È apparso recentemente qui su WUWT un post di descrizione e commento ad un lavoro di Meyer et al., 2015- su Nature geoscience-(abstract) sull’uso del permafrost siberiano per derivare una cronologia (così come si fa per le carote di ghiaccio in Groenlandia e in Antartide). In Siberia il permafrost raggiunge i 600 m di profondità e a volte, lungo le rive scoscese dei fiumi, viene alla luce e, sciogliendosi, produce delle colate di ghiaccio (fig.1, in inglese wedges, letteralmente cunei) che possono essere analizzate fino a profondità che corrispondono a 7-8000 anni fa. I cunei analizzati nel lavoro di Meyer et al., 2015 sono rimasti attivi dal medio Olocene (~7000 anni fa) fino ad ora e si trovano nella parte centrale del delta del fiume Lena che sfocia nel Mare di Laptev, come si vede in fig.2.
Il lavoro colma una lacuna nei dati paleoclimatici che derivano in massima parte da osservazioni in Nord America, Groenlandia e Scandinavia, trascurando la regione molto ampia dell’Artico siberiano.
Pur conoscendo assai poco delle tecniche di estrazione delle informazioni, immagino la difficoltà del lavoro su “carote” all’aperto, caratterizzate da scioglimenti e ghiacciamenti successivi che, in parte, provocano il mescolamento di materiali di età diverse con le conseguenti difficoltà della cronologia. Credo che gli autori abbiano fatto un lavoro benemerito e duro, come testimoniato dal fatto che sono riusciti ad estrarre dai cunei di ghiaccio solo 42 dati (δ18O) su un periodo di circa 8000 anni. Per questo nessuno può pensare che rinuncino a cuor leggero a 2 dei 42 dati, giustificando l’esclusione con il passo, nelle informazioni supplementari, che riporto di seguito:
“Out of the 42 samples with sufficient organic matter for dating, 2 samples were excluded from the Lena Delta δ18O record (see Table S1). Sample number 4 yielded an unusual low d excess value of 5.5‰ and has been excluded because secondary fractionation processes (i.e. evaporation of snow melt water) could not be ruled out. Sample number 29 was the only ice-wedge sample from the third terrace (Ice Complex; height ca. 25 m), which contained wood fragments, pointing to redistributed older organic matter and, thus, yielding an unrealistic age.“Dei 42 campioni con materia organica sufficiente per la datazione, 2 campioni sono stati esclusi dall’elenco di Lena Delta δ18O (vedi Tabella S1). Il campione numero 4 forniva un valore dell’eccesso d inusualmente basso, di 5.5‰, ed è stato escluso perché i processi secondari di frazionamento (cioè l’evaporazione dell’acqua di scioglimento della neve) non avrebbero potuto essere esclusi. Il campione numero 29 era il solo campione dal cuneo di ghiaccio dalla terza terrazza (Ice Complex, circa 25 m di altezza) che conteneva frammenti di legno che puntavano verso una redistribuzione di materia organica più vecchia, fornendo così un’età non realistica. |
Però si può notare che:
- gli autori hanno ritenuto di dover escludere i 2 campioni dai grafici (es. fig.1 del lavoro, presente nell’abstract) ma non dalla tabella (S1) dei dati.
- come si vede nella successiva fig.3, in certi casi, l’uso o no dei due dati praticamente non cambia nulla,
- tranne la possibilità di dire o meno “unprecedented warming”, stante il fatto che viene generalmente accettato, e gli autori lo dimostrano in questo caso, che il δ18O è un proxy diretto della temperatura.
Come si vede, il trend della temperatura, evidenziato da questo lavoro, è positivo -la pendenza è in unità di “differenza per mille” rispetto a V-SMOW (Vienna Standard Mean Ocean Water) ogni 1000 anni- contrariamente a quanto mostrato da tutti gli altri proxy. Gli autori credono che questa differenza possa dipendere o da fattori regionali o dal fatto che il loro proxy si riferisce prevalentemente alle temperature invernali, mentre gli altri proxy sono condizionati dalle temperature estive e quindi da differenti forcing orbitali. Questo è senz’altro vero per la dendrocronologia, ma capisco meno come la stagionalità possa influenzare le carote di ghiaccio della Groenlandia (GRIP, v. fig.1a dell’abstract; la fig.1b mostra i dati di Marcott et al, 2013 che si comportano nello stesso modo).
