Se alle spalle avesse un’autorità costituita sarebbe un reclutamento in piena regola e, vista dal punto di vista di chi professa l’emergenza climatica, forse anche una chiamata alle armi. Invece, per fortuna, è solo un’esortazione o, se vogliamo, un’operazione di marketing.
E’ un editoriale uscito su Nature (liberamente accessibile) in cui alcuni climatologi esortano le nuove leve della fisica a intraprendere lo studio della climatologia e della modellistica climatica, piuttosto che, dicono loro ma non v’è ragione di non crederci, le altre più tradizionali e appetibili branche della fisica quali la cosmologia, l’astronomia o la fisica delle particelle. L’esigenza nasce in particolare dalla necessità di elevare il livello della comprensione scientifica di alcuni processi fondamentali, quali ad esempio la fisica delle nubi, e di produrre dei modelli di simulazione climatica più attendibili. Il tutto, naturalmente, per potenzialmente salvare il pianeta (sic!).
Al di là dell’ennesimo ritorno ai concetti della mosca cocchiera con cui evidentemente deve essere condito ogni articolo di Nature, l’argomento è tutt’altro che banale. Lo capiamo dai virgolettati che compaiono nell’articolo. Per esempio, tal Sandrine Bony, che fa ricerca presso il Laboratorio di Dinamica Meteorologica di Parigi asserisce che c’è l’errata convinzione che gli aspetti fondamentali della fisica della scienza climatica siano definiti. “Questo non è assolutamente vero, infatti, gli aspetti essenziali del cambiamento climatico sono scarsamente compresi“.
Tutto qui? Non proprio, continuiamo a leggere: La percezione che la scienza del clima sia ‘risolta’ è un involontario risultato della pressione a confezionare un messaggio semplice per il pubblico – per esempio, che tutte le regioni aride diverranno più aride e tutte quelle umide più umide in un clima che si scalda, dice Piers Forster, un modellista climatico all’Università di Leeds, UK, ha fatto in modo che la scienza suonasse in “qualche modo insulsa”.
Non posso fare a meno di ricordare che già qualche anno fa, qualcuno andava dicendo che la scienza del clima fosse definita e si dovesse ormai al più discutere dei dettagli.
Infatti, tra i ‘dettagli’ meno conosciuti e peggio riprodotti nelle simulazioni, per esempio, ci sono senz’altro la dinamica e la fisica delle nubi, la nucleazione, la tipologia, la quantità e persistenza della copertura, insomma, tutti quegli aspetti fondamentali che di fatto regolano la quantità di energia che realmente raggiunge la superficie se non appunto schermata dalle nubi. E’ appena di qualche giorno fa l’uscita di un articolo sul GRL (qui, anche su Science Daily) in cui si dimostra che l’attuale generazione di modelli climatici tende a sottostimare la nuvolosità che si forma sugli oceani e quindi a sovrastimare la quantità di energia che raggiunge la superficie del mare. Errori che, inevitabilmente, se ne portano dietro molti altri.
Mah, sarà pur vero che il pubblico richiede messaggi semplici, ma ho la vaga impressione che negli ultimi anni si sia semplificato un po’ troppo, e non so davvero quanto questo sia stato un errore involontario!
@Donato
Ho letto con interesse quello che Lei ha scritto dell’INVALSI. Spero Lei abbia ragione; ho due figlie alle elementari…In generale, spero sempre per il meglio e che sbagli chi prevede catastrofi.
Daniele, io ho una figlia laureata ed un figlio iscritto all’università e, quindi, da genitore, ho attraversato tutti i gradi della formazione scolastica italiana. Sulla mia strada ho incontrato insegnanti di tutti i tipi e, per qualcuno di essi, non posso fare a meno di esprimere un giudizio di profondo disprezzo: professionale ed umano. Essi hanno provocato, infatti, più danni che benefici: mia figlia dopo una drammatica esperienza al liceo classico voleva interrompere gli studi e solo alla fine di settembre ha deciso di iscriversi a lettere classiche. Si è laureata in cinque anni con il massimo dei voti e ora è impegnata in un lavoro di ricerca in collaborazione con l’Università di Napoli Federico 2°. Mio figlio iscritto al liceo scientifico è uscito dal percorso di studi con l’idea che la fisica fosse un insieme di formule e che per essere bravo in matematica fosse necessario saper risolvere velocemente gli esercizi dopo aver imparato a memoria il maggior numero di formule possibile. Solo all’università ha imparato, a proprie spese, che non è così.
