Qualche giorno fa (qui su CM) è stato pubblicato un post riguardante la carbonatazione del calcestruzzo e l’influenza del Global Warming (GW) sul fenomeno.
Prima di analizzare il fenomeno è opportuno cercare di capire di cosa si tratta.
Il cemento, componente essenziale del calcestruzzo, è il prodotto di un processo produttivo che parte da minerali silico-alluminosi di calcio (calcare, argille e marne) miscelati in opportune proporzioni e finemente macinati e accuratamente miscelati. Dopo deumidificazione ed opportuno trattamento termico all’interno di un forno rotativo alla temperatura di circa 1450 °C, il miscuglio così costituito subisce una parziale fusione dando luogo al cosiddetto clinker. Si tratta di granuli di varie dimensioni costituiti da silicati anidri di calcio, alluminati di calcio e ferriti di calcio che dopo essere stati trasformati in una polvere finissima, sono in grado di reagire chimicamente con l’acqua in modo da generare un comportamento “idraulico” della pasta così formata. Il miscuglio di cemento ed acqua, dopo il fenomeno di presa ed indurimento, genera una roccia artificiale che risulta essere molto simile ad una roccia naturale molto comune nell’area della città di Portland in Gran Bretagna. Da ciò deriva il suo nome: cemento portland.
Il cemento miscelato con acqua subisce delle complesse trasformazioni chimico-fisiche fortemente esotermiche che prendono il nome di presa. Durante la presa i silico-alluminati di calcio che costituiscono il clinker, si idratano dando luogo a silico-alluminati idrati di calcio. Per regolare i tempi di presa del cemento si utilizza il gesso o solfato di calcio biidrato. La presa avviene in assenza di aria e, quindi, anche in acqua da cui l’aggettivo idraulico che viene aggiunto al nome “ufficiale” del cemento: legante idraulico.
Questo materiale entrò nell’uso comune a partire dalla metà del 19° secolo e fu consacrato nei primi anni del secolo scorso come materiale nobile per l’industria delle costruzioni dal genio di Le Corbusier quale componente essenziale del calcestruzzo e del calcestruzzo armato. Il calcestruzzo cementizio è un materiale composito costituito da inerti (sabbia e ghiaia opportunamente assortiti dal punto di vista granulometrico), cemento ed acqua. Il materiale, fluido in origine, dopo un certo lasso di tempo dall’impasto e dal versamento nelle casseforme, si solidifica generando una “roccia” artificiale che si definisce conglomerato cementizio. Come le pietre esso è, però, un materiale fragile ed incapace di resistere a sforzi di trazione. L’introduzione delle armature metalliche all’interno della massa fluida ha consentito di realizzare un materiale in grado di resistere anche agli sforzi di trazione: il calcestruzzo armato meglio noto, anche se in modo impreciso, come cemento armato (il cemento è, infatti, solo uno dei componenti del calcestruzzo).
Il calcestruzzo ha origini antichissime e fu il materiale che consentì ai Romani di diventare i più grandi costruttori dell’antichità. Essi, però, non utilizzavano il cemento, ma un altro legante idraulico di origine naturale: la pozzolana. Quando si parla di Colosseo, per esempio, non dobbiamo pensare al calcestruzzo moderno, ma al calcestruzzo antico che presenta caratteristiche completamente diverse dall’odierno calcestruzzo. Il calcestruzzo romano era costituito da laterizio ridotto in frammenti di varia pezzatura (coccio pesto), pozzolana e grassello di calce (idrossido di calcio ottenuto dalla bagnatura dell’ossido di calcio o calce viva, prodotta a sua volta, dalla cottura del carbonato di calcio o calcare). La pozzolana è un minerale di origine vulcanica che presenta spiccate caratteristiche idrauliche: è in grado di reagire con l’idrossido di calcio contenuto nel grassello di calce in modo da ottenere dei silicati ed alluminati di calcio che sono in grado di far presa ed indurire anche in acqua. Miscelando in opportune proporzioni la pozzolana ed il grassello di calce si ottiene un materiale in cui è quasi del tutto assente l’idrossido di calcio che presenta grande durabilità in quanto molto resistente all’azione dell’ambiente: aria marina, acqua salmastra, acque meteoriche e via cantando.
Aggiungendo la pozzolana al clinker di cemento portland in opportune quantità si ottiene quello che si definisce cemento pozzolanico che ha caratteristiche particolarmente importanti. Lo stesso risultato si può ottenere aggiungendo al clinker di cemento portland la loppa d’altoforno (un sottoprodotto siderurgico): in questo caso si parla di cemento d’altoforno. Altri additivi capaci di dare caratteristiche “pozzolaniche” al cemento solo le ceneri volanti ed il fumo di silice (sostanze vetrose ottenute come sottoprodotti di processi industriali).
