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Modelli ed osservazioni: una convivenza difficile

Già in passato mi sono occupato, su queste pagine, del ruolo che la fusione delle calotte glaciali groenlandese e antartica hanno sulla stima dell’accelerazione del trend di variazione del livello del mare. In breve sintesi il livello del mare è influenzato, principalmente, da quattro fattori: la fusione della calotta glaciale groenlandese, la fusione della calotta glaciale antartica, il regime idrologico delle acque di superficie e di quelle sotterranee e, in modo preponderante, dalla dilatazione termica degli oceani a seguito delle variazioni del contenuto di calore degli stessi.
La modellazione fisico-matematica del fenomeno risente di numerose incertezze che riguardano principalmente la stima del contenuto di calore degli oceani e delle variazioni nell’uso dei suoli e, quindi, del regime idrologico delle acque superficiali e sotterranee. Ciò che maggiormente è in grado di influenzare la velocità di variazione del livello del mare, però, è il tasso di fusione delle calotte glaciali. Gli studiosi fino ad oggi si sono dimostrati piuttosto sicuri circa la stima del contributo della fusione delle calotte glaciali continentali all’innalzamento del livello dei mari in quanto disponevano di una serie di dati che consentivano di valutare la velocità di scorrimento dei ghiacciai e la diminuzione del loro volume.

In questo breve post mi occuperò della calotta glaciale groenlandese il cui comportamento si sta rivelando molto più complesso di quanto si pensasse. Inizialmente gli scienziati avevano ipotizzato uno stretto legame tra temperature superficiali e tasso di scorrimento dei ghiacciai verso il mare. Il meccanismo ipotizzato e sul quale sono basati i modelli matematici utilizzati per delineare gli scenari di evoluzione delle coltri glaciali continentali è il seguente. Durante l’estate boreale la superficie della calotta glaciale subisce un processo di fusione dipendente oltre che dal soleggiamento anche dalla temperatura dell’aria. L’acqua di fusione scorre sulla superficie e viene raccolta in depressioni al fondo delle quali dei camini verticali la conducono alla base dello spesso strato di ghiaccio che costituisce la calotta (in alcuni punti è superiore al chilometro). Le acque di fusione a contatto con il substrato solido su cui poggia il ghiaccio, determinavano la formazione di una specie di fanghiglia che, agendo da lubrificante, accelera il naturale processo di scivolamento dello strato di ghiaccio verso il mare e, quindi, la sua fusione con conseguente aumento del livello del mare. In base a questo modello appare del tutto logica la catena causale: maggiore temperatura –> maggiore fusione superficiale –> più acqua convogliata verso la base dei ghiacciai –> maggiore velocità di scorrimento della coltre glaciale –> maggior arretramento del fronte glaciale –> incremento della velocità di variazione del livello dei mari.

Con l’approfondimento delle conoscenze si è scoperto che la semplice relazione: più caldo –> maggior velocità di aumento del livello del mare non era del tutto veritiera. Se ciò venisse provato perderebbero di valore le modellazioni semi-empiriche che tendono a mettere in relazione il riscaldamento globale (quindi la concentrazione di CO2 atmosferica) con l’incremento del tasso di aumento del livello dei mari.

Poco più di un anno fa Petrunin et al., 2013 (qui, su CM, il post di commento ed i riferimenti bibliografici) avevano messo in evidenza che i modelli basati solo sugli aspetti fisico-meccanici ed isostatici (cinematici, in breve) non erano in grado di giustificare le differenze di temperatura basale che erano stati misurati sul fondo di pozzi di perforazione anche piuttosto vicini. Lo studio condotto nella Groenlandia centrale, sulla scorta dei dati sperimentali, aveva proposto un modello alternativo che accoppiava i modelli cinematici con un modello termodinamico. Quest’ultimo teneva conto del flusso di calore proveniente dallo strato roccioso basale generato da complesse reazioni che coinvolgevano elementi radioattivi presenti nella roccia di base e anche da fenomeni geotermici.

Da poco è stata pubblicata su Nature una letter:

Direct observations of evolving subglacial drainage beneath the Greenland Ice Sheet
di L. C. Andrews et al. (qui l’abstract)

Questo studio (da ora Andrews et al., 2014) ha potuto verificare, mediante una campagna di scavi condotta nella Groenlandia occidentale, che la velocità di scorrimento dei ghiacciai durante la stagione estiva non è costante, né varia in modo proporzionale all’avanzare dello scioglimento della parte superficiale (pochi millimetri) della calotta glaciale. In altre parole gli autori dello studio hanno potuto notare che la velocità di scorrimento dello strato ghiacciato cresce nella prima parte della stagione estiva e, verso la metà dell’estate, rallenta fino a raggiungere il valore minimo durante l’inverno. Si tratta di un’evidente sconfessione (se non totale parziale) dello schema causale indicato nella parte iniziale del post e, soprattutto, nega che esista una relazione lineare tra temperatura superficiale e velocità di scorrimento del ghiaccio.

