, secondo il prof. Donner, della polarizzazione del dibattito climatico.
Studi effettuati da ricercatori indipendenti (C. Neumann dell’Università del North Carolina e I. McIntyre della Smithsonian Institution) hanno accertato, infatti, che le isole coralline possono seguire l’andamento del livello del mare. Un altro studio a firma di P. Kench e A. Webb pubblicato su Global and Planetary Change, ha dimostrato sulla base di confronti tra foto aeree del 1969 e dei giorni nostri, che alcune isole coralline sono cresciute del 16% dal 1969. Questo fatto è stato sfruttato dagli scettici per dimostrare che non è vero che le isole coralline stanno affondando. Dall’altro lato della barricata troviamo i catastrofisti che utilizzano le inondazioni o i problemi legati alle peculiarità delle isole per dimostrare la catastrofe incombente. In mezzo i poveri isolani tirati per la giacca da un lato e dall’altro a seconda delle convenienze. Oltre ai cittadini di Kiribati l’altra vittima della sciagurata diatriba tra “salvatori-del-mondo” e “scettici climatici” è la verità scientifica cioè la realtà.
Donner, a titolo puramente esemplificativo cita diverse circostanze che avvalorano la sua tesi che, personalmente, condivido in pieno. Nel 2005 si verificò a Tarawa una disastrosa inondazione. Essa non era, però, legata all’innalzamento del livello dei mari, ma ad una serie di fortuite circostanze: El Niño, bassa pressione che convogliava le acque verso l’atollo ed alta marea. I media invece attribuirono per intero l’evento al clima che cambia ed all’innalzamento del livello dei mari: era la prima dimostrazione degli effetti dell’innalzamento del livello del mare. Non era vero, ma utile alla causa. L’interesse che si è creato intorno a Kiribati spinge centinaia di giornalisti, attivisti ambientali, esponenti di organizzazioni internazionali a recarsi negli atolli del Pacifico per vedere l’innalzamento del livello del mare “in azione”. Per soddisfare queste richieste il governo locale porta tutti i visitatori più illustri a visitare il villaggio di Bikenikoura e qui i “fortunati” visitatori posso assistere alla marea che avanza lentamente fino a raggiungere il cuore dell’insediamento. Si tratta, però, di un fatto che con il livello del mare in aumento non ha nulla a che fare in quanto il villaggio è sorto nell’unico pezzo di terra libero di Tarawa sud a seguito dell’intervento “umanitario” di un’associazione religiosa che creò l’insediamento per ospitare gli abitanti di alcune isole esterne dell’arcipelago trasferiti a Tarawa non per problemi climatici, ma per più prosaici motivi economici legati alla carenza di lavoro nei loro luoghi di origine. L’associazione benefica non mancò di realizzare barriere a difesa dell’insediamento dalle oscillazioni del mare (oscillazioni che allagavano il terreno già prima della costruzione dell’insediamento) e che in gran parte sono andate distrutte a causa dell’incuria e dell’azione delle onde. Altro esempio di “simil-innalzamento del livello del mare in atto” è costituito dal villaggio di Tebunginako. Anche questo villaggio è soggetto a continue inondazioni, ma la causa va ricercata nella chiusura di un canale che una volta costeggiava il villaggio: chiuso il canale le maree non hanno più sfogo e il villaggio si allaga.
Come si vede si è venuto a creare una specie di corto-circuito mediatico-ideologico-politico efficacemente descritto da Donner:
“Mescolate l’ingenuità dei turisti, la riservatezza delle popolazioni locali, l’abitudine a rispettare sempre l’opinione di chi viene da fuori, l’eredità di un numero incalcolabile di i-Matang che hanno chiesto informazioni sul cambiamento climatico e l’assenza di dotazione scientifica per verificare davvero le dicerie e avrete un villaggio inondato per semplici cause naturali che si trasforma in vittima”
La vittima di tutto questo, però, è il popolo di Kiribati. Le organizzazioni governative e non hanno avviato raccolte di fondi per “salvare” Kiribati che sono stati utilizzati per realizzare opere di salvaguardia delle infrastrutture isolane, per acquistare terreni su cui trasferire i futuri profughi climatici e via cantando. In realtà le opere di salvaguardia sono state progettate e realizzate male per cui sono state distrutte o gravemente danneggiate dalla furia degli elementi con il conseguente codazzo di scaricabarile e polemiche tra i vari attori del dramma; il terreno è stato destinato ad una piantagione i cui proventi sono stati utilizzati, pare, da eminenti esponenti politici locali per fini personali con conseguente polemica politica tra maggioranza ed opposizioni.
