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Clima e ricerca, non solo CO2

Il gran parlare di vicende climatiche di questi ultimi anni ha senz’altro un lato positivo, anche se i toni della discussione sono spesso eccessivamente drammatici. C’è stato, indubbiamente, un enorme impulso alla ricerca, che se inizialmente è stata limitata ad una visione nettamente antropocentrica, con la CO2 nel ruolo di protagonista principale, ora sembra stia tornando a orientarsi verso una visione più ampia e più confacente alla realtà. Non passa giorno infatti, senza che escano nuovi studi sul contributo della variabilità naturale alle dinamiche del clima.

Il motivo è semplice, la visione CO2-centrica su cui si basano le proiezioni di disastro climatico imminente, si sta rivelando sempre più sbagliata, sempre più lontana dalla realtà. Non solo sono tre lustri e passa che la temperatura media superficiale ha smesso di crescere, ma il mondo descritto dalle simulazioni, qualcuno dovrà pur dirlo prima o poi, non ha mai iniziato ad esistere.

Ecco quindi lo studio di cui parliamo oggi:

Ocean impact on decadal Atlantic climate variability revealed by sea-level observations

Si parla di Oceano Atlantico, della sua temperatura di superficie e delle modalità della circolazione oceanica che guida gli scambi di calore tra le basse e le alte latitudini: l’AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation).

La prima firma di questo articolo uscito su Nature è responsabile di un progetto di osservazione della circolazione oceanica atlantica che si chiama RAPID e che raccoglie dati da dieci anni. Pochi per la verità, specialmente per la scala climatica. Sicché, per avere delle serie storiche più corpose, gli autori sono andati a cercare dei dati di prossimità (o vicari) nelle oscillazioni del livello del mare dei sensori mareografici della costa est degli Stati Uniti. E hanno trovato conferma di alcune cose interessanti.

Innanzi tutto, la conferma della dipendenza delle oscillazioni a scala decadale dell’AMOC dalla forzante atmosferica, che nell’Atlantico settentrionale è individuata dalla NAO, ossia dall’indice derivato dalle serie storiche della pressione atmosferica sulle Isole Azzorre e sull’Islanda. Poi, per tradurre il tutto in termini di impatto di queste variazioni, è stato confermato il collegamento con l’innalzamento del livello dei mari sulla costa est degli USA, con le siccità nella zona del Sahel e con la piovosità sull’Europa nordoccidentale. Tutte cose, forse val la pena ricordarlo, la cui occorrenza è stata a più riprese collegata ad un non meglio specificato disfacimento climatico di origini antropiche.

Ma non è questo il succo del discorso, benché veder finalmente assegnato il giusto ruolo alle dinamiche naturali nel contesto di un clima che non ha mai smesso di cambiare, quanto piuttosto il fatto che nel pur breve periodo di osservazione del progetto RAPID, pare sia visibile una fase di declino dell’AMOC, cui si associa un minor trasporto di calore verso nord, la cui conseguenza diretta è una diminuzione delle temperature attesa per le prossime decadi. Avete letto bene, si parla di diminuzione delle temperature. Ma dove è finito il global warming?

Di questo paper, se siete interessati, si parla anche su Science Daily e su WUWT. In particolare su SD il primo autore del paper nel parlare di risposta dell’AMOC alla forzante atmosferica fa riferimento alla posizione latitudinale del getto polare, qualcosa di cui su queste pagine parliamo da un bel po’. Meglio tardi che mai.

 

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Published inAttualitàClimatologia

5 Comments

    • Donato

      Buono a sapersi, ma, oltre a delle enunciazioni di maniera, non aggiunge nulla al tema della discussione in atto. A meno che non ci si voglia appellare al principio di autorità, ma a questo punto si travalicano i confini della scienza.
      Ciao, Donato.

  1. Maurizio Rovati

    Hmmm… che sia la famosa isola che non c’è?