La scuola, come tutte le attività umane, è fatta da uomini e donne con tutti i loro difetti e tutti i loro pregi. Credo che le sue figlie incontreranno sulla loro strada insegnanti validi ed insegnanti che sarebbe meglio facessero un altro mestiere o se ne stessero a casa, ma globalmente il sistema scolastico italiano è piuttosto valido: non si spiegherebbe, infatti, la “fuga di cervelli” di cui tanto si parla.
Sulla base della mia esperienza di genitore e di insegnante, le posso dire con estrema franchezza, che le prove OCSE-PISA ed INVALSI sono l’ultimo dei problemi della scuola italiana.
Un sincero in bocca al lupo alle sue figlie e a lei consiglio di armarsi di pazienza.
Ciao, Donato.
Come dice a volte G. Guidi alcune discussioni iniziano in un modo e poi se ne vanno per i fatti loro perdendo di vista il tema iniziale. Questa mi sa che è una di quelle. 🙂
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Tema del post era la ricerca di nuove forze da dispiegare nella lotta al cambiamento climatico e, soprattutto, nuove forze in grado di capire che cosa sta succedendo al clima del nostro pianeta. Forze che dovrebbero aiutarci a comprendere i meccanismi fisici alla base del funzionamento del sistema climatico. Queste forze dovrebbero essere formate in quella che è la fucina del sistema scolastico e formativo: scuole ed università.
Io in questo ambiente vivo da quasi trent’anni ne ho seguito passo passo tutti i cambiamenti, ne ho subito le riforme e, soprattutto, ho seguito l’evoluzione dei destinatari del servizio di formazione: gli alunni.
Ho avuto occasione, inoltre, di insegnare in ogni tipo di scuola secondaria di secondo grado: istituti professionali, istituti tecnici e licei. Posso dire, pertanto, di aver accumulato un’esperienza piuttosto corposa che mi consente di esprimere dei giudizi abbastanza informati.
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Il sistema di formazione italiano è piuttosto anomalo a livello europeo e non. A livello di licei abbiamo a che fare con due tipologie di istruzione: istruzione classica ed istruzione scientifica. Nel corso del tempo questi due mondi, originariamente agli antipodi, si sono notevolmente avvicinati grazie ad un incremento del numero di ore di insegnamento di materie dell’area scientifica (matematica, scienze, fisica). Oggi come oggi, pur permanendo una notevole differenza di monte ore, le linee guida di questi due tipi di scuola (quelli che una volta si chiamavano programmi ministeriali) prevedono il raggiungimento di competenze in uscita degli alunni quasi del tutto equivalenti. Questo per quel che riguarda le linee guida e gli indirizzi ministeriali. Nella realtà le cose sono abbastanza diverse in quanto è necessario cambiare la mentalità degli operatori del settore: alunni, insegnanti e genitori. Esistono, infatti, ancora molti (la maggioranza) che considerano il liceo classico la scuola d’elezione “per chi non ama la matematica” ed il liceo scientifico la scuola d’elezione “per chi non ama l’italiano”. Si tratta, ovviamente, di luoghi comuni che, però, fanno molto danno in quanto danno l’idea di una scuola d’altri tempi che non esiste più: svolgere un programma di matematica al livello di quello del liceo scientifico in un liceo classico con molte meno ore a disposizione non si concilia con studenti “che non amano la matematica”. Allo stesso modo svolgere il programma di italiano, latino storia e filosofia al liceo scientifico mal si concilia con studenti “che non amano l’italiano”.
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Detto in altri termini la scuola sta evolvendo verso un sistema di istruzione in cui si cerca di dare agli alunni una serie di competenze di base di tipo trasversale indipendentemente dal tipo di scuola da essi scelto.
Avverso questo indirizzo politico ormai chiaro, ci sono le resistenze del sistema che continua a differenziare tra istruzione tecnica, professionale, umanistica e scientifica: si tratta di una battaglia di retroguardia destinata a infrangersi contro i modelli imposti dalla competizione globale, ma che durerà, vista dall’interno, ancora a lungo.
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E veniamo alle prove di valutazione del sistema formativo (INVALSI RN ed OCSE/PISA).