Per confrontare i dati attuali con i dati dalle carote di ghiaccio della Groenlandia, ho scaricato dal sito NOAA NCDC (qui, Johnsen et al., 1997) la cronologia GRIP su 248 mila anni del δ18O e li ho graficati insieme in fig 4 (pdf).
Il confronto con i dati dendrocronologici viene fatto con ca667 e con yamal (vedere, su CM, qui): il primo perché è il più esteso dataset di cui dispongo e il secondo perché è il più vicino geograficamente (in posizione e latitudine) ai cunei di ghiaccio sul fiume Lena.
Nella fig.4 non noto particolari similitudini o correlazioni tra le strutture delle due serie, pur nella rispettiva e molto diversa risoluzione temporale. Nel GRIP si vede un picco di temperatura poco prima del 2000 (0 b2k) che non inizia nel 1850 (150 anni b2k) e che corrisponde all’improvvisa discesa finale dei dati del fiume Lena. In ogni caso, il massimo del 2000 è tutt’altro che “unprecedented”.
La fig.5 mostra a mio parere (del tutto soggettivo) qualche similitudine nelle strutture delle serie dendrocronologiche e nei dati dei cunei di ghiaccio. Ad esempio, per ca667, il massimo e la successiva discesa tra il 4000 e il 3500 b2k; la debole diminuzione tra il 3200 e il 2800; il picco e la discesa tra il 2400 e il 1900 (ma qui c’è uno dei due punti eliminati); per yamal, la debole discesa tra 1000 e 500 b2k e la stasi o debole discesa tra il 400 e il 150. E poi, naturalmente, le crescite degli alberi nell’ultimo periodo che trovano riscontro nei dati del fiume Lena. Si vede facilmente che i dati dendro (e anche il GRIP) mostrano variazioni passate più ampie di quella presente e mi sarei aspettato una conferma anche da questo dataset. La conferma in realtà c’è (campione numero 29) ma è stata eliminata per presumibili errori troppo grandi nell’ascissa (età), non nell’ordinata (temperatura o δ18O).
La fig.6 (pdf) è l’equivalente della fig.3 dell’abstract, ma con i dati di Lena congiunti da una linea e senza le fasce di incertezza che, per me, danno un’idea non corretta della distribuzione delle misure. Anzi, addirittura quella figura non rende giustizia alla notevole correlazione tra i dati del fiume Lena (sempre senza i due punti esclusi dagli autori) e le temperature artiche.
Bisogna ancora sottolineare che le temperature di Pages2k mostrano, oltre alla crescita attuale, almeno altri due episodi (attorno al 1000 e al 1600 b2k) in cui il “warming” (direi non antropogenico) è stato paragonabile o superiore a quello recente.
In conclusione, questo è un lavoro importante e ben fatto come dimostra la fig.6 (almeno fino al 2000 b2k, a circa metà del tardo Olocene). C’è ampio uso di modelli di età e qualche contaminazione tra Pages2k e HadCRUT3 per i valori più recenti.
Personalmente resta il rammarico che non si sia potuto analizzare meglio il campione numero 29, per decidere, una volta per tutte, se tenerlo o eliminarlo. Infatti l’esclusione parziale (no nei grafici ma sì nei dati) fa purtroppo nascere qualche perplessità, anche perché per ammissione degli autori (v. riquadro sotto fig.2), il valore “non realistico” sarebbe stato l’età e non il δ18O, cioè l’altezza.
Tutti i grafici e i dati, iniziali e derivati, relativi a questo post si trovano nel sito di supporto qui |
Bibliografia
- Briffa K.R., Melvin T.M., Osborn T.J., Hantemirov R.M., Kirdyanov A.V., Mazepa V., Stepan G. Shiyatov and Esper J., 2013: Reassessing the evidence for tree-growth and inferred temperature change during the Common Era in Yamalia, northwest Siberia, Quaternary Science Reviews, 2013, 72, 83-107. doi: 10.1016/j.quascirev.2013.04.008
- Johnsen S.J., Clausen H.B., Dansgaard W., Gundestrup N.S., Hammer C.U., Andersen U., Andersen K.K., Hvidberg C.S., Dahl-Jensen D., Steffensen J.P.,Shoji H., Sveinbjornsdottir A.E., White J., Jouzel J., Fisher D.: The d18O record along the Greenland Ice Core Project deep ice core and the problem of possible Eemian climatic instability., Journal of Geophysical Research, Oceans, 102(C12), 26397-26410, 1997. doi: 10.1029/97JC00167
- Marcott S.A., Shakun J.D., Clark P.U., Mix A.C.: A Reconstruction of Regional and Global Temperature for the Past 11,300 Years, Science,, Vol.339, 6124, 1198-1201, 2013
- Meyer H., Opel T., Laepple T., Dereviagin A.Y., Hoffmann K., Werner M.: Long-term winter warming trend in the Siberian Arctic during the mid- to late Holocene, Nature Geoscience, Published online: 26 January 2015, DOI: 10.1038/NGEO2349.