Secondo Andrews et al., 2014 sembra che il sistema idrologico basale delle coltri glaciali aumenti la sua capacità drenante nel corso della stagione estiva per cui, ad un certo punto, le acque di fusione vengono allontanate in modo più rapido ed efficiente impedendo alle stesse di lubrificare la superficie di scorrimento del ghiaccio. La conseguenza è un aumento dell’attrito e, quindi, un rallentamento dello scorrimento delle placche ghiacciate. Gli autori sono giunti a questa conclusione constatando che la pressione basale delle acque di fusione in corrispondenza dei camini (moulins) di testa e del tutto sfasata con la pressione dell’acqua alla base di condotti verticali distanti tra 0,3 e 2 km dal condotto di testa. Andrews et al., 2014 è del parere che la variazione di velocità dello strato ghiacciato non dipende da variazioni della portata dei camini verticali e sub-glaciali, ma dagli scarsi collegamenti tra le diverse regioni della base rocciosa della calotta glaciale. Ciò determina una grande variabilità temporale e spaziale della velocità di scorrimento dei ghiacciai. Secondo gli studiosi le conclusioni del loro studio dimostrano che la scienza non ha ancora compreso del tutto le dinamiche che caratterizzano l’evoluzione delle calotte glaciali groenlandesi durante il periodo estivo ed in quelli precedenti e successivi.

A conclusione di questo breve commento non posso che mettere in evidenza che gli studi, anche molto recenti, dimostrano ancora una volta lo scarso livello di comprensione dei meccanismi che regolano i fenomeni naturali. Ipotizzare che le temperature atmosferiche e, in ultima analisi, la CO2 sia l’unico driver del sistema climatico, è quantomeno azzardato in quanto gli scienziati scoprono ogni giorno nuovi meccanismi con cui il sistema climatico reagisce alla variazione di uno o più parametri che lo caratterizzano. In questo caso sembra che esista un meccanismo di “compensazione” che di fronte ad un aumento della velocità di scorrimento del ghiaccio, entra in azione e tende a ridurre questa velocità. L’influenza di questi due meccanismi (flusso di calore basale e variazione della risposta dinamica al processo di fusione della parte superficiale della calotta groenlandese) che si affiancano e, in parte lo modificano, allo schema fisico-meccanico tradizionale, ha forti ripercussioni anche sulla stima della variazione del livello del mare e, alla fine, rappresenta un ulteriore elemento a sfavore dei modelli semi-empirici che portano a sopravvalutare in modo eccessivo le stime del livello del mare alla fine del secolo attuale.

La vicenda dimostra ancora una volta, infine, che le simulazioni modellistiche devono sempre confrontarsi con la verità dei dati osservativi. Non sempre gli output dei modelli coincidono con le osservazioni e ciò rende difficile la convivenza tra i due metodi di rappresentazione della realtà. La cosa è comune nella quasi totalità della ricerca scientifica e i ricercatori trascorrono buona parte del loro tempo a modificare i modelli matematici per adeguare i loro output alle osservazioni. Ciò è del tutto normale ed encomiabile: spiace che non succede altrettanto anche nella scienza del clima ed ambientale in genere.