Il calcestruzzo di cemento portland ha buone caratteristiche meccaniche, ma è afflitto da un grosso problema: è poco durabile in quanto è facilmente attaccabile dagli agenti atmosferici. Le acque piovane, quelle provenienti dallo scioglimento della neve e le acque ricche di anidride carbonica lo dilavano con facilità rimuovendo il cemento e mettendo a nudo gli inerti costituenti il calcestruzzo che, privi dell’azione legante del cemento, si staccano facendo perdere coerenza e consistenza al calcestruzzo. Quando il calcestruzzo è armato, però, il problema più grosso è costituito dalla carbonatazione.
Nella massa del calcestruzzo realizzato con cemento portland sono presenti discrete quantità di idrossido di calcio [ Ca(OH)2 ] che creano un ambiente fortemente basico. Quando l’idrossido di calcio reagisce con l’anidride carbonica presente nell’aria, però, si genera carbonato di calcio (CaCO3) ed acqua. Ciò determina una riduzione del PH del calcestruzzo. In assenza di armature metalliche la cosa non produce molti problemi anzi il calcestruzzo diventa più duro, ma in presenza di armature metalliche i problemi diventano enormi.
Le armature metalliche (ferri) inserite nel calcestruzzo, come già accennato, sono in grado di garantire al calcestruzzo capacità meccaniche tali da consentire alla struttura realizzata di sopportare anche sforzi di trazione. L’acciaio, da cui sono costituite queste armature, è protetto dalla corrosione in quanto il calcestruzzo normalmente è un ambiente reso alcalino dalla presenza dell’idrossido di calcio. Durante la fase di presa il calcestruzzo raggiunge livelli di alcalinità molto alti (PH>12) in grado di passivare l’acciaio e bloccare qualsiasi processo di ossidazione.
Quando il PH del calcestruzzo scende al di sotto di 9 (a causa della carbonatazione, per esempio) il calcestruzzo non è più in grado di proteggere le armature in acciaio per cui esse cominciano ad ossidarsi trasformandosi, cioè, in ossido di ferro.
L’ossidazione delle armature avviene con un forte aumento di volume (fino a 5 volte il volume iniziale) che genera forti azioni trasversali nel calcestruzzo che, pertanto, si lesiona (ricordiamo che ha scadente resistenza a trazione) fino a che la parte di materiale circostante le armature (copriferro) viene espulsa mettendo a nudo le armature. La foto in testa al post ne è un esempio illuminante.
A questo punto si capisce che per ridurre i fenomeni di corrosione delle armature è necessario mantenere alto il PH del calcestruzzo e, quindi, evitare che la CO2 penetri nel calcestruzzo e, in ogni caso, sia il più lontana possibile dalle armature metalliche. Ciò significa che il calcestruzzo deve essere realizzato in modo che non si fessuri e che non sia poroso. Sia le fessure che i pori agevolano, infatti, la penetrazione dell’anidride carbonica nel calcestruzzo, la carbonatazione dello stesso e, in ultima analisi, la corrosione delle armature. Il calcestruzzo va pertanto protetto mediante l’applicazione di prodotti che producano film impermeabili all’aria o all’acqua contenente anidride carbonica in soluzione, aumentando la compattezza del calcestruzzo e diminuendo, quindi, la porosità dello stesso. Altra soluzione è quella di aumentare lo spessore del copriferro, cioè del calcestruzzo che separa il ferro dalla superficie del manufatto in modo da ritardare il più possibile l’avanzamento della carbonatazione.
Sembra inoltre che l’uso di cemento pozzolanico o d’altoforno ostacoli la carbonatazione.
Visto che la pozzolana e la loppa d’altoforno (oltre ad altri additivi come il fumo di silice o la cenere volante) reagiscono con l’idrossido di calcio presente nel calcestruzzo trasformandolo in carbonato di calcio, sembrerebbe che l’uso di tali cementi aggravi il fenomeno della corrosione delle armature. Tali cementi sono in grado, però, di incentivare la produzione dei silicati idrati di calcio che avendo struttura fibrosa tendono a chiudere i pori del calcestruzzo riducendo la permeabilità del calcestruzzo alla CO2 atmosferica. Essi rendono, inoltre, il calcestruzzo molto più resistente al dilavamento ed all’attacco dei cloruri e dei solfati. Recenti ricerche consentono di affermare, inoltre, che la basicità del calcestruzzo non è influenzata dal tipo di cemento utilizzato.