Chi opera nel mondo della produzione privata ha familiarità con il processo di controllo di qualità della produzione. Applicarlo tal quale alla scuola sarebbe pura follia in quanto la crescita umana e culturale di uno studente è difficile che possa essere valutata in termini di qualità della produzione. Credo, però, che lo Stato abbia il diritto-dovere di valutare l’efficacia del proprio sistema di formazione. Ho studiato il modello di valutazione INVALSI in modo piuttosto approfondito, ho cercato di capire le metodologie statistiche utilizzate per l’analisi dei dati ed analizzato con attenzione i questionari di matematica che vengono somministrati agli alunni. Non mi sono limitato a somministrare il questionario ed a trasmettere i risultati al sistema informativo nazionale e, permettetemi la franchezza, credo che la stragrande maggioranza delle critiche al sistema siano frutto di preconcetto. Con ciò non voglio dire che il sistema è perfetto in quanto tutto è perfettibile, ma credo che abbia raggiunto un buon livello di attendibilità. Personalmente trovo le valutazioni INVALSI piuttosto oggettive e, per quel che mi riguarda, abbastanza in linea con quelle che effettuo personalmente.
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Conosco il lavoro scientifico del prof. Israel e ne condivido gran parte delle idee che riguardano la didattica della matematica cui ha dedicato ampio spazio. Concordo con lui che la valutazione è un processo troppo importante per poterla fare a colpi di quiz, come ho avuto modo di scrivere anche qui su CM qualche anno fa, ma sull’INVALSI ho idee un po’ diverse dalle sue. Cercherò, in breve, di chiarire il motivo di questa diversità di idee.
Il prof. Israel della metodologia INVALSI contesta l’aspetto epistemologico: i valutatori INVALSI, refrattari ad ogni contributo dall’esterno, hanno adottato un modello statistico di scuola e di alunno e cercano di adattare al modello statistico la realtà (nella fattispecie i risultati della prova INVALSI). Egli parla, in tale ottica, di autoreferenzialità e i lettori di CM certamente inarcheranno il sopracciglio in quanto questa metodica è alquanto diffusa anche in altri ambiti 🙂 .
Sulla base della mia esperienza ormai quasi decennale posso, però, dire che un alunno riesce a conseguire nella prova INVALSI di matematica risultati abbastanza allineati a quelli che consegue nella valutazione tradizionale (lo scorso anno i voti finali dei miei alunni erano quasi sovrapponibili a quelli INVALSI). Ciò non è accaduto due anni fa. La cosa non mi meraviglia in quanto gli alunni cambiano di anno in anno e spesso, per molteplici motivi, le cose non vanno per il verso giusto. Quest’anno mi aspetto esiti piuttosto negativi tanto a livello INVALSI che a livello di valutazione scolastica: vedremo.
Da un punto di vista tecnico posso far notare che i risultati INVALSI sono direttamente legati al raggiungimento di alcune competenze base legate alla capacità di tradurre dal linguaggio naturale a quello algebrico e viceversa, formalizzare un problema, saper analizzare dati e manovrare figure geometriche: obiettivi del nostro insegnamento e NON dell’INVALSI. Alcuni quesiti sono progettati e scritti male, questo è vero, ma in un discorso generale possiamo esprimere un giudizio abbastanza positivo. G. Israel calca la mano su alcuni aspetti deleteri della prova (valutazione della scuola, dell’insegnante, del singolo alunno sulla base di un modello astratto che non tiene conto di oggettive problematicità). Questo è vero, ma molte volte il problema deve essere ricercato più a livello di singolo istituto, classe, dirigente, insegnante che in generale. Se ci si limita ad una lettura letterale dei dati INVALSI il pericolo paventato da Israel è reale, se invece il risultato del test INVALSI si analizza alla luce delle criticità tipiche della classe (il livello individuale non può essere raggiunto stante l’anonimato del test), può essere un utile strumento di diagnostica del processo educativo.
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Tutto quanto questo al netto delle degenerazioni (tipicamente italiche) del sistema: allenamento ai test, libercoli vari pubblicati da tecnici dell’INVALSI ecc. Personalmente non faccio alcuna opera di allenamento o di insegnamento ad hoc per la prova di valutazione nazionale ed i risultati sono piuttosto soddisfacenti.
Ciao, Donato.