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Published inAttualità

5 Comments

  1. donato

    @ Fabio Vomiero

    375 chilometri cubi di ghiaccio all’anno sono una quantità notevole, è fuori dubbio. Il problema dei dati CryoSat è che partono dal 2009 per cui nulla sappiamo di preciso sul “prima”. I dati satellitari precedenti risalgono fino a circa 20 anni prima, ma sorge un problema di omogeneizzazione. A mio modesto giudizio quello che realmente conta non è il valore assoluto, ma il trend con cui varia il tasso di fusione delle calotte glaciali groenlandese ed antartica. In merito gli studiosi non appaiono univocamente orientati. Stando a quanto riferiscono i responsabili di CryoSat il trend è in aumento (almeno per la Groenlandia occidentale e meridionale e per la penisola antartica). Per il resto dell’Antartide, invece, il trend è in rallentamento e, credo, che lo stesso valga per la restante parte della Groenlandia (stando ai diagrammi che segnalano le variazioni del trend di fusione e reperibili al sito http://www.esa.int/Our_Activities/Observing_the_Earth/CryoSat/Ice_sheet_highs_lows_and_loss ).
    .
    Lo studio di cui si parla nel post, ad ogni buon conto, si propone l’obbiettivo di affinare i modelli fisico-meccanici che schematizzano lo scarico a mare dei ghiacciai groenlandesi, cercando di capire meglio l’interazione suolo-ghiaccio. E’ questo, infatti, il dato che influenza i modelli accoppiati utilizzati per stimare il tasso di aumento del livello del mare e questo meccanismo è essenziale ai fini dell’attribuzione della responsabilità dell’accelerazione o del rallentamento del processo di scarico in mare. Il satellite misura la variazione di volume delle calotte glaciali, ma non fornisce alcuna informazione sulle cause che determinano l’accelerazione o il rallentamento del fenomeno. Il modello cerca, invece, di schematizzare il fenomeno sulla base di ipotesi e teorie. Tali ipotesi, stando ai risultati dello studio di Andrews et al., 2014, devono essere riviste sulla scorta delle misurazioni effettuate dal gruppo di autori dell’articolo. Detto in altri termini il modello attuale necessita di un’accurata revisione che tenga conto della conformazione planoaltimetrica della Groenlandia (credo che molti si ricorderanno del canyon monstre scoperto circa un anno fa), del flusso di calore proveniente dalla crosta terrestre e della variazione della velocità di scorrimento dei ghiacciai a causa dell’effetto lubrificante dell’acqua di fusione.
    Gli effetti di queste modifiche potranno essere lievi o marcati: oggi come oggi non lo sappiamo. I 375 chilometri cubi di perdita di ghiaccio annui potrebbero essere causati da qualcuno o da tutti questi fattori, oppure da cause che ancora non conosciamo. Né siamo in grado di stabilire se in un passato più lontano (un millennio, per esempio) il tasso di fusione fosse maggiore o minore di quello attuale. Se l’inospitale Groenlandia attuale è stata chiamata Terra verde in epoca medievale una ragione deve pur esserci….
    .
    @ Guido Botteri
    A breve ho intenzione di parlare piuttosto diffusamente del problema che hai posto.
    Ciao, Donato.

  2. Fabio Vomiero

    Naturalmente i 375 km cubi di ghiaccio persi sono annui.

  3. Fabio Vomiero

    Personalmente, concordo sostanzialmente, soprattutto con le conclusioni del dott.Donato, che giustamente mette in evidenza la non soddisfacente comprensione di molti meccanismi che regolano i fenomeni naturali in genere, che comunque, è bene ricordarlo, sono di natura sempre probabilistica. Leggendo, sempre con molto interesse tra l’altro, mi verrebbero in mente soltanto due valutazioni. La prima riguarda la mia posizione sui modelli fisico-matematici e che sostanzialmente è positiva. Nel senso che l’estrema complessità dei fenomeni con cui la scienza moderna deve confrontarsi, non può più prescindere da questo tipo di approccio, che a mio avviso non va a scontrarsi con il classico metodo galileiano, ma anzi lo completa e lo evolve, a me piace pensare ad un’epoca post-galileiana. L’errore che secondo me a volte si commette, è quello di pretendere da questi modelli l’infallibilità, il che da un punto di vista scientifico è un nonsenso, per tutta una serie di motivi, tra l’altro in parte messi bene in evidenza anche da un encomiabile recente lavoro proprio di Donato sui sistemi complessi. La seconda valutazione riguarda invece da vicino l’argomento trattato. È chiaro che i meccanismi (perché probabilmente come sempre si tratterà di multifattorialità) non sono ancora stati compresi pienamente però dall’altra parte abbiamo tutta una serie di dati che parlano chiaro. Si prendano ad esempio i dati Cryosat, forse il meglio che abbiamo, che vanno ad integrare poi una già nutrita serie del predecessore ERS. Si parla di scioglimento (in generale) di circa 375 Km cubi di ghiaccio continentale dalla piattaforma groenlandese, concentrato soprattutto nelle zone costiere meridionali e occidentali. Dal 2009 la perdita del volume sarebbe aumentata di un fattore due. Allora, questi sono dati. Mi chiedo e chiedo anche a voi: che peso vogliamo dare a questi dati? Sono dati coerenti con quelli del riscaldamento globale osservato ad oggi, che tra l’altro risulterebbe amplificato proprio in sede artica? A me sembrerebbe di sì. Saluto sempre tutti cordialmente.

    • Fabio,
      può darsi che siano coerenti. Ma potrebbero anche esserlo con il periodo climatico, che è comunque un interglaciale, così come potrebbero esserlo con l’uscita dalla PEG. E questa distinzione non può esser fatta data la brevità delle serie.
      gg

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