Concludendo possiamo dire che la CO2 atmosferica determina la carbonatazione del calcestruzzo, per cui, un aumento della concentrazione della CO2 atmosferica dovrebbe aumentare la velocità con cui avviene la carbonatazione del calcestruzzo e, quindi, aumentare il pericolo di corrosione delle barre di armatura del calcestruzzo, diminuendo la sua durabilità soprattutto se esso è stato realizzato con cemento portland e non è protetto mediante pitture e/o rivestimenti idonei. Allo scopo di ridurre questi rischi è necessario che i manufatti in calcestruzzo armato siano ben progettati e soprattutto ben realizzati.
Per quel che riguarda il calcestruzzo romano il paragone sarebbe da evitare in quanto, a differenza di quello moderno, non era armato e quindi non presentava i problemi dell’attuale calcestruzzo armato.
In tutto quanto questo mi chiedo cosa centri il GW (con o senza A). La temperatura, a quanto mi risulta, non influenza la permeabilità del calcestruzzo a meno che non raggiunga valori molto elevati: in questo caso la dilatazione termica può produrre formazione di fessure e, quindi, maggiori vie d’accesso alla CO2. Si dovrebbero però registrare aumenti di temperature di diversi gradi, non di pochi centesimi o decimi di grado. Mi si risponderà dicendo che nel 2100, se tutto va storto, le temperature potrebbero aumentare di 4/6°C. Non mi preoccuperei più di tanto in quanto, norma alla mano, l’aspettativa di vita di una struttura ordinaria in calcestruzzo armato è di circa 50 anni. Le strutture speciali possono arrivare a 100 anni.
Gli edifici già costruiti nel 2100, per legge, avranno superato la vita media di progetto e, quindi, andrebbero demoliti e, eventualmente, ricostruiti. Per quel che riguarda i nuovi edifici, se ben progettati e realizzati, non dovrebbero presentare rischi connessi alla carbonatazione in quanto la problematica è stata ampiamente studiata da diversi decenni (almeno 3 come posso testimoniare per esperienza diretta) e, quindi, da prima che si cominciasse a parlare di AGW.
Ancora una volta possiamo dire che più che dalla paura irrazionale, le nostre scelte devono essere guidate dalla razionalità della mitigazione del rischio connesso alla carbonatazione (questo reale).
Noto con piacere che, pur non concordate, le risposte fornite da me e da A. de Orleans-Borbone sono quasi sempre coincidenti e, in molte circostanze si integrano vicendevolmente: anche sul calcestruzzo, evidentemente, si è creato un certo consenso. 🙂
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E veniamo adesso alla domanda seria di F. Giudici.
Per le dighe credo che il problema sia poco rilevante: si tratta di manufatti in cui il calcestruzzo armato riguarda solo elementi secondari. Il corpo vero e proprio è costituito da calcestruzzo non armato per cui problemi di corrosione delle armature non ne esistono. Il problema del dilavamento è molto poco avvertito in quanto si utilizzano cementi particolari caratterizzati da un calore di idratazione relativamente basso (pozzolanici o d’altoforno, per esempio) che resistono molto bene al dilavamento. Detto in altre parole la diga in calcestruzzo a gravità è assimilabile ad una diga in pietra la cui durata è estremamente lunga (alcune dighe in muratura sono restate in esercizio per centinaia d’anni e questo senza scomodare la leggendaria diga della regina di Saba in Yemen o quella romana (altrettanto leggendaria) detta di Proserpina in Spagna.
Si tratta, comunque, di strutture soggette ad un rigido controllo (in Italia ad opera del Servizio Dighe) che ha lo scopo di verificare periodicamente le condizioni di stabilità e conservazione del manufatto e di adeguarlo alle mutate condizioni geologiche, idrologiche, amministrative e normative. A questo scopo gli organi preposti al controllo possono disporre interventi di manutenzione straordinaria quando le condizioni di sicurezza si abbassano oltre un certo limite durante i quali il volume dell’invaso viene ridotto e, nei casi estremi, si arriva al suo svuotamento totale. In alcuni casi si può arrivare anche alla messa fuori esercizio della diga che, pertanto, resta al suo posto e continua il suo lento processo di degrado mentre il corso d’acqua, precedentemente interrotto, riprende a scorrere verso valle lungo il suo alveo naturale. In Italia sono 28 (su circa 540) le grandi dighe fuori esercizio in cui l’invaso è stato svuotato. E’ fondamentale, in ogni caso, un monitoraggio continuo delle opere per individuare anche i più piccoli segni di dissesto e’o di degrado e porvi rimedio nel più breve tempo possibile.