- Pages2k Consortium: Continental-scale temperature variability during the past two millennia , Nature Geoscience , 6(5), 339-346. Published online: 21 April 2013. doi: 10.1038/ngeo1797
- Salzer, M.W., Hughes M.K., Bunn A.G., Kipfmueller K.F.: Recent unprecedented tree-ring growth in bristlecone pine at the highest elevations and possible causes: Proceedings of the National Academy of Sciences, Vol. 106, No. 48, pp. 20348-20353, 1 December 2009. doi:10.1073/pnas.0903029106
Dopo l’intervento di Max, ho capito meglio il meccanismo con cui si formano i cunei di ghiaccio e, quindi, sono riuscito a chiarire molti dei dubbi che avevo: dal confronto non si può far altro che imparare.
.
Una questione rimane, però, aperta. Si tratta della relazione tra ghiaccio e materiale organico contenuto in esso. La datazione del materiale organico con il C14 garantisce di conoscere l’età del materiale, ma è tale età uguale a quella del ghiaccio che lo ingloba? Come ha precisato Max il permafrost non lascia passare acqua per cui tutto avviene nelle fessure che si vengono a formare nel permafrost e, quindi, il materiale organico inglobato nel ghiaccio, potrebbe avere età diverse da quelle del ghiaccio stesso. Rileggendo meglio gli estratti citati da F. Zavatti mi sono reso conto che gli autori considerano sezioni orizzontali e non verticali del ghiaccio in ossequio al modo in cui si formano i cunei.
Da quello che sono riuscito a capire dai brani del loro studio citati da F. Zavatti, mi sembra che gli autori siano riusciti, in base all’esame di un certo residuo “d” di cui ignoro la natura, a correlare l’età del ghiaccio con quella del campione organico in esso inglobato. Diamo, pertanto, per buono il loro operato e andiamo avanti.
.
Tralasciando gli outliers che non pregiudicano il significato generale del lavoro, come ha scritto F. Zavatti nel post e nel commento di risposta alle mie osservazioni, resta questo trend di riscaldamento di lunghissimo periodo che lascia piuttosto perplessi. Gli autori, a scanso di equivoci, hanno messo le mani avanti e precisato che nell’ultimo periodo (l’ultimo cinquantennio-settantennio) il riscaldamento registrato dai campioni è di chiara origine antropica: il web è pieno di precisazioni in tal senso.
.
Ciò non toglie, però, che il loro è un grande sasso nello stagno: il clima artico si sta scaldando da migliaia di anni e senza tener conto dell’uomo. Questo se vogliamo considerare il trend lineare tanto caro ai sostenitori dell’esclusiva influenza umana sul clima. Se esaminiamo, invece, periodi più brevi, ci troviamo di fronte a momenti di riscaldamento, momenti di stasi e momenti di raffreddamento di durata secolare o multisecolare: i tassi di cambiamento in alcuni casi sono stati ancora più repentini di quelli odierni. I dati, infine, dimostrano che nel passato anche se non sappiamo quando, il clima artico è stato caldo come oggi se non di più. Voglio evitare, però, polemiche circa i “senza precedenti” che caratterizzano i dibattiti paleoclimatologici e sottolineare che, nel corso dei millenni, abbiamo registrato momenti di riscaldamento e di raffreddamento caratterizzati da oscillazioni paragonabili a quelle attuali. Tanto mi basta e tanto dimostra lo studio, al di là di tutte le polemiche che lo hanno accompagnato.
.
A solo titolo di esempio vorrei segnalare un articolo che reputo esemplare circa la partigianeria che regna nel mondo del dibattito climatico.
Su queste pagine abbiamo commentato un articolo scientifico, ne abbiamo messo in evidenza le criticità, in positivo ed in negativo, le luci e le ombre, ma nessuno ha messo in dubbio la validità scientifica del lavoro che resta di alto livello. Nè qualcuno di noi ha insinuato retropensieri degli autori (eccezion fatta per il fatto che hanno scartato due dati abbastanza particolari).