Il clima (politico, sociale ed economico, però) che si è venuto a creare sta minando anche le capacità di adattamento del popolo di Kiribati. A titolo esemplificativo Donner cita il caso di un pozzo sull’isola di Beru nell’arcipelago delle Gilbert famosa per la laboriosità e l’ingegno dei suoi abitanti. Il pozzo dopo molti anni di onorato servizio, fu invaso dalle acque marine divenendo inutilizzabile. La circostanza fu indicata come l’ulteriore prova del mare che avanzava. In realtà il livello del mare non ha alcuna responsabilità in quanto grazie ai fondi raccolti “per salvare Kiribati” da un’organizzazione umanitaria le vecchie pompe a gasolio furono sostituite da pompe solari. Grazie alla gratuità della fonte solare le pompe furono fatte funzionare in continuo con il conseguente esaurimento della falda e l’invasione della stessa da parte delle acque marine. Grazie ad ulteriori ricerche si scoprì la causa dell’incidente ed il problema è stato risolto, ma non dai cittadini del posto come detto notoriamente attivi e laboriosi: nella circostanza si sono dimostrati fatalisti e dipendenti dall’aiuto esterno per risolvere un problema tecnico abbastanza banale.
Donner conclude la sua fatica con un invito pressante a spogliare il dibattito su Kiribati dagli aspetti ideologici in quanto ciò ha arrecato solo danni, a smetterla di creare l’illusione che mediante la realizzazione di opere ed infrastrutture di salvaguardia si possano annullare gli effetti del cambiamento climatico e a ridare dignità al popolo di Kiribati diventato una specie di zimbello nel feroce dibattito in corso sulle problematiche del cambiamento del clima.
Qualora le previsioni dell’IPCC si rivelassero fondate e non si riducessero le emissioni di gas serra, chiosa Donner, il destino di Kiribati è segnato. L’unica speranza per i suoi abitanti sarà quello delineato dal progetto Migration with Dignity: individua luoghi del mondo in cui la popolazione sta invecchiando e cerca di creare in tali aree delle colonie di cittadini di Kiribati che potranno rappresentare il luogo ove potrebbero essere trasferiti, senza essere considerati degli estranei, gli abitanti dello stato insulare qualora le loro isole divenissero inabitabili.
Un articolo molto bello quello di Donner che in modo obbiettivo discute un problema molto serio e che dovrebbe essere letto da tutti: “scettici” e “salvatori-del-mondo”. In particolare dovrebbe essere accolto il suo accorato invito a smetterla di scannarsi a vicenda sulla base dell’ideologia ed a cominciare a discutere seriamente, sulla base delle acquisizioni della scienza, delle policy di adattamento al cambiamento climatico. L’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2, stanti i risultati delle misure effettuate, mi sembra del tutto illusorio: decenni di applicazione del protocollo di Kyoto non hanno ridotto di una virgola il trend di aumento della CO2 atmosferica che, oggi come oggi, sembra essersi portata stabilmente al di sopra delle 400 ppmv. Sarebbe opportuno, pertanto, porre in atto tutta una serie di iniziative per individuare le politiche di aumento della resilienza del sistema alle nuove condizioni climatiche (ammesso che siano veramente nuove). E farlo in modo sereno, non come oggi in cui chi invita alla prudenza è visto come un criminale e chi invoca misure draconiane è additato come ottenebrato dall’ideologia: come al solito “in medio stat virtus”.
[…] anni fa scrissi un post in cui commentavo un articolo pubblicato su “Le Scienze”. In estrema sintesi […]
[…] affogatore si è impegnato a pagare per soccorrere i malati di clima che cambia. Poco importa se le isole invece di affondare a volte crescono pure, o se la causa dei loro problemi e da tutt’…, del resto la World Bank sta anche costruendo un aeroporto a Tuvalu, altra realtà virtualmente in […]
Una piccola precisazione.
https://it.wikipedia.org/wiki/Kiribati
da cui
// Kiribati (pronunciato “Kìribas”, [‘kiribas]) è la grafia in gilbertese dell’inglese “Gilberts” (diminutivo corrente di “Gilbert Islands”). Infatti nella lingua gilbertese i suoni del latino G, L e S sono scritti K, R e TI e le sillabe sono necessariamente aperte. //
Una curiosità, in romaji (trascrizione in caratteri latini del giapponese) Kiribati si scrive
キリバス, cioè Kiribasu (pronunciato “Kìribas”)
Poi, per i fissati sulle etimologie, come me, consiglio di leggersi la versione inglese, molto interessante, dove si scopre che il nome è in francese, e il nome locale sarebbe stato “Tungaru”, ma i locali preferirono il nome Kiribati (c’è scritto perché) 🙂