  2. Al2015

    Colgo l’occasione offerta da questo bell’articolo, per segnalare un altro evidente caso di “miopia” (o cecità?) ecologica, climatica, e scientifica.
    Pochi (anche se l’attenzione sta aumentando) parlano ancora di uno dei più grandi problemi attuali: gli oceani colmi di plastica.
    http://it.wikipedia.org/wiki/Pacific_Trash_Vortex

    Nel solo Pacifico c’è un’area di spazzatura di plastica galleggiante su un’estensione grande quasi quanto gli Stati Uniti (!).

    https://bigblueorb.files.wordpress.com/2011/03/trash-journey.jpg

    Questa plastica ridotta in poltiglia (una sorta di micidiale “purea”) viene mangiata da pesci, balene, delfini, tartarughe, ecc., che poi ovviamente muoiono, e già dozzine di specie si stanno estinguendo, o si sono estinte.
    Milioni e milioni di tonnellate di plastica riempiono gli oceani, frutto dell’incapacità umana di riciclarla, o di impedire che finisca in mare, e dell’uso eccessivo di contenitori di plastica, eppure la “scienza ufficiale” ha per decenni distolto risorse preziose, energie, studi, ecc., con l’inesistente pericolo rappresentato dalla CO2 e dal Global Warming che la prima causerebbe.

    Quello che più mi ha colpito, è nel leggere la coincidenza di date: 1988, in cui una piccola parte del mondo scientifico aveva iniziato a parlare della “bomba ecologica” (VERA!) rappresentata dai milioni di tons di plastica negli oceani, mentre nello stesso anno l’IPCC pubblicava il suo primo, ridicolo, “report”, con apocalittiche (e poi mai verificatesi) previsioni di crescita esponenziale delle temperature globali, nell’ordine di 3°-4° nei 50 anni successivi.
    Eppure, incredibilmente, la “comunità scientifica” e i media, dal 1988 hanno ignorato bellamente il problema della plastica negli oceani, che è tangibile, evidente, chiaro, per buttare cifre folli nel falso problema del global warming, demonizzando la povera CO2, ed elaborando idee cervellotiche nel tentativo di “controllare le temperature mondiali”, compito ovviamente impossibile.
    Oltre tutto non sappiamo neppure quanto questa immane concentrazione di spazzatura di plastica negli oceani possa anche condizionare il clima, alterando l’evaporazione dell’acqua, le correnti, ecc.
    Ecco, quando uno pensa a ciò, alla stupidità dei media e della c.d. “comunità scientifica”, oltre che dei politici, poi capisce anche perché forse ha ragione chi pronostica il suicidio e l’estinzione della specie umana: purtroppo la grande intelligenza (potenziale) dell’homo sapiens non significa affatto che poi sia davvero capace di usarla al meglio.

    • donato

      A proposito di plastica e di isole di plastica nella comunità scientifica è in atto una bella discussione che assomiglia un poco a quella climatologica. Stando ad un articolo pubblicato lo scorso mese di aprile su “Le Scienze”
      ( http://www.lescienze.it/archivio/articoli/2015/04/02/news/alla_ricerca_della_plastica_scomparsa-2546425/ )
      sembrerebbe che ci sia un problema di “plastica mancante”. Parrebbe, infatti, che sulla scorta di previsioni modellistiche la plastica dispersa in mare dovrebbe essere di più di quella che i rilevamenti riescono a trovare. Detto in altri termini le campagne di studio che stanno mappando i cinque grandi vortici in cui si addensano le particelle di plastica hanno individuato una densità del rifiuto minore di quella prevista dai modelli numerici.
      Che fine ha fatto la plastica mancante? Secondo alcune ipotesi si è dispersa sulle coste dei continenti o sul fondo degli oceani, secondo altri è entrata, invece, nella catena alimentare e attualmente si trova nel corpo delle creature marine. Anche in questo caso a nessuno passa per la mente che, forse, le stime potrebbero essere un poco esagerate.
      Con ciò non voglio dire che il problema non esiste, anzi esiste ed è grave, ma volevo solo mettere in evidenza un altro caso in cui le previsioni modellistiche ed i dati vanno ognuno per la propria strada. Sarebbe auspicabile che plastica in mare non esistesse, ma è positivo, comunque, che la plastica presente in mare sia meno di quanto potessimo prevedere.
      .
      A quando il ritorno al vecchio contenitore riutilizzabile ed il superamento dell’usa e getta che caratterizza i nostri tempi?
      Ciao, Donato.

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