I link sono questi
http://gisrael.blogspot.it/2014/11/linvalsi-un-particolare-tipo-di-scatola.html?m=1
http://gisrael.blogspot.it/2015/02/contra-invalsi.html?m=1
Per quel che riguarda la valutazione della scuola segnalo questi due post del Prof. Giorgio Israelhttp://gisrael.blogspot.it/2014/11/linvalsi-un-particolare-tipo-di-scatola.html?m=1http://gisrael.blogspot.it/2015/02/contra-invalsi.html?m=1Penso che a volte la cura possa aggravare la malattia.Per quel che riguarda la questione degli orari di lavoro e delle ferie trovo strana l’idea chetutti si debba fare lo stesso numero di ore a settimana e le stesse ferie; ogni attività ha le sue peculiarità; se si pensa che l’insegnamento sia utile gli insegnanti vanno pagati perché insegnino, non perché stiano a scuola 40 ore a settimana con 28 giorni di ferie.
@Donato
Sono molto d’accordo su quello che scrivi circa la resistenza opposta da molti insegnanti ai test INVALSI OCSE/PISA etc… e sulle critiche alla scuola italiana.
Sulla prima parte invece un po’ meno 😉
Ho dunque un piccolo sfogo sindacale anch’io come (ex) lavoratore del settore privato.
Non ho mai fatto più di 25gg di ferie che, se volevo stare a casa, potevo godere anche a natale e pasqua.
L’orario invece prevedeva sempre 40 ore/sett.. Non avevo quindi molto tempo da dedicare eventualmente ad un secondo lavoro.
Infine una straordinaria coincidenza retributiva!
Togliendo lo straordinario forfettizzato (180€/mese che assorbivano la riduzione d’orario a 36ore e le ex festività) arrivavo anch’io a 1800€/mese (netti), con ovviamente auto o mezzi pubblici a mio carico.
Caro Maurizio, senza spirito di polemica, ma solo per parlare, una piccola puntualizzazione. Discutendo con diversi amici che operano nel settore non scolastico (la più agguerrita è mia cognata, per esempio 🙂 ) abbiamo affrontato spesso lo stesso problema: le famigerate 18 ore di servizio degli insegnanti a fronte delle 36 ore dei “comuni mortali”. Un giorno, a margine di un pranzo, mi sono messo testa a testa con mia cognata ed abbiamo fatto dei conti: ha dovuto riconoscere che il monte ore lavorativo del sottoscritto era di poco inferiore al suo (1540 ore per lei, 1450 ore per me). 😉
Ciao, Donato.
Donato, senza polemica, ma c’è anche chi lavora 40 ore a settimana per 1300 euro al mese, e 21 gg di ferie…. 😀
Oggi è stata una brutta giornata: iniziata male a causa di un treno in ritardo e di un passaggio a livello che non voleva funzionare, continuata peggio con un rogito notarile, di cui avevo curato la parte tecnica, andato in fumo e con una riunione scolastica sul tema prove OCSE/PISA. 🙂
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Scherzi a parte voglio fare qualche considerazione su quanto hanno scritto F. Vomiero, L. Mariani e G. Guidi. Il tutto dal mio punto di vista di uomo di scuola.
L. Mariani parlava di autoreferenzialità del mondo dell’informazione. Io non posso fare a meno di parlare di autoreferenzialità del mondo dell’insegnamento.
In questo particolare momento storico la scuola è sotto la lente di ingrandimento in quanto oggetto di un’attenzione (forse morbosa) della società, in generale, e della politica, in particolare. Esimi Ministri della Repubblica hanno dipinto gli insegnanti come una specie di fannulloni che vivono nel paese di bengodi: poco lavoro e molti soldi. Non è così, anzi per la maggioranza di noi non è così. Ho iniziato ad insegnare nel 1986 (circa 27 anni di servizio pieno in quanto i primi anni di insegnamento si riducevano a poche settimane o mesi) e percepisco la stratosferica cifra di circa 1800 euro mensili (comprensivi di mezzo proprio per spostarmi da casa al luogo di lavoro, aggiornamento, attività domestica per correzione verifiche e preparazione lezioni, riunioni, incontri con i genitori e via cantando). Non ho mai fatto più di 36/38 giorni di ferie (come tutti i lavoratori) in quanto facendo gli Esami di Stato, finisco le attività didattiche il 12/13 giugno ed inizio gli esami il 16/17 giugno fino a circa la metà di luglio. Il 25 agosto già in servizio per gli “esami di riparazione”. I tre mesi di ferie non so neanche che cosa siano. Dopo questo sfogo “sindacale”, necessario, però, per meglio comprendere il resto del discorso e l’arrabbiatura connessa alla riunione, entriamo nel merito del discorso.