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Per le gallerie il problema è legato all’atmosfera aggressiva che si viene a creare nella canna ed alle eventuali infiltrazioni di acque (se eccessivamente ricche di soluti aggressivi). In questo caso demolire e ricostruire una galleria ogni secolo crea problemi, ma l’uso di calcestruzzi particolarmente compatti e realizzati con cementi pozzolanici o d’altoforno limita i danni. E’ essenziale, inoltre, un’accurata manutenzione della struttura. Esistono, in ogni caso, tecniche che consentono il rifacimento di parte o, al limite, dell’intera volta della galleria senza doverne scavare una nuova. Un esempio è costituito dalla galleria di S. Pedrino che si snoda per 235 m sotto la città di Varese. Il rivestimento di questa galleria è in mattoni, ma la tecnica non cambiava se fosse stata in calcestruzzo. Essa in alcuni tratti evidenziava grossi dissesti conseguenti ad infiltrazioni d’acqua ed il rivestimento in muratura si presentava fortemente deteriorato. Dove i danni erano maggiori si è provveduto al rinforzo della struttura con placche in calcestruzzo ancorate alla roccia retrostante con pali di piccolo diametro in calcestruzzo (micropali armati realizzati mediante perforazione, iniezione ad alta pressione di malta cementizia che microfratturava la roccia creando un “arco” di terreno consolidato autoportante che consentiva di scaricare l’arco in muratura esistente e la rimessa in esercizio della galleria oltre a ripristinare il contatto tra mattoni e terreno). In questo caso si è addirittura scavato il fondo della galleria in modo da consentire il transito di carrozze ferroviarie a due piani. In tal modo la vita utile della galleria è stata aumentata di molto. L’intervento è un po’ datato (risale al 1984/1986), ma è esemplare. In altri casi in aggiunta alle metodiche illustrate, si sono utilizzati rivestimenti continui in calcestruzzo armato in piccoli spessori (betoncino armato) e via cantando.
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Stesso discorso vale per i ponti ed i viadotti. Per quel che riguarda le travi degli impalcati dei viadotti si utilizza il calcestruzzo armato precompresso e, in questi casi il calcestruzzo ha caratteristiche di durabilità enormemente maggiori di quelle di un normale calcestruzzo in quanto realizzato in condizioni estremamente controllate in stabilimento per cui la carbonatazione è molto limitata e non ha serie conseguenze in quanto è raro che possa raggiungere le armature. Per sua natura, inoltre, il calcestruzzo precompresso è come se fosse in grado di resistere a sforzi di trazione per cui, a meno di danneggiamento fisico accidentale o volontario, la creazione di fratture (veicolo privilegiato per la corrosione delle armature) è molto improbabile. Ciò non toglie che con il passare del tempo la struttura si deteriori sia a livello di impalcato che di pile richiedendo costosi interventi di ripristino.
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In conclusione possiamo dire che ogni struttura è inevitabilmente destinata a degradarsi, noi possiamo aumentarne la vita utile con interventi di manutenzione, ma non potrà mai essere immortale. Qualche anno fa lessi su “Le Scienze” la descrizione del seguente scenario: se istantaneamente il genere umano sparisse dalla Terra, cosa succederebbe alle infrastrutture da noi realizzate?
Le analisi dello studio recensito prevedevano che le prime strutture a degradarsi (pochi anni) sarebbero state le strade seguite dalle costruzioni in calcestruzzo armato ed in acciaio poi da quelle in muratura e, infine, dalle costruzioni in pietra (tipo cattedrali gotiche e/o romaniche). Questa analisi mi trova abbastanza d’accordo: non per niente le piramidi (costruzioni massicce in pietra) sono ancora lì da oltre 4000 anni pur avendo perso il loro rivestimento in mattoni.
Ciao, Donato.
Grazie.
Ringrazio anch’io Donato per l’eccellente articolo. Grossomodo conoscevo i limiti del calcestruzzo moderno (avendo sentito qualche architetto che ne parlava), ma adesso posso dire di conoscere il fenomeno nei dettagli essenziali. Provocatoriamente vi dirò che mi dà una certa soddisfazione sapere che le opere moderne, in gran parte brutte assai, non dureranno come invece durano capolavori architettonici del passato. Sì, è vero, verranno sostituite da altre brutture, ma penso che prima o poi le generazioni moderne saranno in grado di rientrare dall’ubriacatura di ego di cui soffrono oggi e saranno in grado di tornare a progettare opere più armoniose ed in equilibrio con il Creato. Chiusa la parentesi. 😉
Domanda seria, invece. Capisco che un edificio, giunto a fine vita, si demolisce e se ne ricostruisce un altro. Ma per opere come viadotti, gallerie, dighe che si fa?
