Breve riflessione domenicale.
Siamo stati torturati per anni con le nefaste previsioni sul picco del petrolio, cui si sono poi aggiunte le ancor più terribili previsioni sugli effetti che l’uso dei combustibili fossili avrebbe prodotto in termini climatici. Sicché, tra l’insostenibilità che il costo del greggio aveva raggiunto negli anni scorsi e la paura di finire arrosto siamo corsi ai ripari. Oggi infatti il petrolio è quasi scomparso dal mix energetico nazionale.
Ora il petrolio non si sa più dove metterlo. Tra i nuovi giacimenti scoperti e le nuove tecniche di estrazione, estese anche al gas naturale, ce n’è a sufficienza per buona parte di questo secolo. Poi, tutto quel che oggi si fa col petrolio si farà col carbone, le cui risorse sono sconfinate. E il prezzo è crollato, anche per effetto dei tentativi dell’Opec di rendere non convenienti le nuove e più costose tecniche di estrazione. E ci tocca anche sentire che se scende un altro po’ andremo ulteriormente in deflazione.
Sicché, l’ultimo pensiero, attualmente, è quello di un eventuale limite della disponibilità. Sotterrati i picchisti sotto l’inconsistenza dei loro moniti e delle loro previsioni, resta il problema climatico. Ed ecco che su Nature, esce un paper in cui dei solerti ricercatori hanno fatto il conto di quanto petrolio, gas e carbone dovremmo lasciare sottoterra per centrare il target climatico dei 2°C e non oltre di aumento della temperatura media del pianeta per il 2050. Risultato, il 30% del petrolio e l’80% del carbone dovrebbero restare inutilizzati, insieme al 60% delle riserve di gas del Medio Oriente. Già, perché nel paper non è specificato solo cosa non dovrebbe essere estratto, ma anche dove.
Intendiamoci, l’approccio è coerente, sentite per esempio le parole di uno degli autori:
“I decisori devono realizzare che il loro istinto di utilizzare tutte le risorse disponibili nei loro paesi è del tutto incompatibile con la loro adesione all’obbiettivo dei 2°C. Se andranno avanti con lo sviluppo delle loro risorse, si dovrebbe chieder loro quali riserve altrui dovrebbero restare inutilizzate perché il budget di carbonio non venga superato.”
E infatti gli accordi sul clima, dopo Kyoto che tra delocalizzazione e finanza climatica ha fatto più danno che guadagno, non li firma nessuno, mentre i contratti di estrazione li firmano tutti. Che il sostegno politico al tema del disastro climatico si sia raffreddato? Ora non resta che aspettare che si raffreddi anche il pianeta e saremo pronti per la prossima minaccia per l’umanità che qualcuno non mancherà di prevedere.
Non ho letto l’articolo su Nature ma mi chiedo: che senso ha calcolare la percentuale di riserve che dovremmo “lasciare in cantina” (come il vino) ad invecchiare se nessuno è stato fino ad ora capace di quantificare in modo decente l’ammontare delle suddette riserve? Il concetto intrinsecamente dinamico di “risorsa disponibile”, che dipende dalla quantità presente (che possiamo considerare statica) ma anche dalla nostra capacità di estrarla (intrinsecamente dinamica) e dalla disponibilità (possibile ma ignota fino a quando non viene scoperta) di fonti alternative di energia, rende queste valutazioni (come anche le previsioni sul famoso “picco”) espressioni di una raffinata retorica politica più che di un rigoroso discorso scientifico.
Mi sono posto la stessa questione. Di questi tempi c’è un sacco di gente che basa i propri ragionamenti su precisi rapporti tra quantità ignote. A partire dal contributo antropico al clima.
Ovviamente la prossima minaccia sarà la glaciazione innescata dal minimo solare.