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L’OCSE/PISA è un test internazionale cui si sottopongono le istituzioni scolastiche di circa 70 Paesi del mondo per verificare le competenze in lettura, matematica e scienze dei quindicenni ed in cui otteniamo sempre risultati deludenti, per usare un eufemismo (se non siamo gli ultimi, specie per la matematica, ci manca poco). Lettura significa capacità di comprendere un testo, matematica e scienze non credo che meritino commenti ulteriori. Il test quest’anno è toccato anche alla mia scuola ed ai miei alunni. La cosa non mi ha particolarmente impressionato in quanto la considero un’occasione molto utile per confrontare i risultati del mio lavoro con quelli dei colleghi operanti nel resto del mondo. Per molti miei colleghi si tratta, invece, di un’inutile perdita di tempo in quanto il test non serve proprio a niente.
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Un simile atteggiamento non fa altro che testimoniare il peccato capitale della scuola italiana: considerarsi i migliori della classe, i depositari della conoscenza, i paladini della libertà di insegnamento e via cantando. Se 70 nazioni hanno deciso di sottoporsi ad un test di verifica del risultato delle azioni formative dei loro sistemi scolastici, una ragione deve pur esserci. Non credo che siano tutti fessi e solo noi siamo i “dritti” della situazione!
Questo atteggiamento di rifiuto di ogni forma di controllo e verifica del lavoro svolto, unito al sempiterno vittimismo italico sintetizzabile nel “ce l’hanno tutti con me”, è l’esempio più fulgido dell’autoreferenzialità della scuola italiana. I test OCSE/PISA, come ho accennato, cercano di misurare le competenze che una volta si conoscevano come “leggere, scrivere e far di conto” e che rappresentavano il discrimine tra la persona “istruita” (come diceva mio nonno) e gli analfabeti. Detto in altri termini chi sapeva leggere, scrivere e far di conto aveva gli strumenti per potersi muovere a suo agio nella società dell’epoca. Nella società globalizzata di oggi gli strumenti necessari a muoversi con un certo agio sono rappresentati dalla capacità di interpretare un testo (grafico, formula, testo scritto), comprendere le istruzioni contenute in esso ed elaborarle per prendere delle decisioni informate. Quest’anno è prevista anche una prova di “alfabetizzazione finanziaria” il cui scopo è quello di acquisire dati circa le competenze dei futuri cittadini del mondo in campo economico-finanziario.
Questa è, secondo alcuni, la prova provata che si cerca di trasformare tutti i cittadini in burattini al soldo delle multinazionali il cui unico scopo è quello di produrre ricchezza. Questo è, ribadiscono, il contrario di quello che è stata la scuola italiana: una scuola in cui si leggeva molto, in cui si cresceva e si maturava con i classici della letteratura italiana e delle letterature del mondo antico, cioè con il “bello”.
Ecco emergere l’altro moloch intoccabile della scuola italiana: la separazione tra la cultura umanistica e quella scientifica (a proposito, l’OCSE considera scientifiche le discipline come la fisica, la chimica, la biologia, ma non scientifiche la geografia e la matematica). Oggi ho scoperto, perciò, di essere per metà “scientifico” (insegnando fisica) e per metà “umanistico” perchè insegno anche matematica. 🙂 .
Immaginate adesso una riunione in cui sono presenti individui ideologizzati che ce l’hanno con il governo di sinistra che fa politiche liberiste, altri che sostengono che la scuola tradizionale genera direttori del CERN ed astronauti per cui non è necessario fare nessuna innovazione o riforma, altri che si sentono sminuiti perché le prove OCSE/PISA privilegiano le materie scientifiche, altri che….., ed avrete ben chiaro perché l’italiano medio soffre di idiosincrasia nei riguardi della matematica, delle scienze e di tutto ciò che è scuola.
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Le competenze degli alunni? E vabbè, mo’ volete troppo: con tutte le polemiche che dobbiamo fare mo’ pensiamo pure alle competenze degli alunni. E ci meravigliamo che i nostri alunni hanno le peggiori performance a livello internazionale? Dovremmo meravigliarci del contrario.