Domanda da profano: per un periodo di circa due anni alcuni “piloni” dell’E45 nel tratto corrispondente alla diga di montedoglio in Toscana, sono rimasti sommersi dalle acque della diga che veniva tenuta ad un livello molto alto. Sicuramente non erano stati progettati per essere sommersi perché il progetto della diga era successivo. Credete possibile che questo fatto abbia in parte compromesso la loro durata? E soprattutto, potrebbe aver ridotto la loro capacità di trazione in caso di sisma (quella zona mi sembra che sia in zona 2 del rischio sismico.). grazie.
Per dare una risposta esaustiva bisognerebbe conoscere alcune cose che ignoro. Mi limiterò, pertanto, ad alcune considerazioni circa il comportamento del calcestruzzo.
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Il calcestruzzo è realizzato con un legante idraulico (cemento) che “sta a suo agio in acqua” per cui nessun danno deriva alle strutture dalla immersione in acqua: la carbonatazione riguarda, infatti, le strutture esposte all’aria e non quelle sommerse. Il dilavamento del calcestruzzo avviene solo in presenza di acque particolari: acqua molto ricca di CO2 o aggressiva da un punto di vista chimico (acqua salmastra o inquinata). Nel caso di un bacino artificiale non credo che ci si trovi di fronte a questo caso per cui, a seguito dell’immersione delle pile, il calcestruzzo non credo abbia subito alcun danno.
Stesso discorso vale per le caratteristiche di resistenza delle strutture: l’immersione in acqua non dovrebbe averne intaccato le caratteristiche fisico-meccaniche. Per quel che riguarda la pila in calcestruzzo armato nella parte al di sopra del livello del terreno, pertanto, mi sento di escludere conseguenze circa la durabilità e le resistenze. Tutto questo nell’ipotesi che il calcestruzzo fosse in ottime condizioni e le armature ben protette.
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Qualche problema potrebbe riguardare le fondazioni, ma in mancanza di dati certi, preferisco astenermi da ogni giudizio. Il fatto che la diga sia stata progettata dopo la realizzazione della strada mi fa pensare che i progettisti abbiano tenuto conto delle possibili interazioni tra lago artificiale e viadotto autostradale e, in particolare, tra fondazioni delle pile e livello dell’acqua nel lago artificiale. In genere questi problemi ce li poniamo.
Ciao, Donato.
In genere, al calcestruzzo fa solo “piacere” stare sott’acqua, perché aumenta la probabilità che tutto il cemento venga completamente idratato — sempre che l’acqua non sia chimicamente aggressiva.
Un notevole ed interessante esperimento a lungo termine circa la durabilità del calcestruzzo in ambiente marino difficile (in zona “bagnasciuga”) si trova qui:
http://www.escsi.org/uploadedFiles/Technical_Docs/Structural_Lightweight_Concrete/4710.5%20Performance%20of%20SLWC%20in%20a%20Marine%20Environment.pdf
Carotaggi ivi effettuati periodicamente durante decadi hanno mostrato un costante incremento delle caratteristiche meccaniche del calcestruzzo (leggero, in questo caso).
Continuando sulla falsariga del commento precedente, una soluzione definitiva al problema della “carbonatazione” per piccoli manufatti in calcestruzzo è l’impregnazione sotto vuoto con metilmetacrilato.
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Sulla mia scrivania conservo ancora un bullone con dado filettati al tornio, circa 15×5 cm, realizzati in calcestruzzo leggero impregnato, densità 1,700 kg/m3 e resistenza a compressione del materiale attorno ai 1.600 kg/cm2.
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Non so se esistano ancora oggi, ma le prime bitte (quei “funghi” per avvolgere le cime di ormeggio sulla banchina) del porto di Punta Ala erano in calcestruzzo pesante impregnato, resistenza a compressione attorno ai 3.000 kg/cm2, oltre 10 volte quella di un calcestruzzo tradizionale. Se ricordo bene le realizzò il Prof. Arturo Rio al Centro Studi della (oggi ex) Cementisegni a Colleferro.
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Personalmente mi è sempre rimasta la curiosità circa la possibilità di produrre industrialmente un materiale da costruzione simile alla giada, uno dei pochissimi materiali lapidei dotato di una buona resistenza a trazione e ovviamente del tutto privo dei problemi di carbonatazione menzionati.
e se i tondini di ferro fossero ZINCATI? non durerebbero una 30 di anni in più senza particolare manutenzione?
No, la domanda è logica, ma la zincatura impedisce una corretta aderenza dela malta cementizia alla superficie del ferro, impedendo un corretto ancoraggio del tondino nella struttura — a tal fine è preferibile addirittura un tondino leggermente arrugginito rispetto ad uno appena uscito dalla fonderia.