Non tutti la pensano, però, in questo modo. Vedere per credere:
http://www.greenreport.it/news/clima/quando-la-scienza-fa-il-gioco-degli-ecoscettici-il-caso-dello-scioglimento-del-permafrost-siberiano/#prettyPhoto
.
A questo punto devo riconoscere che bene hanno fatto gli autori ad eliminare i due dati anomali dai loro grafici: in caso contrario li avrebbero crocifissi. 🙂
Ciao, Donato.
Franco grazie per il tuo importante contributo.
Leggendo il tuo post sono emerse diverse perplessità relative allo studio che hai recensito.
Un primo dubbio riguarda il modo in cui si forma la cronologia. I cunei di ghiaccio si formano a seguito della fusione del permafrost e del successivo congelamento dell’acqua di fusione. Se l’acqua di fusione restasse in situ potremmo dire che la successione stratigrafica corrisponde alla cronologia, ma chi ci garantisce che essa non si sposti e, percolando, l’acqua di fusione di oggi non vada a collocarsi al di sotto di quella di ieri? Il primo problema, quindi, riguarda la formazione della stratigrafia.
.
La datazione degli strati viene fatta, se non ho capito male, sulla base dei residui organici inglobati nel ghiaccio per cui l’acqua, percolando, potrebbe trascinare più in basso materiali più recenti e, quindi, falsare la cronologia. Questo, però, sarebbe un errore individuabile con una certa facilità. Diverso, invece, sarebbe il caso in cui si verificasse il contrario: acque di epoche successive che inglobano materiali organici più antichi. In questo caso i risultati sarebbero piuttosto falsati.
.
I due outliers che gli autori hanno scartato potrebbero tranquillamente ricadere in questa eventualità: acque recenti che inglobano, prima di solidificare, materiali organici più antichi. Mi piacerebbe sapere come hanno fatto gli autori a capire che i due campioni incriminati (e non gli altri) sono affetti da errore nella datazione: forse perché erano associati a temperature più alte degli altri (e confrontabili con quelle odierne, per esempio)?
.
Altra perplessità riguarda l’andamento di lungo periodo del trend: non mi risulta che da altri dati di prossimità ci sia stato un tale lungo periodo di riscaldamento a lungo termine a partire da circa 8000 anni fa. Gli altri archivi di dati, come giustamente facevi notare nel tuo post, hanno una tendenza contraria. Gli autori ipotizzano anomalie di tipo regionale: potrebbe essere. A questo punto che senso ha parlare di clima globale, oggi, se le anomalie a scala regionale si incontrano ad ogni pie’ sospinto e, precisamente, ogni volta che qualche ricostruzione paleoclimatica si trova in disaccordo con altre ricostruzioni su cui si è formato il consenso?
.
Ultima perplessità riguarda il picco attuale. Come spiegano gli autori il drastico calo fatto registrare dall’ultimo campione preso in esame rispetto al precedente?
Ciao, Donato.
Donato, la formazione dei cunei di ghiaccio viene descritta dagli autori
così:”Ice wedges are one of the most common types of ground ice
within permafrost, and may be identified by vertically oriented
foliations of the ice body. They form when thermal contraction
cracks open in winter, which are periodically filled with snow
melt water in spring that quickly (re)freezes at negative ground
temperatures to form ice veins.” e quindi sì, secondo me, c’è spostamento
di materiale organico lungo la “carota” (uso le virgolette perché questa non è una vera carota in cui l’età è fissata dalla posizione). Per questo la cronologia viene
fatta ricavando con il 14C l’età degli elementi organici “così
come sono” e poi allineandoli temporalmente con una serie di procedure
numeriche successive, direi indipendenti dalla posizione lungo il cuneo.
E, ancora sì, queste procedure di sicuro non diminuiscono l’incertezza finale, malgrado correlazioni e relative significatività molto alte.
Penso che chi studia queste “carote” ritenga che la necessità di avere
paleocronologie relative alla stagione invernale valga il risultato più
incerto rispetto alle carote normali.
Gli “outliers”: vengono chiamati così, in genere, i dati che si discostano
molto dall’andamento medio (in ordinata). Attenzione, qui non è in
discussione il valore del d18O ma l’età (l’ascissa) e l’esclusione
viene giustificata solo con la frase che ho riportato nel post. Quindi da
qualche parte lungo la sequenza esiste un valore di d18O, (ovvero di
temperatura) che è superiore al valore attuale ed è **attendibile**. Questo
per il campione 29. Per il campione 4 non posso dire niente, anche se la sua
esclusione rende l’andamento della cronologia più simile a quello delle
altre crononologie che ho usato come confronto; ma questo valore è meno
“politicamente significativo” e credo che chiunque avrebbe accettato la sua
esclusione senza discutere.