Ciao, Donato.
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p.s.: chi avesse voglia di vedere come siamo messi nelle graduatorie OCSE/PISA, può dare un’occhiata qui (le pagine più interessanti sono quelle da 1 a 4, chi ha voglia di approfondire può andare oltre: molto istruttive le tabelle ed i grafici relativi alla matematica ed alle scienze).
http://www.invalsi.it/invalsi/ri/pisa2012/rappnaz/Rapporto_NAZIONALE_OCSE_PISA2012.pdf
Innanzitutto ringrazio il prof.Mariani e Guidi per i sempre preziosi e utili commenti. Approfondendo ancora un po’ il discorso, cade a fagiolo l’esempio riportato da Carlo. Ecco un classico esempio di informazione mediatica, come sempre approssimativa, quando non palesemente erronea. “Mare del Nord che si è riscaldato quattro volte più della media”. E’ vero, non è vero, quale è la media, a cosa ci si riferisce, alle SST, al contenuto di calore, da quali fonti è stato ricavato questo dato? Ora mi chiedo, prima di tutto se chi ha scritto l’articolo abbia la più pallida idea della differenza che esiste ad esempio tra SST e contenuto di calore, e soprattutto se chi legge la notizia, abbia avuto, come me o come Carlo almeno l’accortezza di porsi qualche domanda circa l’affidabilità e la consistenza scientifica di questa informazione. Faccio notare che lo stesso tipo di obiezione vale anche per un certo tipo di divulgazione, affidata spesso a figure professionali che magari hanno poco a che vedere con solide preparazioni e/o esperienze scientifiche di base. Quindi i problemi a cui mi riferivo nel primo intervento sono essenzialmente di due tipi, correlati fra di loro da una corrispondenza biunivoca. 1) problema di comunicazione della scienza. 2) problema di comprensione della scienza da parte di un’ampia fetta dell’opinione pubblica. Naturalmente queste problematiche sono di una complessità enorme e non vorrei banalizzare in poche righe, però chiediamoci come mai in questo Paese, esista ancora una errata e anacronistica percezione della cultura come di serie A (umanistica) e di serie B (scientifica), o come mai i ragazzi spesso continuino a nutrire una certa antipatia verso la matematica e le scienze, o perché siamo sempre gli ultimi in termini di fondi destinati alla ricerca scientifica, all’Università, o all’istruzione, per esempio. Mi viene in mente una citazione di Donato di qualche tempo fa che si riferiva, credo, ad una grande responsabilità che abbiamo tutti nel poter contribuire alla formazione di una “forma mentis” adeguata per i nostri ragazzi. Diceva più o meno che i ragazzi non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere, prima di tutto. Sono pienamente d’accordo.
a proposito di qualità dell’informazione:
http://www.ansa.it/web/notizie/canali/energiaeambiente/clima/2015/04/14/a-rischio-fishchips-colpa-del-riscaldamento-dei-mari_fa34b4da-742a-47e8-9832-8f3506adb024.html
Guidi, concordo pienamente con la conclusione del pezzo. Sicuramente i messaggi che arrivano all’opinione pubblica sono troppo semplificati, in generale, complici anche una comunicazione mediatica approssimativa e spesso incompetente, e una divulgazione troppo banale ed inefficace. Non solo in tema di clima e cambiamenti climatici, ma in generale in merito ad ogni aspetto di natura scientifica. Un discorso sulle eventuali responsabilità di questo circolo vizioso sarebbe da approfondire, ma certamente tutti abbiamo delle colpe, nessuno si senta escluso, è troppo facile poi dire “ma l’ha detto il giornale X o la trasmissione Y”. Se vogliamo puntare ad una informazione di qualità, dobbiamo “cambiare canale”, in tutti i sensi, le fonti affidabili esistono, certo, sviluppare un adeguato senso critico e acquisire strumenti utili a potersi muovere con una certa disinvoltura costa, tutto costa. Riguardo lo stimolare i giovani ad una possibile carriera in ambito climatologico, sono d’accordo, è un settore di indubbia attualità e in continuo sviluppo, oltre che a rappresentare un campo di studi interdisciplinare interessantissimo e dalle mille sfaccettature. Lo studio dei cambiamenti climatici rientra a pieno titolo in questa stimolante impresa. Il problema però che mi pongo è: in Italia come siamo attrezzati da questo punto di vista? Temo abbastanza male, purtroppo. Saluto sempre tutti cordialmente.