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In senso lato, la corretta manutenzione di un manufatto in calcestruzzo progettato con criteri antisismici e soggetto ai fenomeni illustrati sopra è un’arte difficilissima, sia in via preventiva che correttiva.
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Non mi consta che siano mai stati fatti degli studi sperimentali per valutare il gradiente della CO2 nel calcestruzzo al variare della concentrazione atmosferica. Il tema non è triviale, perché le strutture in calcestruzzo sembrano avere una durata dell’ordine di un centinaio di anni, anche se molto variabile a seconda delle condizioni ambientali — fra qualche decennio crescerà velocemente il “parco strutture” che inizierà a dover essere rinnovato e il rispettivo volume annuale potrebbe risultare assai dipendente dalla concentrazione della CO2 atmosferica.
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Confesso che non saprei dire se alla fine sia più un bene o un male, vista la tipologia architettonica (meglio: geometronica…) di molte delle strutture post-guerra e visto il forte moltiplicatore della attività economica legato al settore delle costruzioni.
Se i tondini fossero zincati durerebbero molto di più, è fuori discussione, ma l’opera sarebbe molto più costosa. Meglio ancora se i tondini fossero in acciaio inossidabile, ma i costi sarebbero ancora maggiori.
Per quel che riguarda i tondini in acciaio zincato vi è comunque una “controindicazione”. Il connubio tra calcestruzzo ed acciaio è ben riuscito in quanto tra i due materiali l’aderenza è ottima. Oggi con i ferri ad aderenza migliorata si può dire di aver raggiunto delle condizioni ottimali, ma anche quando i ferri erano lisci l’aderenza era molto forte. La spiegazione di questa forte aderenza deve essere ricercata nei composti chimici che vengono a formarsi all’interfaccia acciaio-calcestruzzo che generano una continuità fisica tra i due materiali. Nel caso degli acciai zincati questi composti chimici non si formano o, per essere più precisi, si formano dei composti diversi. Sulla base di alcuni lavori sperimentali sembrerebbe che l’adesione acciaio zincato-calcestruzzo sia addirittura superiore a quella acciaio nudo calcestruzzo. Se aumenta, però, lo spessore del rivestimento di zinco, si riduce l’altezza delle nervature e, quindi, diminuisce l’aderenza armature-calcestruzzo. Poiché il processo di zincatura a caldo può generare accumuli eccessivi di materiale in alcune zone, si potrebbero verificare inconvenienti in fase di lavorazione delle barre ed in fase di esercizio.
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Nel caso dell’acciaio inossidabile invece non sono state individuate controindicazioni rispetto alle barre di acciaio ordinario in quanto i composti del ferro possono formarsi come nel caso delle barre ordinarie e non si verificano gli inconvenienti connessi alle imperfezioni nel rivestimento di zinco. Per la verità anche l’acciaio inossidabile nella realtà si ossida, ma lo strato di ossido che si viene a formare è estremamente compatto ed impedisce che la corrosione penetri all’interno delle barre d’armatura.
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E’ possibile, inoltre, proteggere l’acciaio di armatura mediante sinterizzazione di polveri di PVC in modo da formare strati isolanti continui spessi poche centinaia di micron, oppure rivestire le barre con resine epossidiche. In tal modo si riducono anche i rischi di corrosione di natura elettrica (correnti vaganti). Nel primo caso si riduce, però, l’aderenza rispetto alle barre nude ed a quelle rivestite con resina e, in caso di esposizione ad alte temperature il PVC si degrada compromettendo la protezione delle armature.
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L’ideale sarebbe poter realizzare le armature in materiali polimerici non ossidabili e/o degradabili, ma non mi sembra che le ricerche in tale campo siano molto avanzate. Nei restauri si sono utilizzate delle strisce realizzate in fibra di carbonio incollate sul calcestruzzo con resine epossidiche, ma si tratta di applicazioni di nicchia.
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L’utilizzo degli acciai zincati e di quelli inossidabili, ad oggi, è la metodologia più utilizzata quando si opera in presenza di strutture molto importanti dal punto di vista strategico e/o per strutture immerse in ambienti particolarmente aggressivi. I costi sono, però, più elevati. Per le strutture ordinarie l’unica scelta che, oggi come oggi, sembra più a portata di mano è quella di migliorare la durabilità del calcestruzzo riducendone la porosità e progettando in modo da evitare l’apertura delle fessure. Le norme tecniche attualmente in vigore hanno recepito questa problematica e consentono, attraverso le verifiche allo stato limite di esercizio, di limitare la fessurazione del calcestruzzo. Altra possibilità è quella di utilizzare calcestruzzi caratterizzati da alte resistenze caratteristiche alla compressione: si tratta in ogni caso di scelte che comportano aumenti dei costi, ma nettamente inferiori a quelli che caratterizzano l’uso di armature zincate o inossidabili. Nonostante ciò, posso garantirlo, vi è una certa riluttanza ad adottare simili accorgimenti anche se gli incrementi di costo sono abbastanza contenuti.