L’ultimo, più recente, valore: non mi risulta che gli autori ne parlino in
modo particolare. Se si guarda la fig.3 dell’articolo, penso che venga
considerato una fluttuazione. Nella fig.6 del post si vede un riscontro con
Pages2k, ma la diversa risoluzione non credo permetta una qualsiasi
illazione al riguardo.
allora, Donato, per quel che riguarda il tuo primo dubbio:
I cunei di ghiaccio non si formano a seguito della fusione del permafrost; o meglio, non è così “semplice” come dici, se non altro perché il permafrost è una struttura complessa:
il permafrost è definito come l’insieme dei materiali di sottosuperficie la cui temperatura rimane costantemente a / o sotto 0°C per lunghi periodi di tempo, cioè è l’insieme dei materiali (suolo, substrato) che restano gelati per almeno due anni consecutivi;
Il primo strato, in superficie, con temperatura variabile sopra e sottozero, è la strato attivo, spesso fino a qualche metro, ma solo nelle regioni a permafrost discontinuo, altrimenti 30-50 cm; lo strato sottostante presenta invece temperature costantemente sottozero ed è il permafrost; infine, più in basso ancora, si ritrovano temperature costanti positive che aumentano secondo il gradiente geotermico locale.
Il permafrost non va inteso esclusivamente solo come sinonimo di ghiaccio. Il ghiaccio può essere presente perché i terreni, chi più chi meno, contengono acqua, ma la maggior parte del permafrost è composto dai materiali del terreno stesso.
dicevamo: il permafrost è sormontato dallo strato attivo che è la parte in superficie e che conseguentemente è sottoposto a cambiamenti secondo il corso delle stagioni a causa del passaggio dell’acqua, in esso contenuta, dallo stato liquido a quello solido e viceversa. Lo strato attivo disgela in primavera da qualche centimetro a qualche metro di spessore e la sua consistenza fangosa spiega la denominazione corrente di mollisol. Durante la breve estate il terreno diventa così frequentemente umido e molle anche in regioni povere di precipitazioni in quanto attraverso il sottostante permafrost NON può avvenire percolazione d’acqua;
La contrazione termica che si verifica nella stagione più fredda nei primi metri del permafrost
provoca la formazione di una rete poligonale costituita da sottili fessure subverticali, distanti metri o decine di metri l’una dall’altra. Il fenomeno si verifica frequentemente in materiali come ghiaie, sabbie, ecc., con un elevato contenuto di ghiaccio e ricchi di limo. Si trovano quindi reticolati poligonali di forma esagonale o quadrangolare nei fondovalle, sulle rive dei laghi e sulle pianure costiere.
si può suddividere questo fenomeno in tre tempi:
– in inverno, sotto l’effetto del freddo, un reticolo di fessure create per contrazione termica di larghezza millimetrica o centimetrica ritaglia lo spazio in grandi poligoni;
– in primavera e in “estate”, in seguito allo scioglimento delle nevi e dello strato attivo, l’acqua si infiltra in queste fessure aperte;
– in autunno quest’acqua gela formando una vena di ghiaccio che tura la crepa. Quest’ultima, per la contrazione termica del terreno, si riapre l’inverno successivo rendendo possibile il ripetersi del processo;
quindi, di fatto, il problema di “stratigrafia” che tu ponevi in realtà non sussiste, l’acqua di fusione non può percolare attraverso il permafrost propriamente detto; in ogni caso, dato che le datazioni sono fatte su residui organici usando il decadimento del C14, il problema non si porrebbe comunque, visto che non si parla di reali stratificazioni del ghiaccio come quelle che invece vengono esaminate dalle carote prelevate con le perforazioni all’interno dei ghiacciai continentali groenlandesi o antartici;
ciao
Max
PS: nelle zone nordiche interessate da permafrost, ci sono molti fenomeni geomorfologici interessanti da discutere ed approfondire, da quelli puramente “accademici” e paesaggistici (e fotografici), a quelli derivanti da frane, arretramento delle linee di costa etc etc; magari ci sarà occasione di riparlarne; 😀
Max, sempre esaustivo e puntuale: grazie.
Ciao, Donato.