Gentile dottor Vomiero,
tutti ovviamente abbiamo responsabilità nell’ipersemplificazione ed il procedere per slogan (deserti che avanzano, ghiacci che si ritirano, siccità che aumentano, fame che avanza, catastrofi che incombono, ecc.) che oggi affligge il mondo dell’informazione facendo danni enormi, specie sui giovani, i quali acquisiscono una visione cupa e senza speranza mentre più che mai oggi occorrerebbe avere una visione fiduciosa circa le possibilità enormi che un corretto uso della tecnologia, frutto di una razionale scelta delle priorità, ci aprono.
Tuttavia credo che ci siano livelli e livelli di responsabilità, nel senso che il mondo dell’informazione per come lo vedo io oggi è sostanzialmente autoreferenziale e le nostre possibilità di intervento sullo stesso totalmente nulle. E qui vorrei che qualcuno mi dicesse che non è vero e che il mio è pessimismo frutto dell’età…
Luigi in parte hai ragione, ma è anche vero che quello dell’informazione è un mondo che si ‘adatta’ e cambia pelle molto velocemente. Discutere di quali siano i fattori in grado di indurre il cambiamento sarebbe troppo lungo e fuori tema, ma esistono.
Ma non sarei così pessimista. Il tonfo di ascolti della recente incursione nel catastrofismo planetario di RAI3 al sabato sera (crollati dalla terza puntata in poi, cioè, novità, seconda occasione, vai a farti benedire), può voler dire due cose. La prima, non trascurabile, è che prima di far breccia nella demagogia dell’intrattenimento del sabato sera ce ne vuole; la seconda, ancora meno trascurabile, è che la demagogia non si combatte con altrettanta demagogia catastrofica, perché la gente a mio parere non ne può più e, forse, neanche ci crede più.
gg
Guido, in effetti quando faccio da guida ai gruppi di persone che visitano il nostro museo di storia dell’agricoltura, dai dialoghi che si innescano (su OGM e tecnologia in agricoltura, clima, CO2, e quant’altro) ho l’impressione che fra i media e la gente vera vi sia un abisso. Per questo ho parlato di autoreferenzialità che forse come dici tu potrà essere abbattuta cambiando canale, cosa che in effetti anch’io pratico a spron battuto da decenni. Speriamo bene.
@ Guidi.
Ne aggiungerei una terza molto banale: il fatto che gridare sempre al lupo in evidente mancanza del predatore, alla lunga dà assuefazione, e annoia anche se viene accompagnato da effetti speciali o condito in salsa parascientifica.
Ma questo non toglie che la massa sia ancora anestetizzata dal grande fratello, non pensa di liberarsene e tanto meno ha voglia di informarsi.
Perché fisici e non geografi, biologi, geologi, agronomi, forestali, ecc.?
Fin dalla sua fondazione ad opera del padre delle geografia fisica Alexander von Humboldt, la climatologia è una scienza interdisciplinare e la mia esperienza professionale nel settore della climatologia applicata all’agricoltura mi ha sempre portato a trovare proficue (in termini conoscitivi) occasioni di collaborazione con cultori di discipline fisiche e biologiche, anche perché il sistema climatico vede l’interazione di tutto quanto sta sul pianeta (atmosfera, idrosfera, terre emerse e biosfera) e di parecchio al di fuori di esso (aspetti astronomici).
Di CO2 è più proficuo che si occupino i fisici o i biologi?
Del bilancio idrico dei suoli da cui dipende l’aridità e che è governato dalla vegetazione spontanea e coltivata chi è secondo voi meglio che se ne occupi?
Tutto questo mi fa tornare alla mente una vecchia citazione che una volta ponevo all’inizio dei miei corsi di agrometeorologia: “We cannot hope to understand the causes of climatic stability or change by restricting ourselves to any one field of earth science. Nature is ignorant of how our universities are organized…” — Peter Weyl (1968)
In sintesi mi pare che l’appello di Nature puzzi non solo di “salvaplanetismo di maniera” ma anche di riduzionismo .
non potrei essere più d’accordo;
l’ho già detto mille volte su queste pagine, senza approccio multidisciplinare non si va da nessuna parte, a parte (scusate il gioco di parole) nella sala giochi dei super calcolatori;