Ciao, Donato.
Caor Donato, ti ringrazio davvero per tutti i chiarimenti che mi hai dato.
Una curiosità: se non erro tu sei geologo, o sbaglio?
I geologi si occupano di cementi in quanto interessati allo sfruttamento delle cave ed alle successive fasi di lavorazione?
Ciao.
Luigi
Sono ingegnere civile edile e affronto quotidianamente le problematiche di cui stiamo discutendo. Non sempre con successo. 🙂
Ciao, Donato.
Ora capisco. Grazie ancora per l’articolo. Ciao. Luigi
Egegio MAriani, io sono geologo, personalmente mi sono occupato in alcuni periodo della mia vita di alterazione di monmenti e diagnostica del costruito, non solo riferito al cemtneo armato & C. ( campo piuttosto ingegneristico) ma anche al materiale lapideo in genere che è seggeto anch’esso ad alterazioni anche importani per i risvolti strutturali. Nel contempo come assistente universitario in Svizzera ho avuto a che fare con corsi di mineralogia industriale, legati alla produzione di pietre preziose sitetiche a all’estrazione di minerali e rocce utili all’edilizia, dai granulati( ghiaia sabbie) al gesso il calcare e altro. In questi campi il geologo si occupa essenzialmente dell’aspetto estrattivo ma in vari casi puo interagire insieme ad altri professionisti del settore nel risolvere problematiche che riguardano le trasformazioni mineralogiche ( che noi chiamiamo genericamente alterazioni) dei costituenti i materiali sopracitati. Da un punto di vista prettamente mineralogico- petrografico si potrebbe dire che tutte le rocce e i sedimenti ( compresi i cementi che non sono altro che rocce di origine antropica) non fanno altro che raggiungere il punto di equilibrio con l’ambiente circostante. Per le rocce e i sedimenti in ambiente di “crosta” che si trasfromano senza fusione degli elementi si usa il termine di metamorfismo, e in realtà le alterazioni di cui noi parliamo non sono altro che delle reazioni metamorfiche ceh avvengono a temperatura e pressioni ambientali superficiali (atmosferiche) e che portano all’equilibrio i minerali costituenti questi materiali. SIccome i minerali in euqilibrio con l’ambiente atmosferico sono in genere ossidi idrossidi argille e zeoliti ecco che in realte tutto il materiale lapideo e i cementi che noi utilizziamo ( costutiti da minerali svilupptisi in condizioni diverse da quelle ambientali) non fanno altro che riequilibrarsi o metamorofosarsi piu o meno velocemente per raggiungere l’equilibrio con il sistema atmosferico. Sperco di essermi spiegato….
Onestamente non avevo mai pensato al calcestruzzo come roccia in fase di metamorfosi, ma le tue considerazioni sono di estremo interesse.
Sono sempre stato convinto che i nostri sforzi per proteggere il calcestruzzo ed impedirne la carbonatazione non fanno altro che rallentare un processo ineluttabile, ma vista nell’ottica da te illustrata la cosa diventa estremamente intrigante: un ennesimo episodio della lotta con cui l’uomo cerca di modificare l’ambiente in cui opera per adeguarlo alle sue esigenze.
Ciao, Donato.
Scrive L. Mariani: “La manutenzione è dunque essenziale per garantire la durabilità del calcestruzzo e qui il mio timore si lega al fatto che il nostro mondo è pieno di gente che costruisce molto e manutiene poco e male.”
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Con questa considerazione, caro Luigi, hai messo il classico dito nella piaga.
Sono costretto, mio malgrado, a darti completamente ragione e ad aggiungerci del mio: progettiamo, costruiamo e curiamo male i manufatti edilizi.
Già nel lontano 1983 il compianto prof. ing. M. Pagano, ci esortava a progettare le strutture senza esasperare le prestazioni del materiale. Ci invitava a ridurre le caratteristiche di resistenza dell’acciaio ben al di sotto di quelle consentite dalla legge in quanto se l’acciaio viene sollecitato molto, si deforma molto e, quindi, genera fessurazione nel calcestruzzo. Ci pregava di disporre le armature in modo da innervare tutto il volume del calcestruzzo perché “se lo chiamiamo armato DEVE essere armato” e di evitare il più possibile le fessure.
In ambienti particolarmente aggressivi (strutture sommerse, strutture sotterranee, strutture esposte ad ambiente marino e via cantando), la fessurazione, è la principale causa di corrosione delle armature in quanto vengono esposte agli agenti ossidanti (cloruri, solfuri, ecc.).
Questo è, però, l’ultimo dei problemi che si pone il committente e, purtroppo, una notevole percentuale di progettisti architettonici.
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Le strutture devono essere il più possibile snelle, devono quasi scomparire, guai a vedere una trave o un pilastro nello spigolo di una stanza. Il risultato porta a strutture in cui le sollecitazioni dell’acciaio vengono spinte al massimo consentito ed il manufatto in CA (calcestruzzo armato) inevitabilmente si fessurerà creando delle vie di accesso alla CO2 che carbonata in profondità il calcestruzzo facendo venir meno la sua azione protettrice nei riguardi dell’acciaio.
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In fase esecutiva il calcestruzzo non ha mai le giuste caratteristiche. E’ ormai assodato che la permeabilità del calcestruzzo alla CO2 è strettamente legata al cosiddetto rapporto acqua/cemento (quantità d’acqua/quantità di cemento). Tale rapporto dovrebbe essere il più basso possibile e la quantità d’acqua dovrebbe essere quella strettamente necessaria a consentire l’idratazione dei componenti del cemento (dicono i francesi, grossi esperti del calcestruzzo, che il calcestruzzo deve avere la consistenza della terra umida). Ciò rende, però, il materiale scarsamente lavorabile e non veicolabile mediante le pompe per il calcestruzzo. Il risultato è un calcestruzzo con un elevato rapporto acqua/cemento e, quindi, molto poroso, cioè, molto permeabile alla CO2, ai cloruri e ad altri agenti aggressivi. In alternativa potrebbero utilizzarsi i fluidificanti, ma sono piuttosto costosi.
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La manutenzione è, infine, il convitato di pietra di tutta la questione per il semplice fatto che in Italia, in generale, non la si fa. Punto.
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Come si è potuto capire alla base di tutta la questione abbiamo problemi di costo e una scala di valori completamente distorta. Chi va a vedere un fabbricato da acquistare, per esempio, si preoccupa del grado di finitura, dell’estetica del palazzo, della funzionalità dell’appartamento, dell’eleganza degli ambienti, al limite, delle prestazioni energetiche. Nessuno o quasi di come è fatta la struttura portante: si da per scontato che sia ben fatta. In realtà il costruttore (parlo sempre in generale, ovviamente) cerca di risparmiare proprio sulla struttura: deve essere conforme alle norme, è fuori discussione, ma neanche un po’ di più. Vogliamo aumentare lo spessore di copriferro oltre quello previsto dalla normativa? Sarebbe bello, ma … costa. Vogliamo aumentare le dimensioni di travi e pilastri per far lavorare meglio l’acciaio ed evitare fessurazioni? Si, ma … si perde spazio, le strutture diventano troppo “pesanti” e così via. Vogliamo risparmiare sulle finiture per migliorare la struttura? Non sia mai detto, chi se lo compra, poi, l’appartamento?
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Anche per la durabilità delle nostre strutture, quindi, dobbiamo modificare il paradigma: meno importanza all’esteriorità e più valore alla sostanza. 🙂
Una volta si costruiva per l’eternità (vedi piramidi o acquedotti e ponti romani ancora in esercizio), oggi per soddisfare il gusto. Le due cose non sono antitetiche, ma si privilegia il secondo rispetto alla durabilità.
Ciao, Donato.
“Una volta si costruiva per l’eternità (vedi piramidi o acquedotti e ponti romani ancora in esercizio).”
Forse l’uomo moderno ha davvero compreso d’essere individualmente effimero.
Volevo ringraziarti per l’articolo, è stato un piacere leggerlo e spero anche di aver imparato qualcosa.
Stammi bene.
Caro Donato,
grazie per l’ampia disamina del problema. Mi pare di capire che un elemento chiave sia come sempre quello della “mitigazione del rischio” che per tutti noi si traduce in “manutenzione”, nel senso che periodici interventi di manutenzione che evitino che il ferro risulti esposto agli agenti atmosferici e che l’acqua (che è per sua natura acidificante in quanto vettrice di CO2 in soluzone alias acido carbonico -> in geologia abbiamo fenomeni imponenti legati a ciò ed in particolare il carsismo) si infiltri in profondità nel materiale.
La manutenzione è dunque essenziale per garantire la durabilità del calcestruzzo e qui il mio timore si lega al fatto che il nostro mondo è pieno di gente che costruisce molto e manutiene poco e male.
Luigi